Quando Sanatorium pod klepsydrą venne presentato a Cannes nel 1973, aggiudicandosi il premio della giuria del festival, Wojciech Jerzy Has aveva alle spalle quasi un ventennio di carriera nel mondo del cinema. Un curriculum composto da una mezza dozzina di lungometraggi, perlopiù tratti da opere letterarie, che lo avevano distinto avendo preferito avventurarsi in zone di frontiera tra la realtà e l’immaginazione e non aver ceduto alla tentazione di soffermarsi sul registro dell’indagine sociale o morale, discostandosi di fatto dalla cinematografia ufficiale rigorosamente allineata al più stolido realismo socialista. Un percorso ricostruito in tutti i suoi tasselli dalla retrospettiva approntata per l’edizione 2025 di Bergamo Film Meeting in occasione del centenario della nascita del regista.
Indicato come il suo capolavoro, il film che trasse dal romanzo Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki riassumeva appieno le scelte formali e sostanziali operate sin dall’esordio nel lungometraggio con Pętla (Il cappio), un film tratto a sua volta da un romanzo di Marek Hłasko, scrittore della stessa generazione dei nuovi registi polacchi emersi nei primi anni Sessanta, tra cui i pesi massimi Roman Polanski e Jerzy Skolimowski. È la storia di un giorno nella vita di un alcolizzato, Kuba, alle prese con la sua dipendenza dall’alcool. Un uomo solo con i propri demoni, che cerca di resistere alla tentazione di bere, che cerca di trovare la vita sopportabile senza alcol, soprattutto che tenta di combattere quei demoni. Tutto ruota intorno allo scorrere delle ore, alla loro durata interiore. La sua fidanzata lo accompagnerà alle 20 in una clinica per iniziare la terapia di disintossicazione. Sono le otto del mattino, c’è subito in apertura un orologio a dare il via, ma lo scorrere del tempo presto sarà scandito come in uno sogno.
Il tempo è il motore stesso anche di Sanatorium pod klepsydrą, in modo sbrigativo indicato in italiano come La clessidra. Il film dopo Cannes si aggiudicò l’anno successivo anche il premio Asteroide d’Oro al Festival Internazionale del Film di Fantascienza di Trieste, come si chiamò la manifestazione giuliana fino al 1982 per poi riprendere nel 2000 con l’attuale denominazione di Trieste Science+Fiction Festival. Allora la rassegna si svolgeva in estate e proprio su La Stampa del 16 luglio si auspicò a premiazione avvenuta che il film godesse di una regolare distribuzione italiana, ma così non fu e la pellicola nel tempo è apparsa in rassegne varie, giungendo ora al BFM all’interno della personale.
Has trasse il film da Il Sanatorio all’insegna della Clessidra, un racconto di Bruno Schulz, lo sventurato scrittore assassinato dalla Gestapo nel pieno dell’occupazione nazista della Polonia. In realtà il film chiama a raccolta fatti e personaggi da diverse storie di Schulz, anche perché il racconto è intrecciato con gli altri racconti che compongono il suo secondo libro pubblicato in vita, un volume dal medesimo titolo illustrato da egli stesso. Schulz era uno “tre moschettieri della moderna letteratura polacca, tre cavalieri di quel «materiale esplosivo che si chiama Forma», tre bislacchi sui margini”, come li definì Angelo Maria Ripellino riferendosi a lui, a Witold Gombrowicz e a Stanisław Witkiewicz quando per primo lo fece conoscere in Italia (Ripellino, 1981). Il film ebbe una lunga gestazione, un intero lustro, e fu osteggiato dalle istituzioni e dai censori in patria una volta presentato a Cannes. Miopia vera e propria, anzi cecità assoluta: Sanatorium pod klepsydrą è un capolavoro assoluto, un trionfo dell’immagine, del sogno, dell’avventura onirica, del nonsenso, un viaggio nell’altroquando dove tutto è assurdamente simultaneo e inafferrabile.
Considerata l’epoca in cui venne realizzato, può ben dirsi un trip psichedelico, un’esperienza lisergica, zeppa di blu e verdi profondi, rossi accesi, coloratissima pur svolgendosi in un luogo, un ospedale che è un vecchio castello, in cui tutto è sotto il segno dell’abbandono, invaso dalla vegetazione incolta, dai resti di un cimitero antico, da ragnatele distese ovunque e macerie. Un micro mondo al tempo stesso vitale, folle, bizzarro come una sfilata carnevalesca, e immobile, ammuffito, una sorta d’inventario di oggetti perduti che danno vita a un museo surreale. A tratti sfarzoso, teatrale, può ben dirsi l’equivalente filmico della descrizione che Schulz fece dell’autunno:
“un grande teatro ambulante che inganna con la poesia, un’immensa cipolla variopinta che si sfoglia, un velo dopo l’altro, in un panorama sempre nuovo. Mai si raggiunge il fondo. Dietro ogni quinta, appena questa sfiorisce e si accartoccia frusciando, appare un nuovo e radioso fondale, vivo e reale per un istante, prima di tradire, spegnendosi, la sua natura di carta. E tutte le prospettive sono dipinte, e tutti i panorami di cartone, e soltanto l’odore è vero, profumo di quinte sfiorite, profumo di un grande camerino pieno di cerone e di incenso”
(Schulz, 2008).
La vicenda per quel che vale prenderne nota prende il via dalla visita di un giovane uomo di nome Jozef a suo padre Jakub ospitato in un istituto di cura assai singolare: il Sanatorio. È una clinica dove si sospende, si rinvia la morte delle persone lì ricoverate, pur essendo queste già morte all’esterno ricorrendo a un semplice artifizio: si rallenta il tempo. Jozef viaggia in treno e la magistrale scena iniziale ne mostra il momento dell’arrivo a destinazione. I viaggiatori all’interno sono immobili, forse dormono, ma molti di loro hanno gli occhi aperti, paiono manichini, qualcuno ha le braccia riverse come cadaveri, una giovane donna è a seno nudo, richiama alla mente le giovani signore dipinte da quel surrealista sui generis che fu Paul Delvaux (ma è solo il primo dei rimandi artistici e iconografici, che nel corso della storia passeranno dal gotico a M.C. Escher, passando per Marc Chagall), mentre gli abiti degli altri passeggeri, anziani, donne, bambini, uomini indicano senz’ombra di dubbio che si tratta di gente del popolo ebraico e uno di loro sembra imbracciare i rotoli della Torah. L’ambiente è zeppo di cianfrusaglie d’ogni sorta, il controllore avanza a tentoni, è cieco, ma ha con sé una lampada a candela, segnala a Jozef, che è prossimo all’arrivo. Una volta attraversato un cimitero innevato, giunto al Sanatorio, dopo aver ricevuto risposte distratte da un’infermiera, mentre avvertiamo già dalle prime visioni dell’interno dell’edificio di aver attraversato al pari di Alice lo specchio, Jozef viene ricevuto dal dottor Gotard responsabile della struttura. Alla domanda se il padre sia effettivamente vivo, nel racconto il medico risponde così (e analogamente nel film:
“Certo che è vivo. […] Naturalmente nei limiti concessi dalla situazione. […] Il trucco consiste in questo […] abbiamo retrocesso il tempo. Noi lo ritardiamo di un certo intervallo di cui non è possibile determinare l’entità. La cosa si riduce ad un puro e semplice relativismo […] noi riattiviamo qui il tempo trascorso con tutte le sue possibilità, ivi compresa la possibilità di una guarigione”
(ibidem).
I piani temporali da qui iniziano a sovrapporsi, Jozef ha davvero varcato un portone d’accesso a dimensioni altre, la sua memoria, i suoi desideri, i suoi sogni macinano immagini. Appaiono umani che indossano stravaganti maschere di uccelli, automi, ricompare il controllore del treno, scivoliamo in una giungla nebbiosa al cui ingresso ci sono alcuni elefanti, e via di questo passo, gli incontri si susseguono, personaggi, forse manichini, statue, mummie, fantasmi, viventi in qualche modo “temporanei, creati per una singola occasione” si dice a un certo punto all’interno di un panoptikum. Tutto appare contemporaneamente, vicino e lontano, animato e inerte.
La scena evolve in una caleidoscopica antologia di luoghi geografici, periodi storici, specie animali e vegetali, razze ed etnie. Forse è tutto un sogno e d’altronde, come spiega l’infermiera, nel Sanatorio tutti dormono in continuazione. Nel suo procedere a spirale, non si può dire se la matassa del racconto si srotoli o si ingarbugli, ma in fondo poco importa, visto che le direzioni sono tutte equivalenti, e nemmeno lo scorrere del tempo mostra di avere delle preferenze. Possiamo intendere la cronologia degli eventi come una visione autobiografica (“Perché ho la sensazione di essere già stato qui? Tanto tempo fa” si chiede il protagonista a un certo punto), ma anche come i futuri non realizzatisi di Jozef. Riecheggiano le parole di Schulz:
“Cosí si compie in noi una regressione su tutta la linea, un ritrarsi in profondità, un ritorno alle radici.
Cosí ci ramifichiamo entro di noi per mezzo dell’anamnesi, […] in un parlottio, in una moltitudine di storie interminabili”
(ibidem).
Ogni momento agisce come una creatura bifronte che osserva il passato e visiona il domani e di un dualismo altrettanto fertile si nutre anche l’estetica del film, che da un lato dà luogo a una fantasmagoria all’insegna della massima libertà, dall’altro è ancorata a uno scrupoloso realismo del dettaglio che in ogni immagine fonde bellezza e splendore, banalità e magnificenza rendendola incantevole. L’onirico, l’inconscio sono le chiavi d’ingresso naturali alle fantasie erotiche di Jozef incarnate da Bianka, personaggio che arriva da un altro racconto de Il Sanatorio all’insegna della Clessidra intitolato Primavera. Prima di lei aveva incontrato un altro personaggio femminile fonte di desiderio giovanile, la cameriera Adela, narrata da Schulz trasversalmente in molti dei racconti sia ne Le botteghe color cannella che ne Il Sanatorio all’insegna della Clessidra.
Nella girandola di incontri, spicca l’eterno ritorno del controllore del treno che Jozef finirà per sostituire nel finale afflitto dalla medesima cecità, finendo per sbucare fuori da Sanatorio all’aperto, nel cimitero dove brillano mille candele accese e sua madre in piedi lo osserva. È un’immagine di rara potenza, concepita in modo da alludere all’angelo della storia di Walter Benjamin, almeno così è se vi pare. D’altronde Sanatorium pod klepsydrą è opera talmente stratificata da offrirsi a mille letture. Sicuramente è intessuta di concetti e simboli proveniente dalla Kabbalah, ma parimenti non ci si può esimere dal porre in relazione lo scorrere degli eventi nella storia i processi che Henri Bergson ha definito durata reale. Le sue parole paiono emergere come filigrana nella sceneggiatura di Has:
“Un essere umano che sognasse la propria esistenza al posto di viverla senza dubbio terrebbe così sotto il suo sguardo, in ogni momento, l’infinita moltitudine dei dettagli della propria storia passata”
(Bergson, 2014).
Che dire infine dei legami che il film di Has intrattiene con la storia del cinema, quello che la ha preceduto e quello che gli ha fatto seguito? A un certo punto Josezf si ritrova nel panoptikum succitato a tu per tu con l’imperatore Francesco Giuseppe e l’arciduca Massimiliano e a noi spettatori, oggi, non desterebbe meraviglia veder aggirarsi lì come a casa loro, incuranti delle incongruenze temporali rispetto alla data di nascita del film Luis Bunuel, Terry Gilliam, Peter Greenaway e David Lynch. Tutti insieme, perché l’immaginario non si lascia racchiudere dentro nessun confine, tantomeno temporale.
- Henri Bergson, Materia e memoria, Latera, Bari, 2014.
- Angelo Maria Ripellino, Introduzione a Le botteghe color cannella di Bruno Schulz, Einaudi, Torino, 1981.
- Bruno Schulz, Le botteghe color cannella. Tutti i racconti, i saggi e i disegni, a cura e con uno scritto di Francesco M. Cataluccio, Einaudi, Torino, 2008.