L’agnello sanguina ancora:
l’ultimo sigillo di Calasso

Roberto Calasso
Sotto gli occhi dell’Agnello
Adelphi, Milano, 2022

pp. 107, € 13,00

Roberto Calasso
Sotto gli occhi dell’Agnello
Adelphi, Milano, 2022

pp. 107, € 13,00


Nell’anno 692 al Concilio Quinisesto, anche noto come Concilio in Trullo (perché ospitato in una stanza dal soffitto a volta del palazzo imperiale di Costantinopoli), tra le centinaia di questioni teologiche e dottrinarie aperte i padri conciliari – quasi tutti orientali, Roma si sarebbe adeguata alle decisioni del concilio solo anni dopo – affrontarono anche quella dell’immagine dell’agnello. Che Gesù andasse identificato in quell’«agnello condotto al macello» profetizzato da Isaia, che “offrirà se stesso in espiazione” e “giustificherà molti” perché “si addosserà la loro iniquità” (Is 53), lo aveva per primo compreso Giovanni Battista, almeno stando al vangelo di Giovanni. Vedendo Gesù venire verso di lui ebbe l’epifania della sua missione divina ed esclamò: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Da qui un profluvio di rappresentazioni artistiche che raffiguravano Gesù attraverso il simbolo dell’agnello mistico. Ma i padri conciliari del Quinisesto non erano d’accordo. Sì, certo, Gesù era l’agnello di Isaia, ma perché ricorrere a un simbolo veterotestamentario quando quell’agnello di cui nessuno conosceva le fattezze si era poi incarnato in un essere umano? Continuare ad avvalersi di simboli avrebbe rischiato di alimentare pericolose correnti eretiche sulla realtà dell’incarnazione così come le crescenti ondate di iconoclastia che in quei decenni scuotevano la cristianità. Da qui la decisione dei vescovi:

“Decretiamo che da ora in poi l’immagine dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del Mondo, Cristo nostro Dio, sia presentata in immagini di forma umana, anziché nell’antica forma dell’agnello; perché a questo modo si comprenda la profondità dell’umiltà della Parola di Dio, e si sia portati a ricordare la sua vita nella carne, la sua passione e la sua morte salvifica, e la redenzione che da allora è stata portata nel mondo”
(Wilken, 2021).

“L’autodistruzione del cristianesimo”
È a questo canone conciliare che si deve guardare per cercare di comprendere il mistero degli occhi dell’agnello mistico del Polittico di Gand di Jan e Hubert van Eyck, risalente al 1432. Restaurato e riconsegnato al pubblico agli inizi del 2020, la pala centrale che raffigura un agnello da cui sgorga il sangue, adorato da schiere di angeli nel paradiso terrestre, rivelò un particolare sconcertante: l’agnello non aveva più lo sguardo docile e mansueto che fino ad allora aveva avuto, ma due occhi frontali come quelli di un essere umano. Erano quelli i veri occhi dell’agnello disegnati dai van Eyck, poi rifatti due secoli più tardi da altra mano per eliminare quel particolare conturbante, forse ritenuto un imbarazzante errore dei fratelli fiamminghi, che avevano dimenticato che gli erbivori hanno occhi laterali e non frontali. Mentre invece evidentemente altro doveva essere il vero motivo di quello sguardo dell’agnello mistico, secondo i van Eyck: un agnello che è in realtà un essere umano.
Una scoperta che deve aver turbato l’immaginario contemporaneo, se si guarda anche al film Lamb (2021) del regista esordiente Valdimar Jóhannsson, che ha riscosso successo all’ultimo Festival di Cannes.

L’Agnello mistico del Polittico di Gand, opera di Jan e Hubert van Eyck (1426-1432), da cui sono tratte le immagini di questo articolo.

È a quegli occhi che Roberto Calasso ha dedicato alcune delle sue ultime righe prima della morte, sopravvenuta lo scorso anno: Sotto gli occhi dell’Agnello riprende infatti fin dal titolo la sconcertante scoperta del Polittico, punto d’avvio di una riflessione che probabilmente nei progetti dell’autore doveva rappresentare il punto finale della sua imponente opera iniziata con La rovina di Kasch (1983), ruotante intorno al tema del sacrificio riletto nei volumi successivi attraverso il mito greco (Le nozze di Cadmo e Armonia, 1988), le religioni indiane (Ka, 1996) e in particolare il mondo vedico (L’ardore, 2010), i miti più antichi (Il Cacciatore Celeste, 2016), l’ebraismo (Il libro di tutti i libri, 2019), la mitologia babilonese (La Tavoletta dei Destini, 2020), a cui si aggiunge la trilogia dedicata rispettivamente a Kafka (K., 2002), Giambattista Tiepolo (Il rosa Tiepolo, 2006) e Baudelaire (La Folie Baudelaire, 2008), oltre a una riflessione sulle conseguenze dell’assenza del mito nella società laica contemporanea, o meglio la sua presenza sotto mentite spoglie, che l’autore chiama L’innominabile attuale (2011).
Mancava certo qualcosa, come Calasso si era affrettato ad aggiungere dopo Il libro di tutti i libri, rilettura della Bibbia ebraica in dodici parti, l’ultima delle quali dedicata all’attesa del messia: un libro sul Nuovo Testamento. Inevitabile, perché se tutta la riflessione di Calasso si diparte dal problema della presenza del sacrificio in tutte le culture antiche, era evidente che lì prima o poi si sarebbe finiti. Quel dodicesimo (numero non casuale) e ultimo volume dell’opera calassiana non è stato scritto, ma ci restano gli appunti di quello che doveva esserne il fulcro, poche densissime pagine che partono da van Eyck e soprattutto dall’agnello dell’Apocalisse, l’ultimo libro che chiude il Nuovo Testamento, così diverso dagli altri che Calasso non esita a definirlo “l’autodistruzione del cristianesimo”, perché in fondo ne smentisce la tesi portante: che attraverso il sacrifico di Gesù, l’agnello che toglie i peccati dal mondo, l’umanità potesse essere completamente redenta; mentre nell’Apocalisse il suo autore – che Calasso, in linea con l’esegesi moderna, non identifica nel Giovanni dell’omonimo vangelo, ma lo definisce semplicemente “il Veggente” – mette in scena la punizione dei “molti” e la salvezza dei “pochi”.

“La domanda ultima della cristianità”
Problema che ossessionò per prima Simone Weil, di cui una considerazione sotto forma di domanda ritorna in questo libricino: “L’Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?” (Weil, 1993). Calasso la definisce “la domanda ultima della cristianità – e non ha trovato risposta”. Il riferimento è al passo di Ap 13,8 nella traduzione della Vulgata: “Et adoraverunt eam omnes, qui inhabitant terram: quorum non sunt scripta nomina in libro vitae Agni, qui occisus est ab origine mundi”. Qui si sosterrebbe che l’Agnello sia stato ucciso fin dall’origine del mondo, ed è forse questa la scena ritratta dai van Eyck nella pala d’altare, dove vediamo l’agnello circondato dagli angeli nell’Eden, quindi prima della creazione del mondo umano. Tuttavia, questa traduzione è oggi stata superata da quelle, più aderenti al testo originale, che traducono come: “L’adoreranno [la Bestia] tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono registrati dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’agnello sgozzato” (Nuova Concordata, 1996).

Potrebbe sembrare una differenza di poco conto: l’agnello non è sgozzato dalla fondazione del mondo, ma resta il fatto che i nomi di coloro che non saranno salvati sono inscritti sul libro dell’agnello, che esisteva fin dalla creazione. Ma questo è un concetto tipicamente giovanneo, che ricorre fin dal primo verso del suo vangelo: “Il principio era il Verbo” che identifica Cristo con il Figlio e sostiene che “Egli era in principio presso Dio” (Gv 1,2). Il vero cambiamento della nuova traduzione è che non implica più che l’agnello sia stato sgozzato fin dall’origine del mondo. Per Calasso invece questo tema è dirimente, perché mostra quanto fondativo sia il tema del sacrificio nella cultura umana. L’agnello sgozzato di van Eyck simboleggia una prefigurazione, di cui l’Apocalisse è espressione: “Prefigurazione significa che tutta la storia futura è già decisa”. L’attuazione di questa prefigurazione, continua Calasso, è la crocifissione di Gesù. Ma a che pro se alla fine i nomi di coloro che saranno salvati erano già scritti all’inizio dei tempi? Il problema è questo: tutta la storia umana è storia della progressiva salvezza dell’umanità, se la si intende dal punto di vista cristiano. Questa salvezza riguarda inizialmente pochissimi uomini e gradualmente si espande fino al sacrificio di Gesù il cui sangue, annota Calasso, “avrebbe riscattato tutti per sempre”. Eppure, a prestar fede all’Apocalisse, le cose non starebbero così. Scrive Calasso:

“L’Apocalisse, antitetica a ogni parola di Gesù, ha finito per essere la conclusione del Nuovo Testamento, così sfigurandolo. Qui non si parla di uomini riscattati o salvati, ma di «schiavi». (…) L’Apocalisse è la vendetta sui Vangeli. Coloro che si erano sentiti riscattati e mescolati ad altri popoli vengono ora travolti da una «guerra nel cielo». Gli abitanti della terra vengono inghiottiti dalle sciagure”.

Che la crocifissione non abbia salvato tutti, però, non si evince solo dall’Apocalisse, ma anche dalla dottrina del Paracleto che presenta Giovanni: Gesù promette un successore, che a differenza sua resterà con loro per sempre. Ma perché un successore? si chiede Calasso. La sua opera non era compiuta? Evidentemente no, il che sembra smentire quelle tesi secondo cui Gesù sarebbe stato un “profeta apocalittico”, convinto dell’imminente fine dei tempi. Calasso non è d’accordo con questa interpretazione:

“Gesù era contrario alla visione apocalittica. Evocava, invece, il graduale imporsi dei primi passi del Paracleto, che era una figura dello Spirito Santo. (…) L’Agnello continua a dominare, il Paracleto si insinua nelle vene del mondo”.

Alla “piccola apocalisse”, come è definito il discorso escatologico che Gesù pronuncia nei vangeli sinottici (e dunque non in Giovanni) e che prefigura la “grande apocalisse”, si contrappone in effetti negli stessi sinottici la parabola del granello di senape, che è “il più piccolo di tutti i semi”, ma che col tempo cresce fino a diventare un albero sui cui rami si posano gli uccelli del cielo, o la parabola del lievito (presente in Matteo e Luca, nonché in Tommaso), che “una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata” (Mt 13,33): parabole che rendono l’idea di qualcosa che cresce nel tempo futuro a partire da segni invisibili del presente.

Sono del resto questi gli atti che più potrebbero essere identificati con quelli del Messia, se si guarda alla tradizione ebraica con cui Calasso concludeva Il libro di tutti i libri: “Quando verrà il Messia, è probabile che passi inosservato, perché cambierà soltanto alcune piccole cose. E non si sa quali” (Calasso, 2019). Non, dunque, i grandi segni di guerre, pestilenze e visioni nel cielo che il Gesù della “piccola apocalisse” prometteva e che trovano compimento nell’Apocalisse; non il vento impetuoso “che fonde le montagne e spacca le pietre”, non il terremoto, non il fuoco, tutti i segni con cui Elia si attende che Dio si manifesti, ma “un sussurro sottile” (1Re 19,11-13).

“Una storia che si trasforma ogni giorno”
Ne La rovina di Kasch, il racconto che dà il titolo al libro è la storia mitica della transizione da una società fondata sul sacrificio a una fondata sul racconto. Con la sua capacità di narrare, Far-li-mas “sconfigge il sacrificio cruento” alla base del regno di Naphta (o Kasch); ma, morto Far-li-mas, il regno cade in rovina. Così accade nelle società dove il collante simbolico è diventato un rito vuoto, come quello dei sacerdoti di Naphta che hanno dimenticato perché sacrificano. Così accade con l’antico regime dove ormai il senso del sacro è diventato puro rituale, come comprende Talleyrand. Così accade con il giudaismo del Secondo Tempio quando appare Gesù. E tuttavia quando viene meno la ripetizione del rito, che dà sicurezza, svaniscono le stesse coordinate con cui è possibile dare un senso al mondo. La Rivoluzione francese (intorno a cui ruota La rovina di Kasch) ne è esempio, la società contemporanea (“l’innominabile attuale”) ne è un altro:

“Il sacrificio è anche una lunga astuzia per giungere a espellere il sacro. Vivere senza il sacro apparve un giorno come una condizione perfetta, leggere, desiderata”
(Calasso, 1983).

Qui sta il paradosso calassiano su cui si fonda tutto il suo magnum opus: come Far-li-mas, Gesù mette fine al reiterarsi del rito ormai diventato privo di significato (i sacrifici del Tempio regolati dalla Legge), rompe lo schema su cui si è fondata la società fino ad allora, “decide di farsi uccidere, invece di uccidere”. “E con questo si oppose all’ordine del mondo, voluto dal suo Padre”. Ma questo atto rivoluzionario non gli è sopravvissuto. Così come Naphta va in rovina dopo la morte di Far-li-mas, così dopo la morte di Gesù rimangono “solo le sue storie a nutrire il corpo arido, avido, della storia” (Calasso, 1983). Con una differenza: se “di un successore di Far-li-mas nulla si dice”, come leggiamo in La rovina di Kasch, di Gesù invece esiste un successore designato, il Paracleto.

Questo può significare che a noi, a differenza degli abitanti di Naphta, non ci restino solo le storie, in attesa della rovina, ma piuttosto “una storia che si trasforma ogni giorno, che si lacera e si ricompone”, come leggiamo in Sotto gli occhi dell’Agnello. Per questo l’agnello sanguina ancora; ma anche per questo forse la sua misteriosa opera di redenzione non è ancora compiuta, né è compiuta quella di Roberto Calasso, giunta alla fine della sua esistenza terrena, ma destinata a operare ancora misteriosamente nel nostro mondo moderno, similmente a quella di Bergotte nella Recherche, i cui libri, nelle vetrine illuminate la notte prima dei funerali, “vegliarono come angeli dalle ali spiegate sembrando, per colui non era più, un simbolo di resurrezione” (Proust, 2012).

Letture
  • La Bibbia Concordata, Mondadori, Milano, 1996.
  • Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano, 1983.
  • Roberto Calasso, Il libro di tutti i libri, Adelphi, Milano, 2019.
  • Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto – V. La prigioniera, Mondadori, Milano, 2012.
  • Robert Louis Wilken, I primi mille anni. Storia globale del cristianesimo, Einaudi, Torino, 2021.
Visioni
  • Valdimar Jóhannsson, Lamb, 2021.