Non ci sorprende la presenza di tre o quattro sassofoni quando li ascoltiamo in un’orchestra jazz. Abitano lì e casomai ne noteremmo la mancanza. Ne seguiamo gli interventi solistici, ne apprezziamo l’interplay, ma non restiamo colpiti nel vederli tra gli altri orchestrali. Se però un manipolo di ance si presenta senza altri partner, privo di alcun accompagnamento, allora la cosa cambia, si nota eccome e l’evento lascia il segno, quando i tempi sono maturi. Infatti, nella storia del jazz, successe che nei lontani anni Cinquanta alcuni pionieri, in quanto tali coraggiosi e solitari, osarono tanto. Accadde negli Stati Uniti con l’Hollywood Saxophone Quartet e anche in Italia, per merito di Piero Umiliani, che nel 1955 propose un quartetto d’ance in Piccola suite americana. Lo spirito del tempo, però, li archiviò nell’album delle curiosità per appassionati e conoscitori della materia, come successe anche ad altre geniali intuizioni di quel periodo.
Vent’anni dopo, però, le cose si ribaltarono un po’ ovunque, anche e molto nel jazz. La forza esplosiva del free aveva dato luogo pure a una libertà d’assetto generalizzata. Si assistette a una proliferazione di strumenti inusuali (anche qui preceduti da spericolate quanto isolate sperimentazioni sin dagli anni Cinquanta, Yusef Lateef su tutti), provenienti da tutto il mondo, gamelan, cornamusa, balafon e altri ancora; secondo fenomeno rilevante fu la diffusione generalizzata del solo (un discorso a parte è ovviamente quello relativo al pianoforte), anticipata nel lontano 1939 da un visionario Coleman Hawkins (il brano è il celeberrimo Picasso), ma fondata da Anthony Braxton in For Alto (1968), seguito a ruota un po’ da tutti, ovunque, con qualsiasi strumento, da Roscoe Mitchell (sax, Usa) a Leo Smith (tromba, Usa), da Derek Bailey (chitarra, Uk) a Evan Parker (sax, Uk), da Paul Lovens (batteria e percussioni, Germania) a Han Bennink (batteria e percussioni, Olanda) a Leroy Jenkins (violino, Usa), e così via. Infine si diede vita a una varietà di assetti, di formazioni insolite, oppure ordinarie in partenza, ma che si mutano in corso d’opera in virtù di un polistrumentismo generalizzato, di cui esempio mirabile fu l’Art Ensemble of Chicago.
Una ricombinazione radicale
Nello scenario qui abbozzato arrivarono a metà dei Settanta anche le formazioni all sax. Braxton propose nell’album New York Fall 1974 un brano, Cut Two, eseguito da un quartetto di sole ance, facendosi accompagnare da Julius Hemphill, Hamiett, Bluiett e Oliver Lake. I tre di lì a poco avrebbero dato vita al World Saxophone Quartet (con l’aggiunta di David Murray). Sul finire dello stesso anno, il 1977, nacque un’altra formazione integralmente composta da sassofonisti: il Rova Saxophone Quartet, quasi un contraltare bianco, californiano, ai quattro. Esattamente un anno prima si era appena sciolto, invece, un singolare trio sorto in Inghilterra nell’aprile del 1973 che proponeva un medesimo assetto, il S.O.S., nome originato dalle iniziali dei tre componenti: John Surman (soprano, baritono e clarinetto basso), Mike Osborne (contralto) e Alan Skidmore (soprano e tenore). Il trio ebbe una vita discografica brevissima, pubblicando un unico omonimo album nel 1975 per l’etichetta Ogun, ma una meritoria impresa (l’ennesima) della Cuneiform Records ha reso disponibili materiali finora inediti, registrati in quegli anni dal trio, sedute in studio e l’intero concerto tenuto il 27 luglio del 1974 al Balver Höhle Jazz Festival. Ritrovati, restaurati e confezionati questi documenti escono in un doppio disco dal titolo Looking For The Next One.
S.O.S. fu un’esperienza che coagulò diverse correnti che agitavano la musica di quegli anni: assetti strumentali insoliti, in quanto trio d’ance e non solo, perché Skidmore e in parte Osborne si occupavano anche delle percussioni ma soprattutto per l’impiego elettronico di Surman con i sintetizzatori (dunque, multistrumentismo, come si è accennato). Pure l’elettronica, però, non era una novità in senso assoluto. Anche qui occorre ricostruire sommariamente il contesto. L’approccio dei jazzisti all’elettronica è stato, a partire dal 1960 fino a metà di quel decennio, quanto mai diversificato, ma in generale si in/seguirono due modalità: a) utilizzo di musica elettronica preregistrata su nastro magnetico; b) utilizzo di strumenti elettronici e/o di modificazioni del suono degli strumenti acustici durante l’esecuzione mediante mezzi elettronici. In questa categoria rientra l’esperimento realizzato in Francia da Terry Riley utilizzando tape delay che reiteravano e modificavano la tromba di Chet Baker che suonava con lui (la composizione è The Gift, 1963), mentre alla prima categoria appartengono Explosions del pianista Bob James, che lavorando di contrasto utilizzò musica registrata su nastro magnetico composta da Gordon Mumma e Robert Ashley e JazzEx (1966) del compositore Bernard Parmegiani, musica per quartetto jazz e nastri sui quali vi era incisa musica elettronica.
Manipolazioni elettroniche della prima ora
Analogamente operava ai confini tra pop e jazz Frank Zappa in Lumpy Gravy che prevedeva inserti di musica concreta. Altra esperienza pioneristica è quella del sassofonista Barney Wilen, che inserì i suoni da lui stesso registrati durante il gran premio automobilistico di Monaco del 1968 (era un appassionato di Formula 1) nella composizione Auto Jazz: Tragic Destiny Of Lorenzo Bandini dedicata al pilota che nell’occasione vi perse la vita. Sintetizzatori della prima ora firmati Robert Moog si ritrovano all’opera negli esperimenti condotti da un altro trombettista, Don Cherry insieme a John Appleton in Human Music, in cui si miscelano e manipolano suoni con esiti altalenanti. L’anno è il 1970. In contemporanea, nell’album Third dei Soft Machine compariva il brano Moon In June, nel quale Robert Wyatt modulava il suo particolare senso dello swing utilizzando nastri e effetti di ritardo. Calcherà ancor più la mano l’anno dopo nel primo disco a suo nome: End Of An Ear. Infine, Sun Ra, che le tastiere elettroniche le testò tutte, alla ricerca del suono più vicino alle sue origini non terrestri, ma che già nel 1962 adoperava riverberi, eco e manipolazioni sui suoni in Art Forms Of Dimensions Tomorrow. Nel nugolo dei suoi esperimenti basti qui ricordare la lunga escursione al Minimoog di Space Probe. Da tutt’altra parte, nel fiorente jazz-rock di metà anni Settanta le tastiere elettroniche spadroneggiavano e Herbie Hancock ne fu il patrocinatore di maggior spessore. In una terra di nessuno aveva invece iniziato ad agire il collettivo Amm, che cercava di incrociare i due approcci.
Il carattere unico del trio S.O.S.
In questo scenario S.O.S. spiccava per originalità e sintesi di materiali eterogenei anche estranei ai precursori del genere. Inoltre, era un team collaudatissimo, che arrivava da lontano. I tre avevano alle spalle una lunga frequentazione e si erano già cimentati nella formula del sax trio diversi anni prima, come documentato dal brano Bouquet Garni contenuto in Jazz In Britain 1968-69, ma anche in questo caso si era troppo in anticipo. L’album uscito nel 1972 raccoglieva “avanzi” dalle sedute realizzate per il primo disco solista di Skidmore, Once Upon A Time (1970) e del secondo lavoro di Surman, How Many Clouds Can You See (1970). Nel citato Bouquet Garni già affioravano anche i temi del folklore isolano cari a Surman, che non li avrebbe mai più persi di vista. Skidmore si era fatto una buona gavetta nell’emergente british blues, suonando con Alexis Korner (così come Surman) e con John Mayall, incrociando un giovanissimo Eric Clapton pre-Cream; Surman e Osborne a loro volta si conoscevano da tempo, avevano allestito un Osborne/Surman Quartet all’opera nel 1966, di cui la Reel Recordings ha scovato tracce in suoi recenti scavi (nell’antologia Trad Dads, Dirty Boppers And Free Fusioneers – British Jazz 1960-1975) e perché entrambi facevano parte della prima formazione di Mike Westbrook che approdò in uno studio di registrazione. Li si ascolta insieme già nell’esordio della Mike Westbrook Concert Band: Celebration (1967) e poi nel successivo Release (1968). Tutti e tre sono schierati da Westbrook nel suo terzo e più complesso lavoro Marching Songs vol. 1 & 2 (1969).
È una vera girandola di incroci quella che segue, dove ognuno di loro entra ed esce da vari progetti e formazioni diverse: Surman e Osborne si ritrovano nel primo album omonimo (1970) del collettivo anglo-sudafricano Brotherhood of Breath, mentre nel successivo, intitolato semplicemente Brotherhood (1972), sarà presente Skidmore con Osborne. Questi è ancora nella Concert Band di Westbrook per incidere Love Songs (1970) e suona con la Brotherhood of Breath, oppure in trio con la sua formidabile sezione ritmica, ovvero Harry Miller e Louis Moholo (ma anche in duo con il pianista Stan Tracey), mentre Surman ha intanto dato vita al suo Trio con la poderosa sezione rimica formata da Barre Philips e Stu Martin e tra il 1970 e il 1971 inizia a ricevere i primi importanti riconoscimenti da parte della critica, in primis quelli del Melody Maker. Intanto, Skidmore finisce nei Centipede di Keith Tippett per incidere il ciclopico Septober Energy (1970). I tre si ritrovano ancora a suonare insieme nel citato How Many Clouds Can You See, sulla seconda facciata di un altro album di Skidmore, TCB (1970), nel primo album firmato da Harry Beckett, Flare Up (1070), nonché nell’omonimo disco d’esordio di Michael Gibbs datato 1969; la coppia Surman/Skidmore presiederà anche alla registrazione di Tanglewood ’63 (1971), mentre il binomio Skidmore/Osborne partecipa all’album Trout Steel di Mike Cooper (sempre nel 1970!) e al primo disco di Norma Winstone, Edge Of Time (1972). Infine, Surman arruola sia Osborne che Skidmore per incidere Conflagration (1971) con una versione ampliata del Trio e per il disco firmato con John Warren, Tales Of The Algonquin (1971).
Un’idea nata per caso, accidentalmente…
Insomma, solo ripercorrendo sommariamente la loro storia discografica in comune, si può comprendere perché i tre si trovassero così a meraviglia, non dimenticando che si parla di musicisti formidabili, tecnicamente impeccabili e all’epoca ispirati oltre ogni dire. Erano anche amici, infatti quando nel 1972 Skidmore ebbe un incidente automobilistico che lo costrinse in ospedale per mesi, Surman andò spesso a trovarlo. In una di queste visite gli propose, una volta ristabilitosi, di formare un nuovo trio con Osborne. Nell’aprile del 1973, l’idea di Surman si concretizza. Il gruppo prende vita, sebbene Osborne iniziasse a soffrire di pesanti esaurimenti nervosi, e nell’ottobre si esibisce prima a Brussels e poi in diverse località italiane. Bisognerà aspettare l’aprile 1974 per vederli impegnati in patria, al 100 Club di Oxford Street, in memorabili concerti. I tre vengono contattati dalla danzatrice statunitense Carolyn Carson, con cui Surman aveva già collaborato, che così ricorda come andarono le cose:
“Molti dei miei migliori amici sono musicisti, ma quello con cui ho un rapporto di più lunga data è John Surman. Eravamo a Parigi nel 1972: lui lavorava con il regista Antoine Bourseiller, io venivo dalla compagnia di Anne Beranger. È stata lei a presentarmi John e Barre Phillips. Da quel momento qualcosa nella mia vita è cambiato. Per la mia prima produzione con l’Opera de Paris, Sablier-Prison, decisi di chiamare John, che si presentò con S.O.S., il trio di sassofoni che aveva assieme a Skid e Ozzy (Alan Skidmore e Mike Osborne). Erano tutti e tre completamente folli. Fu un avvenimento indimenticabile”
(Bianchi, 2008).
Le musiche di Sablier-Prison non vennero però riprese per mettere a punto l’album di S.O.S., realizzato tra il gennaio e il febbraio del 1975 e contenente brani in parte anticipati nel concerto tenuto dal trio al Balver Höhle Jazz Festival. Nel complesso, l’album pubblicato dalla Ogun quello stesso anno dipana una bella trama, ancora integra. Un lavoro ispirato, capace di proporre soluzioni complesse, anche concettuali, come in Cycle Motion, senza mai perdere d’immediatezza. Segno evidente, l’ennesimo, dello stato di grazia dell’intera scena inglese nei Settanta. In particolare nella carriera di Surman, l’album è lo snodo che lo condusse dalla prima investigazione in solitudine, Westering Home (1972), dove iniziò a rielaborare il patrimonio popolare nord europeo e a utilizzare l’elettronica, fino al capolavoro Upon Reflection (l’esordio con l’etichetta Ecm del 1979), in cui il musicista gallese raggiunse una sublime sintesi delle precedenti esperienze, incluse le collaborazioni con Carolyn Carlson che proseguirono per tutti i Settanta e la frequentazione del repertorio barocco con tutto il piacere che ne derivava. A proposito del S.O.S., infatti, Surman ricorda la ricerca collettiva di un sound che fosse proprio del trio:
“Ce la spassavamo in particolare con le invenzioni a tre voci di Bach anche perché era un piacere suonarle”
(Pearson, 2011).
Un filo rosso evidente soprattutto nell’iniziale Country Dance dallo spettacolare intreccio e in Where’s Junior, entrambe con un impianto ritmico e melodico prelevato di sana pianta dal folk inglese (in seguito Surman dirà che il S.O.S. era composto da tre folk singers). Bop elettronico potrebbe definirsi quello messo a punto in Wherever I Am e in Goliath; quasi altrettanto avviene in Ist, dove Skidmore e Osborne si esprimono in una lingua più confinante con il jazz in senso stretto, mentre Chordary disegna volute di stampo cameristico. L’album si chiude all’ombra di Terry Riley con Calypso: loop elettronici in primo piano e improvvisazioni trattate con echi in un’altalena di sussurri e grida. I due dischi messi a punto dalla Cuneiform rendono maggiore profondità all’opera del S.O.S., sia mettendo in mostra l’evoluzione e le modificazioni sul repertorio poi selezionato per l’album ufficiale sia regalando composizioni ed esecuzioni inedite di una bellezza a tratti abbacinante. Il primo disco frutto di apparizioni negli studi radiofonici della BBC si apre con una fulminante News che vede all’opera il solo Surman al soprano e al sintetizzatore, utilizzando sovraincisioni, ritardi e altri effetti.
Nel brano eponimo Surman suona anche un pianoforte a coda che subentra al sintetizzatore adoperato nel preludio a un pregevole assolo di Osborne, quasi un compendio della sua arte caratterizzata dal fraseggio frenetico e dal timbro semi metallico. Robusta l’architettura di Rashied, che porta la firma di Rashied Alì, batterista che fu in duo con John Coltrane nell’ultima registrazione di questi in studio (sempre a proposito di formazioni fuori dagli schemi), Interstellar Space (1967). I restanti due brani vedono la partecipazione del batterista Tony Levin, che con Surman aveva già suonato, come testimonia l’album che li riprende in concerto: Live At Moers Festival (1975). La presenza di Levin permise a Skidmore di essere più protagonista, specie nella prorompente Q.E. Hall, con Surman a cimentarsi anche ampiamente al piano elettrico. Chiude il disco a passo di marcia The Mountain Road, rielaborazione di un brano recuperato dal patrimonio folklorico anglosassone. Il concerto che S.O.S. tenne al Balver Höhle Jazz Festival vide, invece, la rielaborazione di buona parte dei brani confluiti poi nell’album in studio della Ogun. In Suite compaiono Ist e Goliath, mentre Up There include Where’s Junior?, Cylce Mountain e Country Dance (una sigla ideale per il trio). La suddetta The Mountain Road si ritrova insieme ad altri materiali folk sapientemente rielaborati nella terza tranche del concerto intitolata Trio Trio. I tre lunghi brani consentono di ammirare al meglio il procedimento adottato dal S.O.S., che a partire da un tema vedeva a turno improvvisare i tre, dando il via e guidando l’improvvisazione collettiva, tornando quindi al tema per imboccare una nuova strada, di solito facendo perno su Surman. Mirabile il bis concesso, Legends, una delle invenzioni a tre voci di Johann Sebastian Bach arrangiata da Surman.
Le strade si separano
Pubblicato l’album, l’esperienza si concluderà. Intanto il jazz entrava anch’esso nell’era digitale e da lì in avanti sarebbe stato un progressivo diffondersi dell’elettronica, dai sampling ai laptop e anche al recupero di strumenti pionieristici come il theremin, ma questa è un’altra storia. Scioltosi S.O.S., di lì a breve, ognuno seguirà un percorso sempre più personale: Surman proseguirà un’autorevole carriera, diventando un fiore all’occhiello del catalogo Ecm e acquisendo definitivamente fama internazionale. Skidmore dopo aver militato nei Ninesense di Elton Dean e allestito un trio dedito a un più classico free, S.O.H., con Tony Oxley alla batteria e Ali Haurand al contrabbasso, avrà una lunga stagione di semi silenzio, seguita dal breve lampo africano con gli Amampondo sul finire dei Novanta e da un bel gettone di presenza nella Dedication Orchestra. Il povero Osborne, invece, dopo essersi cimentato con qualche formazione estemporanea, sarà tormentato e logorato dagli spettri della propria mente sin dai primi anni Ottanta, lasciandoci definitivamente nel 2007. A noi restano tre storie, per non dire della musica.
- Autori vari, Jazz in Britain, Vocalion, 2006.
- Alan Skidmore Quintet, Once Upon a Time, Vocalion, 2005.
- Alan Skidmore Quintet, TCB, Vocalion, 2011.
- S.O.S., S.O.S., Ogun, 2006.
- John Surman, How Many Clouds Can You See, Vocalion, 2006.
- John Surman, Westering Home, FMR Records, 1995.
- John Surman, Upon Reflections, Ecm, 2011.
- The Trio, The Dawn Sessions (include The Trio e Conflagration), Sequel, 1999.
- Filippo Bianchi, Il secolo del jazz, Bacchilega, Imola, 2008.
- Mike Pearson, John Surman: The Belting Zodiac, Soundworld Publishers, Uk, 2011.