“Mektoub. È scritto”. Lo si legge ripetutamente, enunciato periodicamente, reiterato come un mantra, o più banalmente profferito a mo’ di intercalare congenito, come spesso accadeva a Williams Burroughs quando metteva un piede fuori dai suoi incubi in forma di finzioni per scrivere articoli e articoletti, o per rilasciare interviste.
Burroughs si ripeteva. Ossessivamente rimasticava un pugno di concetti, una manciata di idee, un elenchino di citazioni, a volte riproponendo letteralmente, parola per parola, da un testo all’altro, ora questo ora quello.
Mektoub, il destino è scritto, questo il significato profondo del termine e quello dell’hombre invisible, come lo ribattezzarono a Tangeri, iniziò a inscriversi nel proprio corpo con la prima dose delle innumerevoli sostanze assunte nel corso della sua vita. Burroughs era entrato uscito, rientrato, uscito nuovamente dalla tossicodipendenza, non va mai dimenticato. Le sue visioni circolari si ripresentano puntuali nei romanzi e altrettanto capitava in altri contesti con citazioni e fissazioni, così come analogamente a una dose segue una dose, a una dose segue una dose… replicandosi come virus e la parola è un virus, sosteneva Burroughs.
Se ne avverte l’eco nei testi raccolti in La calcolatrice meccanica (il titolo è farina del sacco dello stesso Burroughs), una miscellanea di quarantatré testi, talora trascrizioni di lezioni e/o corsi, pubblicati su riviste e periodici, in diversi casi rielaborazioni di dattiloscritti precedenti. Il lungo lavoro di messa a punto, di abbandono e di ripresa del progetto, andato avanti per dieci anni e ultimato nel 1985, è oggetto di una minuziosa e affettuosa ricostruzione da parte del curatore, James Grauerholz, nell’introduttivo La calcolatrice meccanica: una tabulazione degli anni Settanta, scritto per l’edizione pubblicata nel 2014 negli Usa in occasione del centenario della nascita di Burroughs. Tra fissazioni, ingenuità, banalizzazioni, discontinuità, rimasticature e lacerti biografici (ma, ricorda Grauerholz, “Burroughs disse molto anche «su Burroughs»… ma di solito con uno stile capace di nascondere tanto quanto di rivelare”), i testi antologizzati nella loro eterogeneità fanno sorgere in prima battuta una domanda legittima ma dalla vita breve: siamo di fronte a uno scrittore sopravvalutato, uno dei più sopravvalutati dell’intero Novecento? In La bella e il «bestseller», Burroughs prova a dar consigli su come far fortuna con un libro o con un film e accenna a una stramba storia con questo incipit:
“Louie la Luce apre i suoi occhietti neri e crudeli e scruta cauto la stanza. Si alza stordito e guarda la porta di fronte a sé. Rabbrividisce, memore di un’occasione in cui con i centri sessuali infiammati dagli elettrodi stava per varcare la soglia e raggiungere una splendida albina dagli occhi rosa. Appena toccata la porta, una scossa straziante aveva fatto contorcere il suo corpo scarno e una luce accecante aveva brillato dritto nelle sue pupille dilatate dal piacere. Dopo di che non riuscì a vedere per cinque giorni, durante i quali fu tenuto a digiuno. Fu il Doktor Hester a chiamarlo Louie la Luce, dal numero di luci cui era stato esposto”.
Scrittore sopravvalutato? Ipotesi per lettori scadenti. Nei testi inclusi in La calcolatrice meccanica si scivola continuamente nella finzione, anche magari per poche righe, perché il confine è fragilissimo, Burroughs non è un saggista, non si cura della veridicità di quanto afferma, anche quando sciorina documentazioni a sostegno, cita testi, casi, esperimenti discutibili, improbabili, ai confini della realtà scientifica. Coltiva la sua cosmologia privata, snocciola di continuo i medesimi riferimenti letterari, scientifici, o pseudo tali, storici e di cronaca, mescolandoli con invenzioni estemporanee, lacerti di storie, citazione da sé stesso, ricordi personali. Mektoub. È scritto. Quanto al leggere, tra i testi compare anche Lettura creativa, concepito perché
“Dopo aver tenuto vari corsi di scrittura creativa, sono arrivato a dubitare che la scrittura si possa insegnare. È come cercare di insegnare a qualcuno come sognare. Così ora insegno la lettura creativa”.
Gli innumerevoli libercoli sfornati in Italia danno la misura in tonnellate di carta sprecata della bontà di questa considerazione, cosicché anche questi testi minori sono preziosi. Mektoub. È scritto. Tutti i leit-motiv della Weltanschauung burroughsiana sono annotati in queste pagine e si susseguono alternandosi ora alla stregua dei ritmi martellanti dell’elettronica industrial ora nella reiterazione assillante della minimal music. È stranoto quanto musicisti di ogni dove, da mezzo secolo a questa parte, siano stati sedotti dalle visioni e dalle paranoie di Burroughs, a iniziare da Laurie Anderson che lo citava e lo ospitava nei suoi lavori. Language Is A Virus (From An Outer Space) era il brano di Home of the Brave, film/spettacolo/album che riproponeva anche Sharkey’sNight, il brano che chiudeva il precedente disco, Mister Heartbreak (1984), nel quale era proprio la voce aliena di Mr. Burroughs a risuonare inconfondibile. La parola è un virus, si è detto, già cantato nel lavoro multimediale della Anderson, United States Live (1984). Si tratta della teoria cardine del pensiero burroughsiano che si ritrova puntuale anche in La calcolatrice meccanica. In Dieci anni e un miliardo di dollari si legge:
“Dal 1971 la mia teoria generale è che la Parola sia in tutto e per tutto un virus non ancora riconosciuto come tale poiché ha raggiunto con il suo ospite umano uno stato relativamente stabile di simbiosi: ossia, il Virus della Parola (l’Altra Metà) si è confermato come parte accettata dell’organismo umano al punto che ora può ridersela dei virus delinquenti come il vaiolo e consegnarli all’Istituto Pasteur. Ma la Parola chiaramente reca con sé l’unica caratteristica distintiva di ogni virus: è un organismo senza alcuna funzione interna se non quella di replicarsi”.
Parimenti, in Operazione riscrittura, un capitolo de Il biglietto che esplose, si legge:
“L’«Altra Metà» è la parola. L’«Altra Metà» è un organismo. La parola è un organismo. La presenza dell’«Altra Metà» un organismo a parte che ti agganciano al sistema nervoso lungo una linea aerea di parole ora può essere dimostrata scientificamente. […] Il passo dalla simbiosi al parassitismo è breve. La parola è ora un virus. […] Una volta forse la parola era una cellula neurale sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno ha perso la facoltà di scegliere il silenzio. Prova a frenare il linguaggio subvocale. Prova ad arrivare anche a soli dieci secondi di silenzio interiore. Ti confronterai con un organismo antagonista che ti costringe a parlare. Quell’organismo è la parola”
(Burroughs, 2013).
Il refrain risuona lungo l’intera opera burroghsiana e non è l’unico. Ulteriori temi ricorrenti riguardano per la semantica generale di Alfred Korzybski, singolarmente apprezzata dal mondo della sci-fi (ispirò il romanzo Non A di Alfred Van Vogt e servi a Ron Hubbard come base teorica per elaborare la sua dottrina/culto – prima Dianetics e poi Scientology). Burroughs vi aderì per qualche anno al fine di studiarne i meccanismi di controllo che azionava, essendo la paranoia complottista e le logiche di sorveglianza un altro suo cavallo di battaglia, senza il quale la Trilogia Nova non avrebbe visto la luce. Non sarebbe stato possibile concepirla e scriverla soprattutto senza il ricorso alla pratica del cut-up esplorata dapprima dall’amico e sodale Brion Gysin, come si ricorda in vari testi raccolti ne La calcolatrice meccanica (“Il metodo cut-up di Brion Gysin consiste nel ritagliare pagine di testo per poi ricombinarle in un montaggio”, scrive in La caduta dell’arte, per esempio). Assieme a Gysin venne anche sedotto dalle presunte voci “dell’aldilà” registrate su nastro dal parapsicologo lettone Konstantin Raudive, esperienza riportata in Appartiene ai cetrioli, testo dove, una volta di più, Burroughs si ripete e ricita alla lettera le considerazioni sull’arte di Gysin e la sua tecnica del cut-up. Pseudoscienza, non la sola ad affascinarlo e il testo dedicato alla costruzione e all’utilizzo di una scatola di orgoni secondo le indicazioni dello psicanalista Wilhelm Reich (l’articolo è Le mie esperienze con la scatola di orgoni di Wilhelm Reich). Ne venne sedotto e se ne impratichì sin dalla primavera del 1949 ed ebbe come testimone oculare Jack Kerouac, il quale ne fece una descrizione in Sulla strada (1951).
C’è poi un altro libro nella manciata dei testi ricorrenti, anch’esso un punto cardinale dell’universo burroughsiano, Esperimento col tempo (1924) di John Dunne, che instaura una relazione diretta tra sogno e viaggio nel tempo futuro (“Il sogno si riferisce al futuro del sognatore” annota in Immortalità), una visione pienamente concordante con le escursioni di qua e di là del passato, del presente del futuro dei suoi personaggi. Su come costruire un personaggio, inoltre, Burroughs torna a più riprese in vari testi, consigliando, suggerendo, insegnando, proprio lui, autentico giustiziere della figura classica del personaggio, creatore di un mucchio di personaggi, ma che, come scrisse Gerard-Georges Lemaire “semplicemente essi non esistono, almeno nel senso tradizionale. Appaiono e scompaiono nello spazio romanzesco, cambiano nome, aspetto, colore, obbediscono a nuove leggi da un capitolo all’altro, sono spesso intercambiabili, si contaminano gli uni con gli altri, sono sottoposti a processi di mutamento o degradazione” (Lemaire, 1983). Mektoub. È scritto. Diversi testi arrivano dalle lezioni di creative writing e letteratura tenute al City College di New York, occasioni per Burroughs di esprimersi riguardo ad alcuni colleghi, scrittori stimati, maltrattati, o quantomeno valutati bizzarramente. Troviamo Ernest Hemingway, di cui cita Le nevi del Kilimangiaro, a quanto si percepisce l’unico racconto che realmente apprezzasse, oppure Joseph Conrad, citato spesso da Burroughs nelle sue storie riprendendone scene, personaggi e ambientazioni, o ancora Francis Scott Fitzgerald del quale prediligeva Il grande Gatsby. Da non perdere in Beckett e Proust il ricordo del suo incontro con l’irlandese. Questo l’incipit:
“Ricordo una visita personale a Beckett. John Calder, l’editore mio e di Beckett, fece da intermediario per una breve udienza, non più di mezz’ora. Fu a Berlino. Beckett era lì a dirigere una delle sue nuove opere. Allen Ginsberg, Susan Sontag e io eravamo lì per una lettura. Del gruppo facevano parte anche Fred Jordan e il professor Hoellerer, docente di letteratura inglese all’Università di Berlino. Beckett si mostrò educato ed eloquente. Era comunque chiaro, almeno per me, che non aveva il benché minimo interesse per nessuno di noi, né il minimo desiderio di rivederci”.
Non è tenero invece con Graham Greene e soprattutto con Somerset Maugham, che ne escono male dal confronto con il succitato Conrad e con Jean Genet, “scrittori per l’era spaziale”. Una fantomatica space age, perché Burroughs non si riferisce ai fasti dell’epopea kennedyana (pur avendola vissuta appieno), né tantomeno allo spazio interiore di ballardiana memoria. Lui specula intorno al viaggio nel cosmo, per il quale a suo avviso siamo predisposti, sebbene non precisi i termini di questa esplorazione a venire. Nel citato Immortalità sentenzia:
“Io postulo che la vera immortalità si possa trovare solo nello spazio. L’esplorazione dello spazio è l’unico obiettivo per cui valga la pena di lottare”.
Altri chiarimenti non sono dati, ma il testo mescola nel suo incedere delirante finzioni visionarie e pronunciamenti senza appello, cosicché è vano affannarsi nella ricerca di una spiegazione del tutto razionale. In realtà Burroughs anche in questi scritti minori non si libera del virus del distruttore: ha fomentato la mutazione del romanzo, perché non avrebbe dovuto fare altrettanto nella scrittura di articoli?
“Mektoub. È scritto”.
- Laurie Anderson, United States Live, Warner Bros, 1991.
- Laurie Anderson, Mister Heartbreak, Warner Bros, 1999.
- William Burroughs, Il biglietto che esplose, Adelphi, Milano, 2013.
- Gerard-Georges Lemaire, William Burroughs: una biografia, SugarCo, Milano, 1983.
- Laurie Anderson, Home of the Brave, Warner Bros, 1991 (home video).