Il 21 giugno del 1985, nel corso del tour mondiale seguito alla pubblicazione di Born in the USA, Bruce Springsteen approda per la prima volta in Italia, a Milano, in un concerto che resterà nella storia, da lui stesso citato nell’autobiografia come uno dei più memorabili di sempre. Oggi, alle soglie del quarantesimo anniversario di quell’evento, Springsteen calca ancora le scene, con un successo che non accenna a diminuire. Eppure, da allora molto è cambiato, com’è giusto che sia. Quanto il cantante musicista che oggi suona su quel palco è la stessa persona che ci travolse tutti all’epoca? Domanda retorica. Ovviamente è cambiato, come lo siamo noi, il suo pubblico. Vi sono aspetti che hanno attraversato il tempo, e altri che sono scomparsi, come molti amici, così come vi sono anche novità, prospettive, orizzonti, sebbene sempre più radi. L’autobiografia, pubblicata nel 2016, rappresenta il discrimine, il crinale che gli ha permesso di cambiare il suo modo di porsi. Le scelte compiute furono in ogni direzione: verso la musica, verso la band, verso il pubblico, verso la sua famiglia. Quella pubblicazione fu una sorta di gigantesca autoterapia, conclusiva – se mai una cosa del genere lo può essere – di decenni di lotta contro una depressione sotterranea che lo portava a impegnare ogni suo momento e ogni sua risorsa nella musica, pur di rifuggire una realtà insopportabile. Quotidianità che soffriva a partire dal suo difficilissimo e angosciante rapporto con il padre, e che gli ha impedito per lungo tempo di avere una vita personale felice. Alla pubblicazione del libro seguirono due anni di concerti in teatro, dove la sua autoanalisi divenne uno show, una espressione anche musicale della sua ricerca interiore. Alcuni lo hanno capito. Altri, molti, hanno fatto finta di niente, e non hanno voluto ascoltarlo, visto che in fondo continuava a fare musica, seppur dichiarando esplicitamente che a quel punto si trattava solo di business. Ma se Born to Run – l’autobiografia – fu la conclusione di un discorso, dove fu l’inizio?
Sulla risposta a questa domanda non ci sono esitazioni, e per quanto le tematiche springsteeniane siano completamente inseribili nella lunga storia della musica americana, la sua specificità ha le sue radici in un album precedente anche al concerto di Milano, seppur di poco. Un album del 1982, situato nel punto di equilibrio tra il precedente The River e il successivo Born in the USA. Un album dove un uomo di poco più di trent’anni, ormai uscito dalla giovinezza e in procinto di approdare a un successo mondiale, si chiede cosa vuole fare da grande, cosa vuole essere, e cosa pensa del mondo. Un album dove per la prima volta resta da solo, riesce a rinunciare a quella coperta di Linus che era la E Street Band, il gruppo di amici con cui suonava, viveva e condivideva tutto da almeno dieci anni. Quell’album è Nebraska, che ancor oggi una ampia fetta dei suoi estimatori (incluso il sottoscritto) considera di gran lunga il suo album migliore – se mai è possibile fare certi confronti – e in ogni caso quello più vero, più lacerante, unico e irripetibile.
Come approcciare un fenomeno unico
Come sempre, quando si comincia a leggere un libro per recensirlo, ci si arma di segnalibri di vario genere, per indicare i passi rilevanti, così da poterli poi citare. Si sottolineano i momenti cruciali, quelli che portano a svolte importanti, e così via. Anche il caso di Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska, di Warren Zanes non è stato diverso, solo che dopo nemmeno un centinaio di pagine i passaggi imperdibili erano talmente numerosi che non è stato possibile procedere oltre. Era indispensabile un altro approccio. Warren Zanes, a tutt’oggi musicista e parte della band dei Del Fuegos, nota agli addetti ai lavori ma certo non agli ascoltatori occasionali, può vantare un dottorato in visual and cultural studies, e al momento una cattedra alla New York University. Il suo non è certo quindi l’approccio di un semplice fan, seppur interno al mondo della musica, ma uno sguardo capace di unire l’empatia del musicista, la partecipazione del fan e l’analisi dello studioso, di fronte a un fenomeno che – da tutti i punti di vista – viene considerato unico. Certo, Nebraska non può prescindere dai suoi due ingombranti compagni di viaggio, ma contemporaneamente è la negazione di entrambi. Questi sono da un lato The River, album precedente e apoteosi del lavoro con la E Street Band, che in Nebraska è scomparsa, mentre dall’altro lato, musicalmente parlando, Born in the USA, l’album che è seguito, è quanto di più distante da una chitarra acustica registrata su un TEAC 4 piste. Provare a sé stesso di essere in condizione di produrre musica anche senza i suoi compadres è uno dei temi che sono sul piatto di Nebraska, così come la questione del successo e della comunicazione con il pubblico, che vede in Born in the USA l’antitesi di Nebraska, album solitario e rivolto solo al suo mondo interiore.
“Era il suono di un uomo che tirava fuori a forza delle canzoni mentre una mano lo tratteneva brutalmente sott’acqua, tenendolo per il collo. Era pronto a fare il grande passo verso il successo, poi si fermò. In pratica entrò in clandestinità”.
Paradossalmente una delle tesi che Zanes sostiene è che l’autoproduzione dell’album e la tipologia della registrazione casalinga, sono stati per il mondo indie dell’epoca una vera e propria illuminazione. Improvvisamente milioni di giovani americani si sono resi conto che con un minimo investimento potevano essere nelle condizioni di realizzare in autonomia un album. Nei fatti Nebraska aveva avuto ai loro occhi un approccio analogo a quello delle prime band punk, e per lo meno era chiaro che non era sceso a patti con nessuno, secondo i dettami apprezzati dalle band di quegli anni.
“Nebraska sarebbe diventato un punto di riferimento per chi scrive o incide canzoni, un sollecito a strappare tutta la tappezzeria, tirare via il cartongesso e mettere a nudo le pareti”.
Crocevia esistenziale e artistico
D’altronde The River aveva rappresentato per Springsteen e la Band proprio il tentativo di trasferire su disco e in sala di registrazione quella libertà e l’atmosfera che avevano costruito in anni di concerti e di performance uniche al mondo. Una vera e propria rivoluzione dopo l’angoscioso, doloroso parto che fu Darkness on the Edge of Town. Al contrario Born in the USA è sì figlio delle meditazioni del ritiro che ha prodotto Nebraska, e difatti la stessa title-track è stata scritta in quel periodo, ma poi scartata dalla produzione finale, destinata a una ben diversa riscrittura e a un ben più ampio palcoscenico, ma a quel punto tutto era cambiato, e Born in the USA era completamente l’altro lato della medaglia. Springsteen decide che il palcoscenico meritava il sacrificio, che il calice amaro del successo doveva essere bevuto fino in fondo, e che quell’abisso in cui guardava ogni volta che iniziava lo show non poteva essere evitato, o per lo meno realizza di non averne le forze, di non essere in grado di vivere una vita indipendentemente da quello che poteva dargli la musica. Questo è il crossroad in cui è seduto quando scrive le canzoni di Nebraska, questo è il diavolo con cui ha a che fare.
“Sono per natura una persona alienata. […] Lo sono sempre stato, lo sono ancora oggi. Continua a essere un problema nella mia vita, nel senso che arrivo sempre dall’esterno, cerco ogni volta di vincere la reticenza e l’alienazione che custodisco all’interno di me stesso. È buffo, perché poi sul palco mi lancio nella direzione opposta, ma la ragione per cui lo faccio è che mentre la fuori ci sono il palco e tutte quelle persone, sotto i miei piedi c’è un abisso, ne percepisco costantemente la presenza, lì in basso”.
Questo è Springsteen: un uomo ossessionato, che trovava una certa pace solo in un interrotto show, in un infinito concerto, una fuga interminabile dai suoi fantasmi. Nebraska è perciò la partita a carte con il mostro, la musica con il diavolo, il momento in cui si è detto ora o mai più. In realtà quel dialogo con la morte che lì è partito, Springsteen lo ha continuato per decenni, e in un certo senso procede ancora oggi. In questo senso quell’album è incompiuto, imperfetto, è un frammento, un mantra interiore rimasticato come una preghiera, ma è per gli stessi motivi un momento unico e irriproducibile. Com’è noto girano mille leggende e aneddoti intorno a quanto il produttore e tecnico del suono Chuck Plotkin abbia cercato di riprodurre quel suono, senza concludere molto. La versione più recente, di poche settimane or sono, parla di un riproduttore con una velocità sbagliata, che sarebbe all’origine di quel suono unico. Il mito è sviscerato ampiamente nelle pagine che Zanes gli dedica, così come sono presentati i molti riferimenti culturali che hanno contribuito alla nascita dell’album, dai racconti di Flannery O’Connor al Charles Laughton de La morte corre sul fiume (1955), fino alle Badlands (1973) di Terrence Mallick. Ma per chi lo ha preso in mano per la prima volta in quel lontano settembre del 1982, Nebraska rimane il disco con la foto in bianco e nero e i caratteri rosso sangue, un disco mai dimenticato. Nel finale de Il grande sonno di Raymond Chandler, Philip Marlowe, anche lui recitando tra sé e sé, dice:
“Che importanza ha dove si giace, quando si è morti? In un lurido pozzo nero o in una torre di marmo in cima a una collina, fa lo stesso. Quando si è morti si dorme il grande sonno, e a cose del genere non si bada. Petrolio e acqua sono come vento e aria per i vivi. Si dorme semplicemente il grande sonno, senza curarsi dell’orrore in cui si è morti, o del luogo. E ormai anch’io ero finito in quell’orrore”
(Chandler, 2019).
Springsteen nasce e cresce nello stesso humus, un America sempre sul baratro di una fine inglorioso, e con lo sguardo verso un sogno lontano. Ogni brano parla della sua gente, e dei fantasmi che lo accompagnano, ricordi che ancora oggi hanno il loro giusto posto nei concerti di di Springsteen. Ricordiamoli uno per uno: Nebraska / Atlantic City / Mansion On The Hill / Johnny 99 / Highway Patrolman / State Trooper / Used Cars / Open All Night / My Father’s House / Reason To Believe. La storia del rock passa anche di qui.
- Bruce Springsteen, Nebraska, Sony Music, 2015.
- Raymond Chandler, Il grande sonno, Adelphi, Milano, 2019.
- Bruce Springsteen, Born to run, Mondadori, Milano, 2016.