Un mito californiano:
l’economia delle startup

Vincenzo Luise

Le forme dell’innovazione
nell’Ideologia Californiana.

Le retoriche, i modelli
e le trasformazioni
dell’economia startup


Egea, Milano, 2019

pp. 106, € 15,00

Vincenzo Luise

Le forme dell’innovazione
nell’Ideologia Californiana.

Le retoriche, i modelli
e le trasformazioni
dell’economia startup


Egea, Milano, 2019

pp. 106, € 15,00


Le mode, per definizione, vanno e vengono. Alle volte però si presentano come innovazioni rivoluzionarie e permanenti. È un po’ il caso delle startup, quelle piccole e giovani aziende dal potenziale esplosivo che hanno suscitato un fermento generalizzato agli inizi del decennio, anche grazie all’assonanza con un’altra parola chiave del nostro tempo, il termine app. Tralasciando la similitudine fonetica, che come vedremo non è poi così casuale, l’entusiasmo è scemato nel giro di pochi anni. Dopo un momento di confusionaria euforia, per cui anche una pizzeria con sito web si presentava come startup, sembra esserci stata una battuta di arresto. Non si tratta però di un declino assoluto: seppur ridimensionato nella sua dimensione pubblica, l’interesse per le startup continua ad accomunare frotte di giovani imprenditori e a rappresentare una grossa fetta di quella torta chiamata economia.

Dalla controcultura hippie al neoliberismo yuppie
Le forme dell’innovazione nell’ideologia californiana illustra le retoriche, i modelli e le trasformazioni di questa galassia economica, ne ripercorre in profondità la storia, accostando al lessico accademico ed economico-finanziario numerosi esempi e interviste condotte in incubatori, acceleratori, Demo Day e hackathon, contribuendo a far chiarezza su un fenomeno apparentemente semplice ma in realtà problematico.
A partire dalla definizione stessa del termine startup, su cui non c’è unanimità. Luise inizia proprio da qui: prendendo in esame la narrazione mainstream, la letteratura accademica e il quadro normativo, sottolineando come a definire l’essenza di una startup possa essere tanto l’età di un’azienda quanto il suo impatto sociale o la scalabilità finanziaria. Un’ambiguità semantica che riflette la pluralità di attori sociali coinvolti ma che non impedisce di individuare alcuni punti fermi, come i piani di investimento e le diverse componenti dell’ecosistema neo-imprenditoriale con cui ogni startupper deve confrontarsi.

Tre sono le questioni principali affrontate: la retorica della Silicon Valley da cui nasce il mito startup, la genealogia, le caratteristiche e le implicazioni di questo fenomeno socio-tecnico ed economico, e la crisi che già da qualche anno sembra incombere. In merito al primo punto, Luise osserva la contradditorietà delle premesse culturali del fenomeno, che presenta elementi tipici tanto della New Left e della controcultura hippie quanto della New Right e del neoliberismo, per poi evidenziare come tale tensione venga stemperata dalle parole d’ordine su cui i guru della California high-tech hanno costruito le proprie biografie: flessibilità, innovazione, fallimento, caparbietà, (auto)ironia, positività, rischio, monopolizzazione. Parole che messe insieme formano un vero e proprio mantra che ha premiato alcuni col successo economico ma che ha punito tanti altri, creando una gamma di figure professionali ibride e precarie etichettate in vario modo (cfr. Lorusso, 2018).

Dall’economia del dono alla sorveglianza algoritmica
Luise ricostruisce la mirabolante storia politica ed economica della Bay Area di San Francisco che, da zona prevalentemente agricola, è divenuta faro mondiale dell’innovazione high-tech e Terra Promessa di Internet. Come accennato all’inizio, la storia delle startup è infatti intrecciata a quella della Rete. Fra i principali protagonisti nello sviluppo delle prime soluzioni commerciali del Web 1.0 troviamo dunque Amazon, eBay, Microsoft, Google, tutte aziende accomunate dal digitale, dalla giovane età dei fondatori, da una precarietà iniziale che tuttavia non ha impedito, anzi ha favorito, l’alto impatto sociale dei propri prodotti. La bolla della dot-com economy attesta come proprio il settore Internet abbia stimolato la creazione di giovani aziende digitali spesso sovrastimate e iper-valutate fino allo scoppio.
Il Web 2.0 ha poi fornito un nuovo assist all’economia startup, inaugurando l’era delle piattaforme di intermediazione come AirBnB e Facebook. La rinnovata architettura peer-to-peer ha spalancato le porte di una sharing economy in cui piccole aziende Internet-based traggono profitto dalla comunicazione tra persone interessate a una più efficiente allocazione dei propri beni, da effettuare principalmente attraverso siti web o app dedicate. Ma la platform economy (cfr. Evans e Schmalenseen, 2016) si è ben presto rivelata per quel che è: non un’economia del dono e della condivisione, bensì dello sfruttamento e della sorveglianza algoritmica (cfr. Zuboff, 2019). È qui che il mito startup inizia a tramontare. I rivoluzionari proclami per cui ogni problema sociale poteva essere risolto da un’azienda innovativa, possibilmente digitale, si sbriciolano sotto l’evidenza del binomio monopolizzazione-precarietà.
Se poi si considera la normalizzazione delle innovazioni, tanto sul piano finanziario quanto su quello immaginario, e lo spostamento del baricentro verso il distretto di Shenzhen in Cina, sembra proprio che la parabola della startup californiana stia declinando. In definitiva, uno studio che si rivela ottimo strumento per accedere anche alla dimensione culturale di un fenomeno che nel bene e nel male continua a segnare il nostro tempo.

Letture
  • David S. Evans, Richard L. Schmalensee, Matchmakers: The New Economics of Multisided Platforms, Harvard Business School Press, Brighton (Massachusetts), 2016.
  • Silvio Lorusso, Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro, Krisis, Brescia, 2018.
  • Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Milano, 2019.