Un’autobiogrammatica: è forse un neologismo? Di certo, l’autobiogrammatica di Tommaso Giartosio, nato a Roma nel 1963, scrittore, poeta e conduttore radiofonico, è un libro autobiografico che racconta la vita dell’autore e delle persone a lui care, attraverso le “parole” – in senso stretto e nell’accezione metonimica di linguaggio o idioletto – che hanno segnato i rapporti familiari e affettivi. Dall’infanzia alla giovinezza fino all’età adulta scorre il quaderno della propria esistenza come se fosse un album composto da un lessico e da un codice personale, privato, parentale. In effetti, molti, se non quasi tutti, noi possiamo ricordare ambienti e relazioni in due modi: riguardando le foto del passato o rievocando dettagli legati a certi vezzi linguistico-espressivi.
Chi scrive ricorda spesso il nonno materno per due particolari parole che era uso pronunciare divertito e con ironia al nipotino: “a poscia” e “baligia” anziché “valigia”: la sostituzione della labiale (la b) alla labiodentale (la v), rientra nel processo di alterazione creativo-affettiva della lingua a scopi comico-espressionistici. Il sottoscritto ricorda alcuni suoi amici o colleghi, che purtroppo non ci sono più, gratia verborum cioè in virtù di modi di dire personali (anche se non necessariamente neologismi o di pretta invenzione autoriale) o addirittura tic verbali tipici delle ecolalie da intercalari reiterati. Carlo Verdone ha costruito molti suoi personaggi enfatizzando alcune di queste zeppe linguistiche come il “cioè” compulsivo di Ruggero, un hippie trasognato e naturista, interpretato dallo stesso Verdone in Un sacco bello (1980).
In aggiunta a questi ricordi personali, un’idea per scrivere un proprio abbecedario illustrato la fornisce Luca Mastrantonio nell’intervista a Tommaso Giartosio, uscita su Sette.Corriere.it:
“1. Scrivi le parole che associ alle persone che fanno parte della tua famiglia.
2.Scrivi le parole che rappresentano la tua identità, che ti hanno ferito, con cui hai ferito, che ti hanno liberato, spaventato, deliziato, quelle dei sogni, quelle tabù.
3. Scrivi cosa significano per te le parole che hanno segnato o segnano l’epoca in cui hai vissuto e vivi.
4. Trasforma le parole in racconti, ogni parola è una parabola, le nostre vite si basano su miti fondativi.
5. Metti in discussione queste parole-parabole, guardate da un nuovo punto di vista, saranno accessibili anche a chi non parla la tua lingua. Cioè tutti gli altri”
(Mastrantonio, 2024).
Un esempio analogo di auto-questionario lo troviamo nelle prime pagine del romanzo-saggio di Giartosio che si pone le seguenti domande:
“Cosa sarebbe accaduto se mi fossi chiesto, ad esempio:
-quali sono le parole che mi sembrano perfette, e da dove viene questo piacere tattile più che musicale?
-qual è stata la mia prima parola?
-andiamo d’accordo io e il mio lessico famigliare?
-perché diavolo ricordo tanti nomi di animali: la gru coronata, l’antilope cervicapra, il dugongo, l’irbis, l’ayè-ayè, il capovaccaio?
-il mio alfabeto di bilingue ha ventuno lettere ma ne ha anche ventisei: come mi ha segnato questa diplopia?
-come mai mi sembra tanto misteriosa la lettera A?
-che vuol dire questa frase senza senso che mi perseguita dal 1981: tu nanga bala marati nega ciche bo sali cospana zu?
-per quale ragione non ho studiato il cinese?”.
Queste domande sono racchiuse ed evidenziate da un box. Un espediente grafico non a tutti i lettori gradito, e che abbiamo già riscontrato in alcuni libri di David Foster Wallace, un autore che, secondo chi scrive, non è estraneo alla formazione di Giartosio. Rientra, invece, esplicitamente nell’autobiogrammatica il libro nero di Lawrence Durrell, l’autore del Quartetto di Alessandria:
“Scritto da Lawrence Durrell nel 1935-36, quando mio padre sedicenne era appena tornato da Berlino. Pubblicato nel 1938, l’anno delle nostre leggi razziali; a Parigi, per eludere la censura inglese. Uscito in Italia venticinque anni dopo, da Feltrinelli, e dopo un altro decennio da Longanesi. In copertina una foto di Bill Brandt del 1952, London (o Nude, London) ritagliata dal grafico della Longanesi in modo da celare un capezzolo in controluce. Mi ero avvicinato a questo romanzo per motivi, diciamolo, non del tutto letterari, a riprova che le più diverse forme del desiderio possono essere contigue. La quarta di copertina mi solleticava al punto giusto: Pubblicato per la prima volta dalla Olympia Press di Parigi perché ritenuto troppo scabroso in Inghilterra, Il libro nero di Durrell contiene già tutti gli elementi che verranno poi sviluppati nel famoso Quartetto di Alessandria: al posto di una sola Lady Erotica, Justine, qui se ne incontrano parecchie, e l’attrazione provata dall’autore per una decadenza viziosa è presente in ogni pagina. A assolvermi da eventuali sensi di colpa provvedeva poi uno strillo firmato addirittura dal premio Nobel T.S.Eliot: Questo libro continua a ossessionare la mia memoria e la mia fantasia…È un compiuto capolavoro. Benissimo: cominciai a leggere”.
Giartosio dedica il novantacinque per cento del suo spazio narrativo ed elucubrante a giochi di parole e tortuose riflessioni sul linguaggio e sull’alfabeto, dalle quali fuoriescono gomitoli (o gnommeri) di associazioni talora un po’ intricati e stancanti. Un procedimento che porta ad annoverare tra i precedenti non espliciti anche Biffures di Michel Leiris, primo romanzo della quadrilogia La Règle du Jeu composta tra il 1948 e il 1976 (i successivi sono Fourbis, Fibrilles e Frêle Bruit). Basti qui riportarne un passo per rendersene conto:
“«Alfabeto» [alphabet], anzitutto, è di colore giallastro e s’incolla ai denti, pasta fine e compatta, che sa di petit-beurre, in relazione all’esistenza – reale o supposta – di petit-beurre fra i biscotti Olivet. Ciò, beninteso, quan’ebbi imparato a leggere e acquisito alcune nozioni d’ortografia e la capacità di distinguere il bê di gibet o di quolibet, mettiamo, da quello di un cavallo bai.
«Alfabeto», in secondo luogo, è dotato di forma e peso, giacché è un oggetto: il libretto su cui si trovano scritte maiuscole e minuscole, con esempi di parole aventi per iniziali ciascuna delle venticinque lettere, quali composte in caratteri di stampa e quali in corsivo, con gambe, mani, pieni di filetti, talora in scrittura diritta, talaltra in scrittura inclinata.
«Alfabeto», insomma, è una cosa che si tiene in bocca quando la si pronuncia di fatto o mentalmente, ciò che si dice una parola concreta, e che riempie di un contenuto percepibile la cavità compresa tra gola, lingua, denti e palato”
(Leiris, 1979).
Inoltre, Giartosio dedica alcune pagine, verso la fine del romanzo, anche a Ezra Pound:
“Non è che non la conoscessi, la storia di Pound. Il giovanotto dell’Idaho (a quanto leggevo nelle note biografiche) era fuggito in Europa, aveva pubblicato i primi libri di versi a Venezia e Londra e Parigi, fondato l’Imagismo e il Vorticismo, intrapreso i suoi fluviali Cantos, stretto amicizia con Joyce, Eliot, Hemingway e decine di altri scrittori e artisti che avevano trovato in lui un amico infinitamente sollecito, sincero e anche generoso… Poi verso la metà degli anni Venti, si era trasferito in Italia e (qui tossicchiavo, ma continuavo a leggere) trasformato in un fascista. Sosteneva il regime con interventi sui giornali e alla radio, non privi di un rabbioso antisemitismo: i Rothschild, eccetera. Da allora, tutto sempre peggio: la guerra, la vittoria degli Alleati, il campo di prigionia con la detenzione in una gabbia esposta agli elementi (in cui però aveva iniziato la sezione dei Cantos pisani, la sua opera più alta, si diceva); il processo per tradimento, la segregazione per oltre dodici anni in un ospedale psichiatrico di Washington. Infine la campagna internazionale per ottenere la sua liberazione, il ritorno in Italia, il declino, la morte”.
Risalire al Lessico famigliare
Il modello dichiarato dall’autore stesso in questo strano miscuglio di romanzo, saggio e autobiografia che Autobiogrammatica, è Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, uscito nel 1963, anno di nascita di Tommaso Giartosio, mentre l’idea di famiglia è quella di Ludwig Wittgenstein. Foto e disegni che ogni tanto compaiono nel testo sono come para-didascalie. Dicevamo di Lessico famigliare della Ginzburg. L’attacco di questo romanzo che non ci si stanca mai di rileggere (e che dedica fra l’altro ampio spazio descrittivo e narrativo ad Adriano Olivetti) è come un immediato diapason tematico che ci avverte del forte legame tra parole – o espressioni predilette in un ambito familiare – e biografia:
“Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava:
-Non fate malagrazie! Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava:
-Non leccare i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire”
(Ginzburg, 2014).
E affianchiamo questo incipit a un brano del romanzo di Giartosio dove stabilisce esplicitamente il link alla Ginzburg:
“Sono nato nell’anno di Lessico famigliare. Quando l’ho letto io, vent’anni dopo, il memoir di Natalia Ginzburg veniva ancora ricordato e citato con amore da quasi tutti gli adulti che conoscevo. (…) Anche chi (come tanti, come me da ragazzo) l’aveva letto per il puro piacere di leggerlo, senza coglierne la maestria letteraria, ne aveva trattenuto almeno l’idea portante (la donnée, dicevamo in casa) secondo cui ogni famiglia aveva un suo linguaggio. Intuizione elementare e penetrante come una spilla da balia, che subito aveva innescato un processo di emulazione”.
Questo tipo di evocazione-attivazione mnemonica di cellule linguistiche capaci di ridare impulsi elettrici vivificanti dei circuiti della memoria individuale e familiare comporta intrecci con ricordi letterari, pun o giochi di parole (jeux des mots, e citiamo in inglese e francese perché la madre dell’autore amava esprimersi in un mélange italo-franco-piemontese-inglese), divagazioni linguistiche. Ecco un brano che dà l’idea del genere:
“Si può amare un nome? Io dico di sì, perché si può amare un quadro, una casa, un’ora del giorno. Ma chiamerò a parlare un esempio: il nome Luca. Luca, luminoso anche nella sua tonica buia, nome bruno con una vocale azzurra: Luca maschile, ma a sorpresa congiunto dalla a finale al femminile. (Per un motivo simile amo i nomi d’uomo in e, così spesso angelici e profetici). Qui entra in gioco il ricordo di un verso, l’ultimo del quarto canto dell’Inferno: E vegno in parte ove non è che luca. Adesso entro in un luogo dove non c’è nulla che riluca, dice Dante; tutto è buio, tutto è colpa -dopo il vestibolo (il limbo) inizia l’atrio infernale, il carcer cieco, la voragine concentrica, il gorgo in cui potresti affondare per anni e anni”.
Oltre a Lessico famigliare della Ginzburg, c’è un altro romanzo che inizia con un ricordo fortemente intrecciato a reminiscenze fonico-verbali e canore, Dedalus, Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce; ecco, appunto, l’attacco, nella traduzione di Cesare Pavese:
“Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca che veniva giù per la strada e questa muuucca che veniva già per la strada incontrò un ragazzino carino detto grembialino…Il babbo gli raccontava questa storia: il babbo lo guardava attraverso un monocolo: aveva una faccia pelosa. Grembialino era lui. La muuucca veniva per la strada dove abitava Betty Byrne, che vendeva filato di limone:
Oh, le belle rose di selva
Là nel verde giardinetto.
Cantava questa canzone. Era la sua canzone.
Oh le belle lose veldi.
Quando bagnate il letto, prima è caldo, poi viene freddo. La mamma metteva la tela incerata. Era ciò che dava l’odore strano.
La mamma aveva un odore più buono del babbo. Gli sussurrava sul piano la tarantella per farlo ballare. Lui ballava:
Tralala lalla
tralala lallara
tralala lalla
tralallà.
(Joyce, 1966).
Qui non c’è solo un ricordo d’infanzia, c’è una memoria legata a particolari tic o abitudini linguistiche come la pronuncia allungata e onomatopeica della parola ‘mucca’ che effettivamente ha una radice lessicale che corrisponde al verso dell’animale, soprattutto se la vocale ‘u’ viene prolungata. Insomma, questo gioco fonico-grafico rivela la natura onomatopeica della parola mucca. Anche Giartosio nota (ma senz’alcun riferimento a Joyce)
“C’era anche chi aveva scritto interi libri ricostruendo da un pugno di frasi la cifra della propria esistenza. Quanto a me, che potevo fare? Qualcosa di più: immaginare una vera e propria autobiogrammatica che ambisse a disegnare un atlante del linguaggio di un singolo individuo: cioè del suo modo di sentire e vivere la lingua”.
Abbiamo ricordato l’inizio del Dedalus perché anche questo strano romanzo autobiografico-letterario-linguistico di Giartosio è caratterizzato da un utilizzo opimo e frequente dell’inglese (e del francese), e anche in questo romanzo spiccano le figure del papà e della mamma; e pure in questo libro ci sono molti animali (domestici, selvaggi, primitivi):
“È tutto uno strisciare e urtarsi di esseri paludati e astrusi, una corte dei miracoli e delle meraviglie: ci sono il vascello portoghese, la catagramma patazza, la tana o topaia maggiore, il solenodonte, l’opistoprotto, l’icneumone, il globicefalo, l’arapaima gigante…Ancora, solamente nomi, certo, visto che non potrebbero in alcun modo incontrarsi (l’opistoprotto, per dire, vive a centinaia di metri di profondità). Eppure in questa soffitta convivono: indovino che si fiatano sul dorso, si danno di muso, senza aggredirsi o fuggire…”.
E a proposito della mamma, ecco un altro ricordo nel quale la reminiscenza lessicale è intrecciata a una componente etico-comportamentale:
“Il suo lessico è anche un atlante morale. Non essendo portata al rimpianto, i due sentimenti negativi che esprime con più forza sono lo sgiài e il penùn. Entrambi reattivi ed effimeri. Di fronte a un oggetto schifoso ma anche a un atto di estrema violenza -un genocidio, un infanticidio- prova lo sgiài, che è disgusto etico ma prima ancora ribrezzo fisico. A volte aggiunge, stringendo a pugno quelle sue labbra carnose: «Certo che noi esseri umani siamo proprio delle bestie»”.
Le lingue straniere
Quelle dedicate al suo rapporto con l’inglese, in termini di apprendimento e utilizzo, sono fra le pagine più interessanti di questo libro. Nella vita di una persona di cultura medio-alta e che magari lavora nella comunicazione o nella tecnologia, l’inglese è talmente invasivo da esondare persino negli anditi più tradizionali del parlar materno. A volte contaminandolo.
“Negli anni Sessanta e Settanta, la penetrazione della lingua inglese in italia è ancora scarsa e nel mondo adulto e soprattutto in quello dei bambini, in sussidiari, abbecedari, giochi da tavolo, regno incontrastato l’alfabeto di ventuno lettere. Tutto è organizzato attorno a questo nuovo schema. però a volte vengono aggiunte, tutte o in parte, cinque nuove lettere (non poi così nuove). I sillabari provano a renderle attraenti con una specifica offerta di piatti, Wafer e Würstel e Yogurt e i primi Kiwi, oppure proponendo svaghi come il Judo, il Valzer, il Windsurf e lo Yo-Yo. Ma tra i banchi di scuola JKWXY sono ugualmente considerare una stranezza, anzi una iattura, o nel migliore dei casi una presenza nominale. Sono inutili doppioni di lettere che, se non si bada alle finezze, già avevamo: la G dolce, la C dura, la V, il gruppo CS, la I. A riprova che fuori dal Bel Paese non è stato inventato nulla di nuovo o veramente necessario”.
“Cos’era l’inglese in casa nostra? Prima di tutto c’era, incistato nel lessico famigliare di cui ho già parlato, un corpus di massime popolari da fare invidia a un consorzio agrario. Ogni lingua è un codice, ma questa era anche un codice civile. La nostra vita era ritmata da una quantità di proverbi e modi di dire cadenzati”.
Autobiogrammatica si divide in due parti, Presa di parola e Abbecedario. Le descrive lo stesso autore all’inizio:
“La Presa di parola racconta come l’Autobiogrammatica sia nata da una parola di troppo e da un incontro con la morte. È come le genealogie bibliche: chi vuole la può saltare. Oppure, come si fa con il bugiardino nella scatola di medicinale, leggere solo lo stretto necessario -in questo caso il capitolo «Tutti hanno già scritto questo libro».
Con l’Abbecedario inizia l’Autobiogrammatica: il silenzio da cui risaliamo, le parole chiuse nel lessico famigliare, la metamorfosi dei versi animali in una voce, i nostri primi e nuovi alfabeti. Qui c’è la storia che il libro racconta”.
Lo fa come si è detto in un azione corale ricca di rimandi raffinati.
- Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino, 2014.
- James Joyce, Dedalus, Ritratto dell’artista da giovane, Frassinelli, Torino, 1966.
- Michel Leiris, Biffures, Einaudi, Torino, 1979.
- Henry Miller, I libri nella mia vita, Adelphi, Milano, 2014.