Alla corte di Elisabetta I sedeva una figura dal fascino particolare, verso cui la regina nutriva una forte fiducia. John Dee era l’occultista personale di Elisabetta, e uno degli strumenti più curiosi di cui Dee faceva uso per le sue pratiche di preveggenza e analisi era uno specchio nero di ossidiana, di forma convessa. La storia di quest’oggetto riporta allo Yucatán e all’impero Azteco; lo specchio d’ossidiana era considerato un portale verso il regno degli spiriti, e fu semplice per il cristianesimo vederci, data la sua vena imperialisticamente reinterpretativa, un cancello verso l’inferno e i suoi principi e duchi. Lo specchio d’ossidiana per Dee era un oggetto peculiare perché apriva portali, ma la direzione la sceglieva il mago. Ad aver imposto la sua figura al panorama internazionale attraverso la superficie distorta di uno specchio d’ossidiana è certamente Michel Houellebecq. Sessantotto anni compiuti lo scorso ventisei febbraio, nei trenta di lavoro da romanziere – sebbene le prime effettive pubblicazioni siano due raccolte di poesie e un saggio nel 1991 – Houellebecq si è proiettato nel mondo fra paradiso e inferno. Scrittore eccelso e acclamato, è stato assalito dalla critica numerose volte per le sue posizioni apparentemente islamofobiche, razziste, reazionarie. Quando, nel 1991, viene pubblicato da éditions du Rocher il suo saggio H.P. Lovecraft, ci si sarebbe potuti chiedere se la direzione verso cui Houellebecq si stesse spingendo non fosse nelle prossimità degli abissi immondi che abitavano il 194 di Angell Street, Providence. In Lovecraft, il gentiluomo, Houellebecq vede certamente qualcosa che lo spinge a commentare; molte potrebbero essere le contiguità che il critico letterario incapace di ricordare a sé stesso il suo posto e la sua pertinenza avrebbe potuto estrarre e infiocchettare per la chiacchiera sulla personalità e sulle ambiguità dei due scrittori. Sarebbe stato un lavoro vano: Houellebecq risponde nel 2015 nel suo romanzo Sottomissione:
“La totalità degli animali e la schiacciante maggioranza degli uomini vivono senza mai provare il minimo bisogno di giustificazione. Vivono perché vivono, tutto qua, è così che ragionano; poi immagino che muoiano perché muoiono, e che questo, ai loro occhi, concluda l’analisi”
(Houellebecq, 2015).
Qui non siamo però soltanto sull’ordine dell’autoanalisi, quella che già Socrate (Platone) a suo tempo definiva come unico valore di una vita ben vissuta; nello scrivere su Lovecraft, Houellebecq fa un passo molto, molto oltre. Lungo tutta la lettura di H.P. Lovecraft (ora riproposto da WUDZ), un sentimento corre nella mente del lettore: Michel Houellebecq sta pagando un debito – sta liberando il gentiluomo di Providence di qualcosa di cruciale.
Fantasia, realismo, e piano percettivo
Nel 1942 Walt Disney vede finalmente realizzato il desiderio, sudato e sofferto, di pubblicare nelle sale cinematografiche il suo adattamento del romanzo di Felix Salten, Bambi. Un lavoro empio, dicono i critici, salvo poi doversi piegare alla loro stessa inconsistenza e al giudizio del pubblico internazionale. L’empietà sta nell’aver unito l’animazione cinematografica, la sua originaria delicatezza, al più crudo realismo – questa una delle più aspre accuse (Gabler, 2006). Bambi, che rimane un’icona della produzione Disney, acquisisce anche un’aura di sacralità antica e atavica che non lo eleva semplicemente rispetto a ciò che viene dopo e prima, ma lo disloca: Disney riesce a dare all’animazione (grazie alla schiera di tecnici, illustratori, paesaggisti al suo seguito) la strumentazione adatta a calpestare un registro linguistico che ne farà le fortune e ne esprimerà le potenzialità nei decenni a venire. Bambi non è solo una favola, ma l’incubo della perdita, della morte, del lutto e della sua elaborazione, e il sogno di rinascita al di là di tutto questo: una mitologia incisa su un nuovo piano discorsivo. Bambi, nel campo dell’animazione, è ineguagliato per un fattore fondamentale: i suoni, ovvero il ponte fra il realismo più puro e l’immaginazione creativa. L’antagonista non ha volto né corpo, si sa solo che è un uomo, l’Uomo e il suo fucile; la sua presenza infestante è accompagnata da tre semplici note musicali, e il suo incedere nella storia da un singolo colpo di fucile. L’orrore di cui Bambi è latore è racchiuso in un effetto sonoro. Per una cultura visuale come quella occidentale, quel suono non è più che un’allusione da costruire ed espandere (il colpo di fucile è corredato dalla scomparsa della figura della madre di Bambi dalla scena), ma le capacità del suono, da solo, sono oltre che abbastanza per definire il registro drammaturgico di un evento.
Sulla componente sonora nella letteratura di Lovecraft, Michel Houellebecq spende tre pagine delle novantotto, nella nuova edizione WUDZ (pregevole traduzione di Damiano Scaramella). Ma il numero esiguo non significa poca rilevanza: Houellebecq nota con ammirato acume come uno dei principali strumenti attraverso cui Lovecraft era capace di convogliare tutto l’abominio e l’orrore nei suoi racconti era proprio la “descrizione minuziosa dei suoni”. Il male ha una grammatica uditiva tutta sua. Solo dopo aver prodotto nel lettore un miasma percettivo, neutralizzando il totalitarismo della vista, Lovecraft permetteva di vedere l’indicibilità del male. Una volta che l’occhio entra in scena è comunque, e strategicamente, troppo tardi. Lovecraft odiava il realismo – la vita di per sé è il male; perché perdere tempo a rimuginarvi attorno? – ma le sue descrizioni, ossessivamente scientifiche, erano la chiave dell’orrore che riusciva a suscitare, ci dice Houellebecq. Non solo l’asetticità dello sguardo: è l’investimento di questa asetticità sugli altri sensi, in particolare l’udito. Vivisezionare i suoni, scardinare la banalità della gerarchia sensoriale. Houellebecq ammira l’arte di Lovecraft, lo dimostra a più riprese nel saggio, ma pare sempre che sia sempre tutto fatto per corredare altro. La maestria nel tessere la fisiologia del suono, nella sottomissione del realismo alla fantasia, per Houellebecq non è che la cifra di una vita in perenne dislocamento, in perenne odio per sè stessa.
Houellebecq anti-testimone
A un certo punto di Bambi, il personaggio del coniglio Tamburello offre un piccolo ma prezioso monito: “Se non puoi dire qualcosa di carino, allora è meglio non dire niente”. Nel prendere fra le mani le pagine che uno scrittore eccelso come Houellebecq dedica a un collega saggiato soltanto attraverso la lettura, viene subito naturale chiedersi perché. Che cosa può mai spingere un narratore a voler spendere parole e pensieri narrando un altro, e pure di genere diverso? Come Tamburello insegna, è ben più arduo tacere che elargire il proprio giudizio, ed è allora di conseguenza ancora più eloquente e difficoltoso soffermarsi su qualcosa e prendersene cura. Ma questa domanda Houellebecq la dissolve sin da subito: Lovecraft ha “il potere di creare universi”, tanto quanto ha il potere di odiare la vita fino alla sua radice più nascosta.
La maestria con cui Houellebecq scrive non riesce a – e forse non vuole – nascondere un’estrema tenerezza. Soprattutto nella parte finale, l’Anti-biografia, la penna di Houellebecq si fa dolce, a tratti impietosita ma assolutamente devota, nel raccontare la difficile e fallimentare vita di Howard Philip Lovecraft. Come un figlio che accarezza e cura il vecchio padre; ora, da adulto, lo sa capire, lo sa amare nonostante tutto. Houellebecq traccia allora una mappa elementare della vita di un uomo che la vita l’ha odiata – tranne che in una occasione, dove “non fu mai così vicino alla felicità”: gli anni dell’amore e del matrimonio con Sonia Greene. Houellebecq ci tiene a sottolineare un fatto che è totalmente frutto della sua speranza, e che evidenzia l’ardore con cui egli pensa al solitario di Providence – a come avrebbe potuto avere una vita differente, e come questo sarebbe potuto significare che forse nessuno, neanche Houellebecq, avrebbe mai goduto delle pagine dei grandi testi di Lovecraft. Un sacrificio che sembra disposto ad accettare. Commentando l’incontro fra Howard e Sonia, il francese scrive: “La loro coppia sarebbe potuta durare”. Ma poi la vita, l’inettitudine con il denaro di Lovecraft, la sua misantropia, il suo razzismo, l’incapacità di trovare un lavoro, o forse nessuna di queste, ma comunque la vita, decise apparentemente altrimenti. Houellebecq qui si espone – infinita tenerezza di un rimorso.
Ciò che accade nelle pagine dell’Anti-biografia è molto rilevante. La cura con cui Houellebecq traccia i lineamenti di Lovecraft, lungo tutto il saggio, manifestano una tendenza particolare che in qualche modo cozza con quanto argomentato nel capitolo Letteratura Rituale. Se qui Houellebecq definisce la portata di Lovecraft nel campo della letteratura che si fa mito e religione, appaiandolo, per esempio, a Tolkien e Conan Doyle, lo fa perché evidenzia come il dramma della letteratura sia che essa è cadenzata dagli autori. L’universo di un autore si conclude con lui, qualsiasi sforzo si voglia fare; c’è sempre la speranza di un qualche manoscritto inedito nascosto in un cassetto, ma verosimilmente ciò che c’è è tutto. Si può solo proseguire a commentare, filosofare, emulare, ma si tratta soltanto di palliativi che rispondono all’ineluttabilità della finitudine e della conclusione, e al nostro non sapervi scendere a patti. Eppure Houellebecq, sentenziato su ciò, se ne disinteressa e commenta, o racconta. Houellebecq pare sforzarsi grandemente, seppure la sua penna scorra come quella del fuoriclasse quale è, a illuminare qualcosa che egli stesso, forse, percepisce come affievolirsi per qualche oscura maledizione.
Fra le pagine del saggio, Houellebecq tesse una doppia trama: da una parte, il giungere a patti con il fatto che la letteratura esiga il sacrificio della vita, o che da questo sacrificio essa si sprigioni; dall’altra, la tenera ed enigmatica cura con cui osserva (ma ne scrive, e quindi incide, isola, tematizza, contorna, tratteggia, decide) la sfortuna e la felicità di Lovecraft. Un’ambivalenza troppo espressiva: Houellebecq cerca qualcosa da amare nella vita che Lovecraft ha odiato. È indubbio che lo trovi, ma deve subito sacrificarlo e accontentarsi di indicarlo col dito, senza possibilità di spiegarlo. Come dice nell’introduzione, ciò è la poesia di un intreccio fra la banalità della vita e la sua elaborazione immaginale. Lovecraft stesso lo indica: “Quando guardo un uomo, voglio guardare le caratteristiche che lo rendono tale e lo elevano”. Ma questa vita, che risulta dalla discussione di Houellebecq come il fulcro attorno a cui ruota la letteratura, la fantasia, la repressione, Lovecraft, il sudiciume e la fulgidità, l’amore e il disgusto, cosa è davvero, al di là del suo valore metaforico e generico? Cosa è che va davvero sacrificato sull’altare dell’arte? È questa la questione fondamentale che Houellebecq si ritrova a toccare continuamente, fra la tenerezza di un contatto immaginale (le pagine permettono di sentire la vicinanza quasi fisica che egli compone con Lovecraft) e una stima stilistica e professionale. Bisogna tenere in piedi le due cose, arte e vita, senza che nessuna collassi sull’altra o si perda in una guerra impossibile. La citazione di Jacques Bergier che Houellebecq sceglie per aprire il saggio è molto indicativa in tal senso: “Forse è necessario che tu abbia sofferto molto per apprezzare Lovecraft”. Essa è tesa subito a voler legittimare quest’ultimo nel suo rifiuto di ogni realismo, di ogni rappresentazione conforme della vita nella letteratura. Il male della vita, commenta di seguito Houellebecq, supera di gran lunga il potenziale di qualsiasi immaginazione. È naturale allora che lo scrittore, l’artista, sia per Lovecraft stesso un essere che ha nel sogno la sua dimora, nella compostezza e nel ritiro la sua forma, nell’odio la sua materia, nello stile la sua sostanza d’espressione. Come ricorda Susan Sontag:
“Non è “naturale” esprimersi bene, con eloquenza, in modo articolato e interessante. Le persone che vivono in gruppo, in famiglia, in comunità parlano poco, dispongono di strumenti verbali limitati. L’eloquenza – il pensare in parole – è un sottoprodotto della solitudine, dello sradicamento, di un’esacerbata e dolorosa individualità”
(Sontag, 2012).
A parole, Houellebecq sembra cedere alla tentazione del “grande no alla vita”; in esso sembra indicare il vero segreto dell’arte. Salvo poi evocare tutt’altro, in primis la gentile e attenta cura nel raccontare il solitario di Providence quasi come a volerlo giustificare. Un’indicazione si fa subito fondamentale, quando Houellebecq descrive lo stile e la tecnica di Lovecraft: laddove la letteratura fantastica e dell’orrore parte canonicamente dalla banalità della vita quotidiana per poi introdurre crepe (sublime la riflessione del francese sul fatto che spesso l’immaginazione del lettore, quando si vuole creare suspence e attesa, finisca a essere molto più abbondante di ciò che lo scrittore riesca a offrirgli), HPL parte da un attacco teorico o filosofico che offre sin da subito una mappa offuscata, con zone d’ombra, e a brandelli. Come a dire: non c’è nessuna quotidianità da cui partire, ma solo l’assurdità che ironicamente la sorregge, l’orrore che porta gli uomini a costruire e produrre per nascondere quest’orrore; c’è solo il rombo del fucile in Bambi. È un manicheismo elementare quello di Lovecraft: se le costruzioni umane, le tradizioni, gli sforzi, le repressioni, le regole, i tabù sono il Bene, la vita nel suo fluire è il Male.
L’estremismo reazionario di Lovecraft attesta questo: che il Male della vita fluisce proprio in mezzo agli obelischi della cultura. La vita sociale, coi suoi crocevia, i suoi incontri, la comunicazione, gli scambi, è come una promessa irrealizzabile. Essa offre la fantasia di un piacere, quello per cui le cose rimangono quello che sono, ma continuando invero a distruggere di volta in volta questa possibilità: ogni incontro, ogni scambio, ogni parola è una condanna alla trasformazione. Così Lovecraft respingerà questa essenza assurda e orrenda della vita, aggrappandosi con avidità alla promessa che mai niente cambi, e quindi a una nostalgia che è la cifra stessa del reazionario: “Tutte le finzioni sentimentali [della società borghese aristocratica] sono andate in frantumi”. È Houellebecq a chiamarle finzioni: per Lovecraft si trattava invece dell’essenza stessa di ciò che salva – dalla modernità, dalla mediocrità, dalla diversità, dal vivere. La concessione dell’incontro con la sua Sonia, che è anche concessione di una sfiorata felicità e di un assaggio di vita, non sarà, nel fallimento, che il sigillo sulla sua capacità di odiare convintamente il turbinare dell’umanità e il suo non accontentarsi mai. Con affetto estremo e candida sofferenza, Houellebecq sottolinea come Lovecraft si sia sempre considerato un fallimento, si sia sempre creduto uno sconfitto, e per questo fu un uomo graziosamente gentile con gli amici e gli ammiratori, premuroso, scioccamente umile e autosabotante, e destinato a non godere mai del successo che lo raggiungerà soltanto dopo la morte. Una morte accolta, dipinge lo scrittore francese, con la dignità di chi non ha mai amato vivere con l’umanità. E qui Houellebecq coglie la poesia: è proprio questa biografia di guerra contro la vita, accanto all’arte, che ha creato il culto e la grandezza di Howard Philip Lovecraft.
Spettri di Lovecraft
Nel 1993 viene pubblicato Gli Spettri di Marx di Jacques Derrida. Il libro si apre con una sezione particolare, denominata Exordium; l’incipit è un tocco di fioretto, elegante e tremendo, che penetra fino in fondo e oltre, dall’altra parte.
“Qualcuno, voi o io, si fa avanti e dice: vorrei imparare infine a vivere. Infine, ma perché? Imparare a vivere. Strana parola d’ordine. Chi imparerebbe? Da chi? Insegnare a vivere, ma a chi? Si saprà mai? “Si saprà mai vivere, e anzitutto che cosa vuol dire «imparare a vivere»? E perché «infine»?”
(Derrida, 1996).
Derrida suddivide questa richiesta in tre possibili referenze: esperienza (imparare a vivere è già di per sé vivere); educazione (qualcuno insegna a qualcun’altro); ammaestramento (colui che vive e padroneggia la vita indica la via). Il discorso di Spettri di Marx si affaccia all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, la fine del Marxismo, la restaurazione del capitale e del mercato, forse la fine della storia. Non ha nulla a che vedere con gli orrori di Lovecraft, né con la letteratura. Eppure è tutto lì. Derrida apre il suo saggio facendo capolino da un portale al di là del tempo che andrà ad abitare – per la durata di una lettura. Vorrei imparare finalmente a vivere – che richiesta è questa? Perché imparare? Perché questa distanza fra la conoscenza, la maestria, l’azione, e la vita? Una domanda, un desiderio che viene, dice Derrida, sia dal futuro (mi auguro che venga esaudito!), sia dal passato, un passato che indica che non tutto è adeguato, non tutto è giusto, che nel vivere vi sono già altre richieste, e sono queste richieste, queste parole d’ordine, il loro operare dietro, sempre dietro, a produrre infine la domanda in esordio a Spettri di Marx. E ogni risposta tentata alla domanda, ogni tentativo di darsi una lezione per vivere, è già sempre una responsabilità incommensurabile: parlerà a coloro che verranno in futuro, e discuterà di ciò che hanno lasciato i fantasmi del passato. Ripeti sempre la domanda, non c’è che la ripetizione della domanda. Dalla penna di Houellebecq emerge così un quadro molto chiaro, e forse la tenerezza espressa nei confronti del vecchio padre risulta, infine, quasi ingiustificata, un abbandono sentimentale di quelli che Houellebecq stesso apprezza nei passaggi più stilisticamente disordinati di Lovecraft. Nessuna finzione sentimentale va in frantumi: il puritanesimo, le inibizioni di Lovecraft, sono la cifra stessa delle sue scelte. La responsabilità di essere un gentiluomo, sempre un gentiluomo, accanto alla convinzione di aver sempre già perso la guerra contro la vita, sono per Lovecraft scelte più o meno consapevoli, ma comunque scelte. E per Houellebecq lo sono la dolcezza della cura, e quella strana devozione per la (anti)biografia dello scrittore americano, quasi una forma di lealtà per la sua sofferenza.
Al centro del gioco, la letteratura; è una questione fondamentale quella che Houellebecq (non) esplicita in questo saggio: che cos’è la letteratura? Che cos’è l’arte? Perché richiedono sempre libbre di carne per potersi dare in tutta la loro autenticità? È un vero sacrificio quello che la letteratura richiede allo scrittore? Il sacrificio della vita? O è la falsa (perché nessuna finzione è mai una finzione) ritrazione davanti alla responsabilità che questo ambiguo termine, la vita, esige sempre?
Il letterato pare fermarsi là, alla soglia di quella richiesta frustrata e malinconica – vorrei imparare finalmente a vivere. Al contrario dei “continuatori e dei commentatori”, insoddisfatte macchine desiderose di sempre più materiale da consumare, questa richiesta apprezza la conclusione: non chiede null’altro al di fuori di sé, e viene presa sul serio. Se per leggere Lovecraft bisogna aver sofferto tanto, è anche vero che, come ricorda Jean-François Lyotard alla fine de L’Inumano, questa sofferenza una volta espressa abbandona sè stessa e nutre qualcos’altro:
“Il testimone del torto e della sofferenza, generate dal dissidio del pensiero con ciò che non arriva a pensare, questo testimone, lo scrittore, la megalopoli lo vuole, la sua testimonianza potrà servire. Attestati, la sofferenza, l’indomabile sono come già distrutti. Voglio dire: testimoniando si stermina. Il testimone è un traditore”
(Lyotard, 2015).
Al sicuro a distanza dalla vita, Lovecraft tesse nei sogni una veste per il suo dolore, ma nessuna distanza è mai reale, e da questa soglia emana migliaia di spettri, uno dei quali, suo malgrado, abiterà il devoto traditore Michel Houellebecq.
- Jacques Derrida, Gli Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
- Neal Gabler, Walt Disney: The Triumph of American Imagination, Alfred A. Knopf Inc, New York City, 2006.
- Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, Milano, 2015.
- Jean-François Lyotard, L’Inumano, Lanfranchi, Milano, 2015.
- Susan Sontag, La coscienza imbrigliata. Diari e taccuini 1964-1980, Nottetempo, Milano, 2019.