Scacciati dall’Eden, i nostri antenati biblici si ritrovarono su un pianeta privo dei privilegi del Giardino ma pur sempre vivibile, anche se per cavarsela c’era da rimboccarsi le maniche, sgobbare, sudare e partorire nel dolore. In ogni caso, niente di paragonabile a quello che, come novelli Adamo ed Eva, si ritrovano a vivere i protagonisti di H come Milano, l’allucinato romanzo di Emilio de’ Rossignoli, pubblicato nel 1965 da Longanesi e ora recuperato dagli archivi del passato da Meridiano Zero, costola editoriale di Odoya. Un giorno dopo ambientato a Milano, completamente rasa al suolo come probabilmente l’intera Terra in seguito a un’apocalisse nucleare e i due protagonisti scacciati da un quotidiano ordinario (lei commessa in una pasticceria del centro, lui non si sa, del passato del narratore non si viene a conoscere nulla). È una storia scritta ricorrendo a un linguaggio crudo, violento, coraggioso perché non concedeva la minima censura protettiva al lettore di allora, un pubblico non certo abituato a descrizioni, oggi etichettabili come splatter, all’epoca non impiegate di norma dagli scrittori di fantascienza.
Emilio de’ Rossignoli non era uno scrittore specializzato in fantascienza, ma bazzicava un po’ tutti i generi, dai gialli al fantahorror, pubblicati ricorrendo a una miriade di pseudonimi; era anche un giornalista e un saggista, un esploratore dell’insolito (fondamentale il suo Io credo nei vampiri), scriveva di cinema e di criminologia: una miscela che gli ha consentito di creare un romanzo in grado di sfuggire all’usura del tempo, perché slegato dai cliché più datati e confezionato con grande mestiere. Nel romanzo sono assenti i rimandi a coloro che hanno dato il via all’olocausto e sono circoscritte solo a una porzione d’Italia le informazioni sullo stato del resto del mondo. D’altronde, a che servirebbero quando la realtà che de’ Rossignoli ci sbatte in faccia è così eloquente?
Frutto delle paure del tempo (mai svanite), H come Milano suona tutt’oggi come un monito ancora attuale, al di là di alcune licenze letterarie che de’ Rossignoli si prese partendo dai casi reali di Hiroshima e Nagasaki per descrivere gli effetti della Bomba sugli esseri viventi. Sullo sfondo c’è tutto il clima della guerra fredda e delle minacce di conflitto nucleare. L’anno precedente era uscito un film che privilegiava il grottesco per mettere a sua volta in guardia dal pericolo dell’olocausto atomico, ovvero Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick. La vicenda amplificava, a sua volta, al cinema gli allarmi lanciati dall’intera comunità degli scrittori di fantascienza, quella che contava, ovvero gli autori statunitensi di science fiction. A Occidente, all’ombra del fungo, che si ergeva minacciosa e perenne, fiorivano scenari di distruzione e di sopravvissuti condannati nella migliore delle ipotesi a mutazioni inimmaginabili. Tra i più autorevoli a scendere in campo ci fu Isaac Asimov con Paria dei cieli arrivato su Urania nel 1953 e poi Philip Dick con varie opere, tra cui Cronache del dopobomba, uscito (anche in Italia sempre grazie a Urania) nello stesso anno del romanzo di de’ Rossignoli. Nel lungo elenco di armageddon e di day after spicca Un cantico per Leibowitz di Walter Miller jr., uscito originariamente nel 1959, ma tutte queste opere cercavano una distanza di sicurezza per il lettore, allertavano senza ricorrere a eccessi nel raccontare l’orrore. Ancora l’anno dopo l’uscita del romanzo di de’ Rossignoli, c’era chi, come il complesso I Giganti, cercava di esorcizzare la paura, auspicando un mondo migliore in La bomba atomica, cantando “noi non abbiamo paura della bomba”. Dalla science fiction alla musica di protesta, era lungo il fronte che metteva in guardia dal pericolo della guerra nucleare. Sempre nel 1965, dagli Sati Uniti si levava il canto di Barry McGuire che fece sua e trasformò in hit mondiale Eve of Destruction, che recitava “If the button is pushed, there’s no running away” (“Se verrà premuto il bottone, non ci sarà nessun posto dove scappare”). A tutto questo, però, de’ Rossignoli aggiunse altro: la fiction di cronaca vera, realistica dell’orrore.
Anime morte in una terra desolata
Ogni protezione per il lettore è assente, come si è detto, in H come Milano, che abbonda di descrizioni di piaghe vieppiù purulente, abominazioni della carne, creature immonde, corpi deformati striscianti come vermi, bruchi immondi, e uomini, rappresentanti di un presunto nuovo ordine, che li stanano e li bruciano con dei lanciafiamme, di cadaveri ridotti in poltiglia e via di questo passo, con toni che a più riprese sono da grand guignol. In questa terra bruciata, i vivi invidiano i morti:
“Vicino alla lampada, su uno strame di paglia nascosto da una coperta bucherellata, giace un corpo d’uomo, che si sfoglia come una pasta alla crema in larghe lamine accartocciate di pelle secca. Sotto quei riccioli sfaldati di epitelio, trapela una carne rossa, gommosa, glassata. A tratti, le foglie giallastre di pelle si frangono crepitando, sbriciolandosi”.
Sempre sorretta da una scrittura fotografica, la narrazione procede in prima persona, affidata al protagonista di cui non conosceremo neanche mai il nome, analogamente a quanto fa il personaggio/narratore di Io sono leggenda di Richard Matheson, anch’egli piombato in uno scenario di distruzione e di mutanti. Come ricorda Danilo Arona nella prefazione alla ristampa di Io credo nei vampiri, de’ Rossignoli conosceva bene il romanzo di Matheson e ne scrisse la prefazione all’edizione italiana pubblicata da De Carlo nel 1972 (cfr. Arona, 2009) e questa scelta stilistica fu forse anche un modo indiretto di rendere omaggio al grande scrittore statunitense, ma de’ Rossignoli sceglie un registro più diretto. Sia chiaro, in H come Milano non c’è nessun compiacimento nel descrivere l’inferno, anche se in vari passaggi si respira l’aria malsana di quel cinema denominata mondo movie, di cui Mondo cane (1962) fu capostipite. Tutto, seppur a tratti scioccante, è semplicemente funzionale alla sequenza degli avvenimenti, alla sua disperata lotta per la sopravvivenza in compagnia di Milva, poi ribattezzata Geiger, una giovane donna sopravvissuta anche lei con pochi danni iniziali all’esplosione. Tra i due nascerà una sorta d’amore, seppur radioattivo e infine antropofago. Intorno a loro non c’è esclusione di colpi nella feroce lotta per la sopravvivenza che viene narrata e alla quale anche loro non possono sottrarsi: laddove le ferite inferte dall’esplosione e i danni procurate dalle radiazioni tardano a falcidiare vite, ci pensano gli stessi sopravvissuti a eliminarsi a vicenda. Piccole comunità violente e disperate, come quella dei travestiti che si procurano parrucche naturali, ovvero scalpi di donne o i terùn (in corsivo nel testo, nda) i terroni, bande di emigrati che una volta scardinato il sistema che sorreggeva la loro emarginazione si rivalgono su tutti senza pietà. Ecco chi sono, in una descrizione che suona tremendamente attuale:
“Quelli delle baracche alla periferia, gli immigrati. Non avevano casa e per questo i crolli non li hanno decimati: le baracche sono più leggere quando si sfasciano sulla schiena. Non hanno mai avuto niente e adesso credono sia venuto il momento di volere tutto. Si ricomincia da capo, ma loro sono i favoriti. La miseria e le privazioni li hanno fortificati, li hanno preparati a questa prova. Sono duri come piattole, avidi, implacabili. Vogliono la nostra roba, le nostre donne, il nostro domani. E non vogliono noi. Guardati da loro”.
Un po’ wild boys burroughsiani, un po’ ragazzi di strada pasoliniani, questi giovani violenti sono implacabili contro coloro che li hanno umiliati con ogni sorta di angherie. Farà lo stesso quasi dieci anni dopo Giancarlo Giannini/Gennarino in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) di Lina Wertmüller, anche se il registro sarà tutt’altro. Non meravigli questo insolito percorso della questione meridionale: prima della Lega e dei nuovi flussi migratori, delle baumaniane vite di scarto, l’opulenta metropoli lombarda, ancora a metà anni Settanta, vedeva fiorire sui portoni delle sue palazzine cartelli con la scritta “non si affitta a meridionali”.
Tornando al romanzo, tutto dopo la conflagrazione finale è estremizzato. Tutti sono contro tutti in un mondo senza speranza, nell’irriconoscibile Milano rasa al suolo, dove “l’acqua marrone che sapora di chimica e fango” dell’Alzaia Naviglio, l’unica disponibile è controllata dai terùn, dove è inevitabile il corredo di violenza sessuale maschile, compiuta o tentata, su quel po’ che rimane dell’altra metà del cielo: dove non c’è futuro. È assente in questa storia, a meno di non cercare un principio di speranza nel tragico e delirante epilogo amoroso tra i due protagonisti.
Nel sorprendente finale, che è letteralmente una fine, tornano alla mente i primi versi di una canzone lanciata da Memo Remigi quello stesso anno: “Sapessi / com’è strano / sentirsi / innamorati / a Milano / senza fiori / senza verde / senza cielo / senza niente”.
- Danilo Arona, Prefazione in Emilio de’ Rossignoli Io credo nei vampiri, Gargoyle Books, Roma, 2009.