Picnic ad Hanging Rock è un film diretto da Peter Weir nel 1975, oltre che il titolo del romanzo di Joan Lindsay da cui il regista australiano trasse ispirazione per quello che fu l’esito felice del suo estro mercuriale destinato a occupare un posto preciso nell’immaginario di più di una generazione.
La concomitanza di fattori in grado di spiegarne l’interesse resistente al tempo e manifestatosi in molteplici direzioni, almeno quante sono le traiettorie di lettura ricavabili dal medesimo, ne spiega parzialmente la bellezza e il potere di travalicarne i confini cinematografici per giungere a noi anche nelle forme di una sorta di insolita, e di eccellente qualità, rivisitazione letteraria.
Il film, attenendosi abbastanza fedelmente alla trama letteraria, seppure nella scelta di taluni tagli, concentra in sé la potenzialità catalizzatrice di interessi di varia origine e natura. Questo perché la storia della scomparsa di un gruppo di giovani studentesse in occasione di una gita presso il complesso roccioso di Hanging Rock, avvenuta nel giorno di San Valentino del 1900, seduce chi ne coglie la natura di spunto storico-sociale di osservazione del regime vittoriano e delle sue naturali derive in relazione all’età delle vergini coinvolte, ma anche chi associa al giorno di celebrazione di ciò “che move il sole e l’altre stelle” un lungo pomeriggio di morte in cui si traduce la narrazione (oltre a essere il sottotitolo italiano del film), serbando intatta la memoria di una ritualità ancestrale nel tentativo, vano, di ricostruzione dell’accaduto. Ed è esattamente nell’inutilità di ogni ricerca di spiegazione razionale della sorte riservata dal destino alle giovani collegiali che risiede l’altro, il terzo, nucleo di interesse sviluppabile, e sviluppatosi, intorno alla vicenda talmente eccezionale e artisticamente stimolante, nella relazione col vuoto dell’inspiegabile, da essere stata narrata nel corso del tempo con differenti linguaggi e oggi collante di un’antologia di racconti recentemente edita da Arcoiris che, sotto la direzione di Emanuela Cocco, coinvolge diverse e notevoli voci contemporanee, dando vita al primo di tre volumi di una serie dal titolo Trema.
Illustrazione di Sergio Caruso per Conservazione della specie di Lucia Ghirotti.
L’idea di fondo è sostanzialmente quella di riprendere del film l’aspetto che ne racchiude il nucleo identitario lasciando che esso venga autonomamente declinato in forme differenti dal gruppo di autori chiamati alle armi. Trattandosi del tema della scomparsa, come deducibile dalle premesse, non era assolutamente prevedibile che l’esito dell’intera operazione potesse garantire, nonostante lo spirito fortemente indipendentista di ciascuno, una speciale uniformità finale che conferisce all’opera un quid pluris, forse addebitabile a qualcosa che appartiene al nostro tempo e al nostro genere prima ancora che alle nostre tormentate individualità, di uomini e donne dalle esistenze irrimediabilmente caotiche e sfilacciate, generate da un presente che opprime senza vie di fuga.
Che cosa sia questo valore aggiunto è estremamente complesso da definirsi se non nelle forme concrete in cui esso si articola all’interno delle singole storie. E non ci si riferisce al fenomeno della scomparsa che si impone, più o meno chiaramente, all’attenzione del lettore dal principio alla fine del viaggio, ma a ciò che suscita in esso, per assoluta o parziale mancanza di una spiegazione, e, conseguentemente, all’abisso in cui cade e con cui è costretto a fare i conti, salvo rischiare di perdersi il piacere di cedere alle avances rivoltegli dal fascino del perturbante. È l’assurdo che benedice le creature che popolano l’antologia: nell’inspiegabile non esserci più, esse impongono indirettamente all’incauto esploratore non solo l’obbligo di guardarle in un prima andato via troppo rapidamente con un’attenzione che, fattasi sbiadita, va ripristinata, rinnovata, aggravata di specialità percettive perché rivolta a un passato spesso privo di pezzi, ma anche il necessitato cambio di prospettive narrative a cui adeguarsi e nelle quali a prevalere è una distanza dello scomparso da cui guardare dall’esterno, forse più agevolmente, l’angoscia di chi rimane e non trova ragione alcuna in grado di giustificare l’accaduto.
Illustrazione di Sergio Caruso per Ipotesi V di Fabio Massimo Franceschelli.
È esattamente il sentimento dell’angoscia l’approdo comune delle storie di cui consta Ritorno a Hanging Rock. Poco importa che sia l’anomalia improvvisa che determina un cambio di stato e rispetto a cui non si ravvisa alcuna traccia apparente di un fenomeno fisicamente spiegabile, o che sia più semplicemente l’anomalia del punto di vista, dello sguardo della voce narrante che, per legge terrena, non potrebbe concederci il dono della condivisione, eppure lo fa, rivelandoci prossime insospettabili deviazioni di chi rimane, oppure inspiegabili conseguenze su chi è destinato a fare i conti con l’assenza di chi è morto: tutto getta nello sconforto risucchiante dell’angoscia.
Qualcosa sfugge e cercare di coglierlo con gli ordinari strumenti di indagine è una battaglia persa in partenza: non serve riannodare i fili di percorsi tracciati nel passato perché in quel passato non siamo più e non resta che fare i conti con tutto ciò che non è stato, con un’assenza, con un vuoto, perché anche a volere rispristinare uno stato di attenzione non rispettato, sarà l’oggetto dell’attenzione a mancare del tassello funzionale alla costruzione razionalistica degli eventi.
L’oppressione del presente, di questo presente, si amplifica, assume dimensioni siderali e diventa l’assaggio sul piano individualistico di una costruzione liberticida entro cui, come genere umano, conduciamo tranquillamente le nostre esistenze solo perché ignari della fallacità estrema delle nostre certezze: basta il nonsense di una tessera del puzzle delle nostre quotidiane presunzioni per mandare all’aria tutto, per precipitare giù nel tunnel delle nostre ossessioni, dei desideri mancati, della nostra ignavia, delle occasioni perdute, fino all’urto della fine. È il gioco perverso della vita. Il flauto della colonna sonora del film che interrompe il tempo, lo dilata, mette nella predisposizione d’animo di volere riavvolgere il nastro, di noi racconta dell’ostinata volontà di ricomposizione delle nostre tessere, mentre l’essere precipitati è la cacciata dal Paradiso, l’irrimediabilità dell’essere andati oltre, di avere cominciato a vivere ed essere pertanto solo inutili burattini dai fili prossimi a spezzarsi all’interno di una costruzione escheriana. Non è casuale il fatto che l’antologia tragga ispirazione dal mondo cinematografico.
Illustrazione di Cristiano Baricelli per La legge naturale del vuoto di Lucrezia Pei e Ornella Soncini.
Questo non solo per la superficie che assurge a scenario, cioè per l’opportunità offerta e colta di attraversare l’inspiegabile fenomenologia di una presenza che si annulla, quantomeno nell’estetica evidente, ma anche perché la modalità in cui ciò avviene, coerentemente all’oggetto della rappresentazione, è estremamente visionaria, svolgendosi attraverso il ricorso a immagini che si imprimono senza sforzo nella mente del lettore, alcune delle quali abbastanza forti da alterare l’ordinata composizione del reale in una forma accattivante e seducente, laddove il rigore e il disordine generano eros e dinamiche attrattive.
La lettura complessiva della raccolta ricostruisce un immaginario ben preciso che non prescinde mai dalla coscienza che l’assurdo si insinua nell’apparente normalità in cui ci crediamo immersi e, per quanto Trema sia presentata come “una collana di letteratura nera, raccapricciante, fantastica, inquietante, fantasmatica”, l’impressione finale del lettore è che il viaggio sia avvenuto lungo un piano ininterrotto di un’unica sequenza dove l’identità del singolo autore cede un pezzo di sé in funzione dell’uniformità garantita da forme e immagini, più che dai ruoli e dalla loro operatività in scena.
Qualcosa che congiunge il mondo verginale di Peter Weir alla fotografia di Mario Bava restituendoci un percorso letterario in cui il meccanismo dell’angoscia travalica l’urgenza dell’impatto visivo immediato, nonostante taluno lo scelga, e scava nelle fragilità di fondo di ciascuno generando un orrore più sottile, depositando scorie di nostri prossimi incubi nell’angolo delle nostre vite normali e mescolando i piani quel tanto che basta per avere chiaro che il gioco perverso di cui sopra non è solo una finzione letteraria o cinematografica.
L’uniformità artistica dell’esito, sia visivo che emotivo, dell’antologia non esclude le istanze indipendentiste, ma mai separatiste, di ciascuno degli autori coinvolti. Ognuno porta dentro quest’avventura la propria voce, i propri fantasmi e declina l’esperienza dell’angoscia alla luce di un universo che conosce bene, il proprio.
Talvolta lo fa straniandoci dal nostro vano radicarci alla nostra normalità presunta sin dall’incipit, come Lucrezia Pei e Ornella Soncini nel primo racconto della raccolta, La naturale legge del vuoto: “Un sabato Alice andò al cinema e nel buio fu riempita e svuotata. Perse il suo nome breve e grazioso, dimenticò sé stessa e i guanti le scivolarono sotto la poltrona”. Talaltra accade che sia il punto di vista a destabilizzare e a rivelarci una fine differente dalle ordinarie aspettative, come Lucia Ghirotti ci insegna nel suo Conservazione della specie. E se Fabio Massimo Franceschelli riprende in Ipotesi V una storica stagione giornalistica di scomparsi eccellenti, inserendovi il tocco umano di mancanze e desideri nella declinazione di invidie e gelosie:
“Agosto 2005, oggi il caldo romano è soffocante; gli anni passano e vivo sempre più con la sensazione di camminare verso l’apocalisse, un’apocatastasi che necessariamente chiarirà tutto. A volte penso che il senso della mia presenza sia quello di narrare la storia di Valerio e Vania; a volte li odio per la loro invadenza. Mi chiamo Vittorio Valica e sono un giornalista di cronaca prossimo alla vecchiaia, una stagione che non mi trova pronto”.
Vins Gallico, a sua volta, affronta con Sparire la perdita di sé nella memoria del padre risucchiata dall’Alzheimer quale prova tangibile dell’avvicinamento alla propria morte:
“E pensa a come lo saluteranno i suoi figli, come si congederanno da lui. E gli viene da tremare, di sentire un vuoto profondo, un buco nero che lo risucchia. E allora viene voglia anche a lui di sparire”.
Qualcuno volge all’esterno l’impulso di morte proiettandolo sul mare, come Domenico Caringella, il cui racconto, Charlotte sulla scogliera, riporta alle atmosfere dello storico video dei Cure dove Robert Smith in compagnia di Mary Poole danza sul bordo di una scogliera mimando la resistenza all’attrazione del vuoto del salto e del liquido amniotico espanso sotto:
“Il richiamo incessante del mare, che su un’isola ti piomba addosso da ogni parte, raggiunge gli uomini nelle case dove i loro cari si illudono di poter dare un senso alla loro vita insieme, e li stana, uno a uno”.
Qualcuno si ferma dentro. Lo fanno Silvia Tebaldi (L’eclissi è il titolo della sua storia) e Claudio Kulesko in Scivolare: il racconto di un’eclissi, del parallelo svolgersi di due esistenze, di una storia d’amore che potrebbe essere mancata esclusivamente nell’istante in cui lo sguardo è rivolto alle singole esistenze, ma che, in ogni caso, racchiude dentro di sé il potenziale di avveramento che l’universo e la fisica giocano a investire su questa o altre vite:
“E certo che prima o poi ci si ritrova e ci si può avviare adagio, nel buio pesto che schiude all’alba e solo di rado, molto di rado e solo nel novilunio si fa eclissi, aiutarsi a indossare la giacca, scarpe comode, assieme spingere un uscio in via delle Volte, in via Coperta, eclissarsi tra gli alberi da frutto, tra le pietre e le pioppe, e sparire”.
L’incontro con l’angoscia della propria fine, l’abbandono dello stato di civiltà in cui costruiamo le nostre verità rassicuranti, il superamento del confine di sicurezza, l’attraversamento del bosco, le forze oscure dentro, la violenza della natura, la morte in un viaggio di un’intimità sconcertante e sapientemente costruito da Kulesko:
“L’esistenza umana, così come la vita in generale, appaiono, a un occhio lucido e analitico, sotto forma di lunghe catene causali. Serie compatte e lineari, dalle quali si diramano rare e tuttavia evidenti deviazioni. Sparute isole di caos, che irrompono convulse dal continuum che fa loro da substrato. In egual modo, in certi momenti, immagini e pensieri intrusivi irrompono dagli abissi dell’animo umano, fendendo la placida, piatta superficie del pensiero logico”.
Non lascia assolutamente indifferenti la scelta di chiudere l’antologia con il racconto dello scrittore Ariel Luppino dal titolo Il Decapitato 2. Il ritorno dello scrittore senza testa. Questo non solo perché più che di una vera e propria scomparsa, qui si tratta di una trasformazione, di un cambio di forma, più che di una negazione assoluta di una precedente presenza, ma anche perché la costruzione quasi allegorica del racconto si popola di immagini fuori dal tempo, di riferimenti importanti, quali una laica riedizione della Trinità, nella composizione di una triade composta dallo Scrittore Decapitato, dall’Ultimo Sole e dal Mostro, di attente osservazioni ideologiche novecentesche che ci ricollocano temporalmente, fino a un punto di fuga che pare, però, avere i toni consolatori di un approdo: la scrittura quale principio di ricomposizione del caos in cui le nostre vite sono tragicamente e irrimediabilmente immerse. Ciò che restituisce senso e dignità all’intero percorso dopo il necessario bagno d’angoscia.
- Joan Lindsay, Picnic a Hanging Rock, Sellerio, Palermo, 2000.
- Peter Weir, Picnic ad Hanging Rock, Koch Media, 2019 (home video).