Willis Corto, colonnello, si era calato attraverso un punto cieco delle difese russe sopra Kirensk. Le navette avevano creato una breccia tramite bombe a pulsazione, poi la squadra di Corto era penetrata su ultraleggeri Nightwing, con le ali che fremevano secche alla luce della luna, riflesse in argentee frastagliature sui fiumi Angara e Podkamennaya, l’ultima luce che Corto avrebbe visto per quindici mesi. […]
Poi i laser avevano aperto il fuoco, mirando nell’infrarosso, colpendo i fragili aerei d’assalto invisibili al radar, e Corto e il suo uomo alla consolle, già stecchito, erano precipitati dal cielo siberiano. Erano caduti e avevano continuato a cadere…
(Gibson 2021).
Quando scrive questo passaggio di Neuromante, ricostruendo il passato di Armitage, l’uomo che ingaggia Case per conto di un ignoto committente che si rivelerà essere la potente intelligenza artificiale conosciuta come Invernomuto, William Gibson ha un modello ben definito nella testa. Nella fondamentale, illuminante intervista rilasciata a Larry McCaffery nel 1986, lo dichiara apertamente:
“[…] ho visto il film (1997: Fuga da New York, ndr) quando stavo cominciando La notte che bruciammo Chrome, e devo ammettere che ha avuto una certa influenza su Neuromante. Sono stato davvero affascinato dallo scambio di battute in una delle scene d’apertura, dove il direttore dice a Jena: «Hai volato sul Wing-5 sopra Leningrado, non è vero?». Era solo una battuta isolata, ma in quel momento ha funzionato come nella fantascienza migliore, dove un riferimento casuale può significare molto”
(Gibson, Sterling 2001).
La battuta riferita da Gibson è quella pronunciata dall’alto commissario Bob Hauk (Lee Van Cleef, indimenticato coprotagonista della Trilogia del Dollaro di Sergio Leone), responsabile del carcere di massima sicurezza di New York, che nell’originale suona in realtà leggermente diversa (“Volasti col Gullfire a Leningrado. Sai calarti su una città, inosservato”) e arriva al culmine di un serrato scambio verbale tra lui e Jena Plissken, un reduce pluridecorato, appena trasferito nel Centro di Controllo di Liberty Island dopo essere stato catturato e condannato all’ergastolo per una rapina a mano armata in Colorado.
A prestare il suo grugno strafottente e il cipiglio inamovibile al fuorilegge, dietro una barba incolta e l’inconfondibile benda sull’occhio sinistro (che in alcune locandine salterà a destra…), troviamo un trentenne Kurt Russell. Dismessi i panni dell’eroe per famiglie della Disney che aveva incarnato nel decennio precedente, Russell impone un vero e proprio role model: l’antieroe senza morale, che passa con una scrollata di spalle, tra un tiro di sigaretta e l’altro, dalle decorazioni del veterano di guerra alla fedina penale del criminale incallito. Come attesta l’ammissione di Gibson, l’influsso di 1997: Fuga da New York è immediato e si estende ben oltre la settima arte. Costato sei milioni di dollari, ripagherà i produttori con un incasso otto volte più alto, generando un’onda lunga che avrebbe attraversato tutto il decennio, sopravvivendo perfino all’inciampo di Carpenter in un orrido, dimenticabilissimo sequel, fino ad arrivare ai giorni nostri.
“Chiamami Jena”
Quando John Carpenter riuscì a farsi assegnare il primo budget multimilionario della sua carriera, erano trascorsi sette anni dall’esordio con Dark Star, passato quasi del tutto inosservato nel 1974 ma col tempo destinato a guadagnarsi l’affetto di una nicchia di appassionati, seguito a stretto giro da Distretto 13 – Le brigate della morte (1976), un western metropolitano che avrebbe raccolto un suo culto in Europa, pur senza fare faville al botteghino. Le due uscite cinematografiche successive, lo slasher Halloween – La notte delle streghe (1978) e la pellicola horror d’atmosfera Fog (1980), forti anche dell’astro nascente di Jamie Lee Curtis, erano riuscite a tradurre in ricavi stellari investimenti risicatissimi, consolidando la credibilità di Carpenter presso i produttori.
Forte di un impegno produttivo finalmente all’altezza della sua visione, il regista americano rispolverò quindi una vecchia sceneggiatura, risalente addirittura agli anni Sessanta e già più volte rimaneggiata. L’esito gli avrebbe aperto le porte delle major, ma già dal successivo La cosa, fantahorror tratto dal racconto La cosa da un altro mondo di John W. Campbell e rifacimento del film omonimo prodotto nel 1951 da Howard Hawks, uno dei suoi preferiti fin dall’infanzia, il rapporto si sarebbe rivelato un calvario, non riuscendo più a replicare il successo delle pellicole precedenti e relegando Carpenter nel ruolo di autore di culto ma in grado di dialogare proficuamente solo con un pubblico d’élite.
Per molti versi, proprio 1997: Fuga da New York e La cosa rappresentano il culmine artistico della sua carriera, con una riuscita che in seguito verrà sfiorata solo in un paio di occasioni, il pastiche lovecraftiano Il seme della follia (1994) e Cigarette Burns (2005), l’episodio della prima stagione di Masters of Horror affidato alle sue cure. E se La cosa va a riproporre abbastanza fedelmente lo schema dell’assedio già esplorato in Distretto 13, pur con la variante del nemico dentro, in un’escalation di sospetti e paranoia che nella scia di Alien (1979) ne fa subito una pietra miliare del genere, elementi che trovavamo nel thriller del 1976 rivivono, opportunamente rielaborati, anche in 1997: Fuga da New York.
Grande appassionato fin da giovane dei western di Hawks e John Ford e della fantascienza degli anni Cinquanta, Carpenter si era dedicato a lungo a delineare un progetto incentrato su Clint Eastwood come potenziale protagonista. Man mano che lo script prendeva forma, appariva tuttavia sempre meno congeniale per il personaggio tutto d’un pezzo a cui Eastwood aveva finito per legare le sue interpretazioni in ambito western e poliziesco.
La caratterizzazione di Jena Plissken (“Snake” nella versione originale del film, nomignolo peraltro più indicato considerando l’enorme tatuaggio di un cobra che esibisce sul torace in alcune scene del film) fu quindi calata su Kurt Russell, che nel 1978 aveva lavorato con Carpenter in un biopic televisivo dedicato a Elvis. Altri collaboratori assidui di Carpenter che presero parte al film furono Donald Pleasence nel ruolo del Presidente John Harker (“Presidente di che?”, per citare una delle memorabili battute messe in bocca a Plissken) e Adrienne Barbeau nella parte di Maggie, l’assistente e guardia del corpo di Mente (Brain, nell’originale). A completare un cast di prim’ordine, Harry Dean Stanton (Harold “Mente” Helman), il musicista e compositore Isaac Hayes (proprio lui, l’autore del memorabile tema di Shaft) nella casacca del Duca di New York e Ernest Borgnine alla guida di uno degli ultimi taxi ancora in circolazione per le strade di Manhattan.
“Erano anni che non vedevo New York…”
La sceneggiatura, rimaneggiata e completata da Carpenter con l’assistenza di Nick Castle, l’attore che già aveva partecipato a Dark Star e, soprattutto, aveva interpretato il ruolo dell’assassino psicopatico Michael Myers nel primo Halloween, racconta la storia di un’odissea urbana sullo sfondo di una metropoli fuori controllo. Dopo che l’indice di criminalità è salito del 400%, nel 1988 il governo ha trasformato New York in un carcere di massima sicurezza. I ponti e i tunnel che uniscono Manhattan al resto della città sono stati minati e un muro di cinta alto quindici metri percorre le linee costiere del New Jersey e degli altri boroughs. “La forza di polizia statunitense, come un esercito, è accampata intorno all’isola” spiega la voce della narratrice all’inizio del film.
“Non vi sono guardie, dentro il carcere. Solo i prigionieri e i mondi che si sono creati. Le regole sono semplici: una volta entrati, non si esce più”.
Jena Plissken, appena processato, arriva a Liberty Island proprio mentre l’aereo che sta trasportando il Presidente degli Stati Uniti d’America viene dirottato da un gruppo di ribelli antiimperialisti e fatto precipitare su Manhattan. Bob Hauk, responsabile della città-prigione, decide quindi di assoldarlo per una missione di recupero: come incentivo, fa iniettare a Plissken delle microbombe che detoneranno entro ventidue ore se non verranno neutralizzate tramite un’esposizione ai raggi X. L’America è infatti in guerra con le altre superpotenze e quando l’aereo è stato dirottato il presidente si stava recando nel Connecticut per un summit con i rappresentanti di Russia e Cina per siglare un armistizio, condividendo con loro, in un atto di distensione, la formula della fusione nucleare.
È l’inizio di una discesa all’inferno che porterà Plissken a incrociare le numerose gang in cui si sono organizzati i cittadini della Grande Mela (i Pazzi, i Teschi, i Turchi, gli Indiani, etc.), federati sotto il controllo del vero sovrano di questa bolgia in cui l’unica legge compresa da tutti è la violenza: il famigerato Duca di New York. Lungo la strada, Jena s’imbatte in Mente, suo ex socio in affari che lo tradì durante un colpo a Kansas City. Il resto è tutta una corsa contro il tempo, scandita dalle note sintetiche dell’implacabile, ossessiva colonna sonora composta – come da sua abitudine – dallo stesso Carpenter con la collaborazione di Alan Howarth e costellata di momenti e dettagli indimenticabili: il sorvolo notturno di Manhattan da parte dell’ultraleggero di Plissken, fino all’atterraggio di fortuna sulla sommità di una delle Torri Gemelle del World Trade Center; il raid dei cannibali che emergono dalle fogne; gli avanzi di galera incantati davanti a Everyone’s Coming to New York, una pièce parodistica che fa il verso agli spettacoli di Broadway cantando allegramente “Shoot a cop with a gun / The Big Apple is plenty of fun”; il covo di Mente nella sede della New York Public Library, i cui piani inferiori vengono trivellati per estrarre petrolio dalle viscere della città; la parata del Duca guidata dalla sua Cadillac decorata con dei lampadari; il duello gladiatorio a cui Jena viene costretto nell’arena ricavata nel Grand Central Terminal che ospita il quartier generale del Duca; l’inseguimento finale sul ponte che conduce verso la libertà…
1997: Fuga da New York contiene molti omaggi anche a colleghi di Carpenter come Don Taylor, David Cronenberg o George Romero, che prestano i loro nomi ad alcuni personaggi di contorno. Particolarmente degna di nota l’interpretazione di Romero da parte di Frank Doubleday, perfettamente a suo agio nel ruolo di un giullare psicopatico che viene inviato dal Duca a consegnare ai soccorritori impegnati nel primo tentativo di recupero del presidente, il messaggio di guerra da parte del popolo di New York:
“Romero: Se mi toccate, muore. Se non sparite entro trenta secondi, muore. Se ritornerete, muore. [Estrae un fazzoletto che avvolge un dito mozzato del Presidente] Venti secondi…
Bob Hauk: Possiamo trattare…
Romero: Diciannove, diciotto…
Bob Hauk: Che cosa volete?
Romero: Diciassette, sedici…”.
“Mi chiamo Plissken!”
La sceneggiatura di Carpenter e Castle sembra distillare le trovate migliori di Distretto 13: fin dalla sua entrata in scena, Plissken eredita diverse caratteristiche del personaggio di Napoleone Wilson, il pericoloso criminale condannato alla pena di morte che unisce le sue forze con il tenente Ethan Bishop contro le feroci gang di Los Angeles che assediano il ghetto di Anderson. Battute lapidarie, scambi memorabili, personaggi sopra le righe.
E come già accadeva in Distretto 13, le istituzioni ne escono malissimo: la polizia manipola senza scrupoli Plissken per costringerlo a compiere la sua missione di salvataggio, il Presidente non è altro che un sadico vendicativo interessato solo al proprio tornaconto personale. In questo mondo, un uomo come Plissken non può che percorrere la sua strada da solo, come i cowboy fuorilegge dei vecchi western. Oltre al precedente carpenteriano, altre pellicole verso cui 1997: Fuga da New York è debitrice sono sicuramente Mad Max di George Miller, per lo scenario di imbarbarimento che segue al collasso della civiltà, e I guerrieri della notte di Walter Hill, che racconta le peripezie urbane di una gang inseguita da altre bande rivali e costretta ad attraversare l’intera città per fare ritorno a Coney Island.
Proprio con Mad Max e i due capolavori di Ridley Scott di quegli anni, il già citato Alien e Blade Runner (1982), 1997: Fuga da New York viene spesso menzionato come spartiacque nella rappresentazione cinematografica del futuro. Questi film entrati nel mito impongono all’attenzione del grande pubblico una prospettiva che sembra ribaltare le premesse di tutta la fantascienza che li aveva preceduti: non che fossero mancate le distopie, ma fino a quel momento, soprattutto al cinema, in un modo o nell’altro il futuro era sempre stato un tempo per molti versi migliore di quello da cui lo scrutava lo spettatore. Al più poteva riservare una minaccia, poteva mettere in pericolo il protagonista, ma si andava sempre verso una società più avanzata della nostra e, soprattutto, la conquista della frontiera non era mai in discussione. Si guardava, insomma, verso un orizzonte se non proprio ottimista, quantomeno auspicabile.
Mad Max e Alien prima, e poi appunto Fuga da New York e infine Blade Runner, incrinano definitivamente questo blocco di fiducia: il futuro diventa un luogo sporco, violento, letale. La società crolla a pezzi, il potere è nelle mani del più forte e il caos regna sovrano. Dopo le bande motorizzate che scorrazzano per le sterminate distese dell’Australia e la Compagnia in cerca tra le stelle di nuove risorse per le proprie linee di produzione, con gli anni Ottanta arriva il turno del manufatto per eccellenza del processo di civilizzazione: la città, segno tangibile del dominio dell’uomo sulla natura, viene trasposta nel suo negativo, condensando tutto il distillato di inquietudini e paranoie che dall’Interzona di Burroughs, dalla letteratura hard-boiled e dalla New Wave degli anni Settanta confluirà nell’immaginario cyberpunk. E la città in preda al caos, creatura vivente essa stessa, famelica e spietata, si prende la scena, dando espressione a una sensibilità che avremmo ritrovato negli anni seguenti in innumerevoli capolavori, dal fumetto (si pensi allo straordinario La città del duo argentino Bareiro e Giménez) al cinema (e qui basti citare Strange Days di Kathryn Bigelow e Dark City di Alex Proyas).
Nei bassifondi del futuro, non solo la vita non è migliore del nostro vissuto quotidiano, ma la sopravvivenza stessa è costantemente minacciata. I protagonisti sono in pericolo non tanto nella contrapposizione con l’antagonista di turno – che, anzi, spesso si rivela più umano dei loro stessi presunti alleati, sia in 1997: Fuga da New York che, in maniera ancora più esplicita, in Blade Runner – ma perché la precarietà rappresenta la condizione esistenziale di base del loro mondo. Ricordiamo la famosa battuta che il capitano Bryant (M. Emmet Walsh) rivolge a Deckard (Harrison Ford), nel tentativo di convincerlo ad accettare l’incarico di Blade Runner: “Conosci questo mondo, amico: se non sei della polizia, non hai peso”. O ancora le granitiche direttive della burocrazia corporativa scolpite nei circuiti di Mother, il computer di bordo del cargo Nostromo:
“Cambiata rotta Nostromo a nuove coordinate per investigare forma vita. Raccogliere esemplare. Precedenza assoluta. Assicurare ritorno organismo per analisi. Qualsiasi altra considerazione secondaria. Equipaggio sacrificabile”
(Scott 2004).
Una parte non trascurabile del merito per la riuscita di 1997: Fuga da New York, oltre che alla scrittura di Carpenter e Castle, all’interpretazione leggendaria di Kurt Russell, all’incedere lugubre e ipnotico della colonna sonora, va senz’altro alla fotografia di Dean Cundey, collaboratore di fiducia di Carpenter, che negli anni successivi ritroveremo spesso anche al fianco di Robert Zemeckis, oltre che all’opera con Steven Spielberg su Jurassic Park.
La resa scenografica dei set allestiti alla periferia di St. Louis, in un complesso industriale da poco distrutto da un incendio, contribuisce a rendere indimenticabile la visione, costruendo un’esperienza immersiva totalizzante e perfino mesmerica per lo spettatore, ricreando lo stupore analogico di quelle sensazioni che con il prevalere degli effetti in computer grafica si sarebbero andate gradualmente, inesorabilmente estinguendo nel cinema successivo.
Sono quarant’anni che cerchiamo di scappare da New York, ma anche grazie alla singolarità messa a punto da Carpenter e dai suoi collaboratori, ai “mondi che si sono creati” sull’isola-prigione, restiamo tuttora intrappolati nei suoi bassifondi psichici.
- Ricardo Barreiro, Juan Giménez, La città, Eura Editoriale, Roma, 1989.
- William Gibson, Neuromante, in AA.VV., Cyberpunk. Antologia assoluta, Mondadori, Milano, 2021.
- William Gibson e Bruce Sterling, Parco giochi con pena di morte, Mondadori, Milano, 2001.
- Autori vari, Masters of Horror, Rai Cinema, 2007 (home video).
- Kathryn Bigelow, Strange Days, Fox, 2002 (home video).
- John Carpenter, Dark Star, Eagle Pictures, 2006 (home video).
- John Carpenter, Distretto 13 – Le brigate della morte, Serendipity, 2020 (home video).
- John Carpenter, Fog, Eagle Pictures, 2020 (home video).
- John Carpenter, Halloween – La notte delle streghe, Koch Media, 2019 (home video).
- John Carpenter, Il seme della follia, Cecchi Gori, 2002 (home video).
- John Carpenter, La cosa, Universal, 2003 (home video).
- Walter Hill, I guerrieri della notte, Paramount, 2021 (home video).
- George Miller, Inteceptor, Wb, 2010 (home video).
- Alex Proyas, Dark City, Cecchi Gori, 2002 (home video).
- Ridley Scott, Alien, 20th Century Fox – Disney, 2004 (home video).
- Ridley Scott, Blade Runner – Final Cut, Warner Bros, 2008 (home video).