Cinquant’anni di Rock Bottom,
l’autentica grande bellezza

Robert Wyatt
Rock Bottom
Formazione complessiva:
Robert Wyatt (voce, tastiere,
chitarra slide, percussioni),
Mongezi Feza (tromba),
Gary Windo (clarinetto basso),
Mike Oldfield (chitarra),
Fred Frith (viola),
Hugh Hopper, Richard Sinclair (basso),
Laurie Allan (batteria)
Ivor Cutler (voce, concertina)
Alfreda Benge (voce)
Virgin Records, 1974

Robert Wyatt
Rock Bottom
Formazione complessiva:
Robert Wyatt (voce, tastiere,
chitarra slide, percussioni),
Mongezi Feza (tromba),
Gary Windo (clarinetto basso),
Mike Oldfield (chitarra),
Fred Frith (viola),
Hugh Hopper, Richard Sinclair (basso),
Laurie Allan (batteria)
Ivor Cutler (voce, concertina)
Alfreda Benge (voce)
Virgin Records, 1974


Il primo giugno del 1973, durante una festa a casa dell’artista e poetessa Lady June, per il suo compleanno e quello della compagna di Daevid Allen e cantante dei Gong Gilli Smith, Robert Wyatt, totalmente ubriaco, cadeva dal quarto piano riportando un danno permanente al midollo spinale, costringendolo per il resto della sua vita su una sedia a rotelle e mettendo fine, in pratica, alla sua carriera di batterista. Poco più di un anno dopo, il ventisei luglio del 1974, esce per la Virgin Records Rock Bottom, suo secondo album solista e unanimemente riconosciuto quale uno dei più bei dischi di popular music. In questo lasso di tempo, di per sé breve, la vita di Wyatt e la sua carriera di musicista cambiano radicalmente, trasformando l’ex batterista dei Soft Machine, dei Matching Mole e di tanti altri progetti musicali in un autore e cantante di assoluto livello, nonché attivista politico e più in generale figura di riferimento per una larga schiera di musicisti, ancora più che in passato. Rock Bottom rappresenta indubbiamente l’apice della sua carriera artistica, senza per questo sottovalutare i dischi e le collaborazioni precedenti e seguenti; un disco che si può benissimo dire perfetto in ogni sua componente, da quella musicale ricca di riferimenti e suggestioni amalgamati meticolosamente, a quella testuale, profonda e sensibile, commovente per certi versi. Anche se molto della sua aura è dovuta all’essere un album uscito dopo il terribile incidente e quindi legato in qualche modo a quell’evento, in realtà Rock Bottom venne in parte già concepito tra la fine di dicembre del 1972 e l’inizio del 1973, durante i due mesi di residenza a Venezia, al seguito di Alfie Benge, sua compagna e successivamente moglie (sposata lo stesso giorno dell’uscita del disco), grazie alla tastierina Riviera (oggi un cult), comprata per l’occasione.

Omaggio visivo: un frame del film d’animazione di Maria Trenor, Rock Bottom (2024), ispirato all’album di Robert Wyatt.

Certo, molto probabilmente le musiche abbozzate in quei due mesi sarebbero state differenti se Wyatt avesse potuto ancora suonare la batteria o fosse stato in grado di avere un gruppo più o meno stabile. Tuttavia, il fatto di essere in parte concepito prima dell’incidente ci porta a vedere Rock Bottom non solo come il disco del Wyatt in sedia a rotelle, esclusivamente legato alla nuova condizione e ai postumi della difficile riabilitazione. Per spiegarci meglio, l’album contiene in sé le mille avventure musicali e influenze avute in precedenza, dai Wilde Flowers ai Soft Machine, alla frequentazione della scena jazz inglese e dei musicisti sudafricani residenti a Londra, ai contatti con il mondo psichedelico e alle suggestioni dada, alla patafisica, alla sperimentazione in generale. Un’apertura mentale e artistica che giunge, finalmente si potrebbe benissimo dire, a compimento proprio con Rock Bottom, e che la nuova condizione di cantante e autore gli permette di dispiegare armoniosamente e con un singolare e straordinario equilibrio in questo album.

Anatomia di un capolavoro 1: lo spazio

“…Alfie influenzò soprattutto la musica stessa, dato che certi miei lavori precedenti non le erano piaciuti: li trovava troppo densi, sovraccarichi. E così mi aveva consigliato: “Perché non introduci più spazio, non lasci che si dipanino meglio come fanno Van Morrison e altri come lui?” E mi influenzò molto positivamente, imparai a lasciare più spazio”
(Wyatt in King 1994).

“Nick Mason aveva quel magnifico senso floydiano dello spazio. [ ]. I Floyd avevano creato una nuova architettura. Quello era stato il loro grande contributo e il motivo per cui avevo scelto Nick. Tendevo da sempre ad ammucchiare le cose e a perdermi nel fitto dei dettagli. Lui mi disse solamente: «Tutta roba buona ma dalle più spazio. Dà all’ascoltatore il tempo di respirare. Segui la corrente»
(Wyatt in O’ Dair 2015).

Effettivamente, se c’è un elemento di radicale cambiamento in Rock Bottom rispetto a tutta la musica precedentemente suonata e composta da Wyatt, questo è proprio lo spazio, il respiro, il costante fluire della storia, la possibilità di essere avvolti dalle melodie e dalle sensazioni generate dalle composizioni. Messo a confronto con un qualsiasi altro disco dei Soft Machine, o dei Matching Mole, questo disco sembra trasmettere un senso di rallentamento, di rilassatezza che dà la cifra stilistica a tutto il lavoro. Non si tratta solamente della mancanza del furioso e irruente drumming di Wyatt: c’è un uso sapiente delle suggestioni minimaliste che, invero, hanno sempre influenzato la musica dei gruppi di Wyatt, probabilmente dovute anche ai primi anni della sua carriera artistica trascorsi a fianco di Daevid Allen. Ma questa volta l’elemento non è usato a fini ipnotici, bensì serve a dipanare lo svolgimento degli eventi, a creare per l’appunto spazio, in un’atmosfera costante di apparente stasi. La coda di A Last Straw, con quelle note singole di pianoforte che salgono e poi scendono inesorabili, solitarie, a lanciare la reiterata sequenza iniziale di accordi di Little Red Riding Hood Hit The Road, splendido tappeto per le folate della tromba di Mongezi Feza, il regolare giro di basso di Hugh Hopper all’inizio di Alifib, il finale di Alife e lo sviluppo di Little Red Robin Hood Hit The Road, con Wyatt che ripete incessantemente “can’t you see them”, e quella lunga coda caratterizzata dalla viola di Fred Frith e la costante e ripetuta baritone concertina di Ivor Cutler che sorregge la sua inconfondibile voce. Questo utilizzo di ambienti minimali, soavemente accennati, allarga la dimensione sonora, permette al brano di respirare, di svolgersi con la giusta misura, senza affastellare gli elementi.

Anatomia di un capolavoro 2: le canzoni

“A me piace la musica. Canzoni. Melodie”
(Wyatt, 2009).

“Essenzialmente voleva ancora fare canzoni. È molto legato alla canzone ed è per quello che nei Wilde Flowers era passato dalla batteria alla voce. Non avrebbe mai voluto abbandonarle”
(Brian Hopper su Wyatt in O’ Dair, 2015)

Rock Bottom è prima di tutto, o meglio sopra tutto, un album di canzoni, di splendide melodie cantate, arrangiate in modo tale da far emergere le linee melodiche e i testi. Anche questo è un elemento nuovo, pur se solo in parte. Vero è che già in passato Wyatt aveva espresso la sua grande capacità nel comporre brani, nel cantare canzoni, ma queste erano immerse in un mondo sonoro fatto di improvvisazioni, sperimentazioni, approcci avanguardistici; un mondo sonoro nel quale la melodia era uno dei tanti elementi atti a configurare un’estetica ricca e multiforme. La stessa Moon In June, dal Third dei Soft Machine, insieme splendido esempio di composizione e chiaro presagio della futura rottura tra Wyatt e il resto del gruppo, è un insieme di canzoni organizzate a mo’ di suite e, pur nella sua estrema bellezza, l’esatto opposto della nuova concezione di spazio suggerita da Alfie e Mason per la registrazione di Rock Bottom. Ciò che accade ora è che i brani hanno una struttura certo elaborata ma perfettamente consonante, armonica, senza giustapposizioni. Non sono sparite le improvvisazioni, ma sono al servizio della canzone, ne arricchiscono la struttura senza appesantirla. Struttura che, ed è un altro elemento di livello, rifugge i classici clichè di strofe, ritornelli, bridge, assoli. In questo c’è la maggiore vicinanza al Van Morrison di Astral Weeks; la capacità di innovare la struttura dalla canzone, pur mantenendone la forma. Introduzioni, refrain, assoli, tutto è unito a formare quel flusso sonoro costante che permette alle melodie di stagliarsi limpide e indelebili, memorabili. Pur contenendo molte variazioni e segmenti, questa varietà e ricchezza di tutti i brani di Rock Bottom non si percepisce singolarmente ma viene apprezzata e accolta solo all’interno della canzone, anzi, è la canzone stessa.

Anatomia di un capolavoro 3: il jazz

“Io, Hugh ed Elton perseguivamo un orientamento vagamente correlato al jazz. Robert era fortemente contrario, il che è strano ripensandoci oggi, visto che era appassionato di jazz
(Mike Ratledge in O’ Dair, 2015).

“L’idea stessa di essere più avanti suonando accordi strambi su metri bizzarri – come per dire: “Oh, questa sì che è meglio della musica pop” – mi sembrava una cretinata. Quello che davvero mi piaceva della musica pop – come del jazz di una volta, quand’era ancora vera popular music (corsivo nel testo) – era la capacità, nelle sue espressioni migliori, di essere al tempo stesso musica intellettuale ma anche profondamente viscerale e intuitiva”
(Wyatt in O’ Dair, 2015)

Le semplici triadi maggiori che introducono Sea Song, brano di apertura del disco, tradiscono in parte il mondo sonoro al quale la precedente carriera di Wyatt ci ha abituato. Per un amante del jazz l’utilizzo di triadi in luogo di accordi di settima sembra spostare l’estetica in ambito rock o pop. Ma non bisogna dimenticare che tutto l’album è stato concepito da Wyatt grazie a una piccola tastiera, e soprattutto che Wyatt è un autodidatta. Il suo approccio allo strumento certo differisce per esempio da quello di Mike Ratledge, o di altri tastieristi con i quali Wyatt ha collaborato. E quindi, sia le successioni che gli accordi sono veramente frutto della sua creatività quasi per nulla mediata dallo studio accademico. Ma quella creatività ovviamente fa riferimento ai suoi numerosi ascolti di quando era più giovane, ai dischi jazz così come alle tante collaborazioni avute nella sua carriera artistica. Questo approccio riesce a trasmutare nelle canzoni il sapore afroamericano, a creare quell’atmosfera jazzy, malinconica, con una predominanza generale di tonalità minori, pur utilizzando spesso delle semplici triadi. Ad arricchire il panorama armonico però, Wyatt inserisce spesso delle tensioni, queste sì di uso jazzistico, come le quinte diminuite o le quinte aumentate, accordi semidiminuiti, passaggi cromatici, oppure accordi vuoti (solo prima e quinta), tutto materiale che scaturisce dall’utilizzo di tastiere in luogo di chitarre. È il panorama sonoro della scena di Canterbury, dove i tastieristi hanno avuto certamente più peso dei chitarristi.
La magia di Rock Bottom è che Wyatt riesce a riportare il jazz in ambito popular, così come descritto dalle sue parole: il suono della tastierina Riviera colora tutto l’album di blue, dandogli un sapore soffuso, intimo, ma che viene corrugato da suoni e note anomali, progressioni inaudite, melodie elaborate eppur spontanee, e gli interventi dei musicisti ospiti sui quali torneremo più avanti. Nulla a che vedere con il jazz rock, ma anche in gran parte lontano dalla tipica estetica canterburiana, soprattutto quella degli Hatfield And The North, o, ancora più distanti, dei National Health. Per certi versi siamo più dalle parti dei Caravan e dei primi Soft Machine, ma lo spessore è certamente maggiore, la qualità compositiva così come l’esecuzione è di un livello tale da porre Rock Bottom al di fuori di quella scena, da cui peraltro ne prende le movenze. E siamo lontanissimi anche dal mondo progressive, con l’assenza di suite, di quadri, di tempi dispari e di virtuosismo solistico. È un mondo di assoluta originalità che non ha prodotto seguaci, se non i successivi lavori di Wyatt, ma solo ammiratori, dovuto in gran parte alla incredibile perfezione del risultato, impossibile da imitare.

Anatomia di un capolavoro 4: la voce

“Quando provo a cantare è come un processo di eliminazione ed evito di fare qualunque cosa che non ritenga necessaria. Mi sento come se lavorassi in maniera primitiva
(Wyatt, 2009).

Uno dei motivi per il quale Rock Bottom appare come un album intoccabile, un quadro da guardare alla giusta distanza senza osare di volerlo riprodurre anche solo in parte, è la performance vocale di Wyatt. Assolutamente inarrivabile, morbida e flessuosa, che entra nelle note, e poi si adagia e plana sulla melodia armoniosamente. È una voce che si modifica, che interpreta, che improvvisa, con quel suo scat ispirato alle trombe con la sordina dell’orchestra di Duke Ellington o all’uso del wah wah in Sly & The Family Stone (cfr. Marcus O’ Dair, 2015). C’è l’utilizzo della voce come strumento, ricollegandosi in parte a ciò che accade spesso nei lavori canterburiani: Gilli Smith e Daevid Allen nei Gong, le Northettes con gli Hatfield And The North, Amanda Parsons con i National Health, e anche Richard Sinclair sempre negli Hatfield And The North. Cionondimeno, le improvvisazioni in Sea Song e A Last Straw sono di un livello probabilmente mai raggiunto prima, proprio per la limpidezza, la rilassatezza e la straordinaria inventiva che Wyatt mostra in questo suo secondo album solista.

Anatomia di un capolavoro 5: i musicisti

“La grande differenza con Rock Bottom fu che, non facendo parte di un gruppo, potevo invitare determinati ospiti su brani specifici. Per esempio, c’erano due bassisti: Hugh Hopper suonò su certe cose con le quali pensavo che si sarebbe trovato a proprio agio e Richard Sinclair, altro amico del Kent orientale, intervenne su altri brani. Non è cosa che si possa fare normalmente senza provocare frizioni”
(Wyatt in O’ Dair, 2015).

“La scelta degli ospiti rifletteva l’ampiezza di gusti musicali di Wyatt”
(O’ Dair, 2015).

Richard Sinclair, Hugh Hopper, Ivor Cutler, Mongezi Feza, Gary Windo, Laurie Allan, Fred Frith, Mike Oldfield. Questo l’elenco dei musicisti presenti su Rock Bottom, oltre a Nick Mason in qualità di produttore e Alfreda (Alfie) Benge alla voce, ma di lei parleremo successivamente. Quando si dice che Rock Bottom rappresenta in gran parte la summa delle mille suggestioni e frequentazioni avute da Wyatt questo è ampiamente dimostrato dalla scelta dei musicisti, dalla varietà, peraltro poi organizzata e assemblata a costruzione di un’estetica omogenea. Abbiamo Canterbury (Richard Sinclair e Hugh Hopper), la psichedelia (Nick Mason e, in parte, Mike Oldfield), il jazz sudafricano ed il free (Mongezi Feza e Gary Windo), la sperimentazione e l’avanguardia (Ivor Cutler e Fred Frith). Abbiamo una Little Red Riding Hood Hit The Road fatta scorrere al contrario con il basso di Sinclair sovrainciso (su un’idea di Alfie Benge) come nella più tipica tradizione psichedelica, e le suggestive raffiche africane di tromba di Mongezi Feza sempre su lo stesso brano, il basso profondo e insinuante di Hugh Hopper e quello più melodico di Richard Sinclair, la batteria eterea e allo stesso tempo incalzante, potente, di Laurie Allan, una viola aliena di Fred Frith insieme all’eccentrica voce di Ivor Cutler, la spazialità della chitarra di Mike Oldfield e lo sporco free di Gary Windo con le sue ance. Ognuno di loro al posto giusto nel momento giusto, con interventi misurati ma di grande fascino, tutto al servizio della composizione. Certamente non sarebbe stato possibile avere Rock Bottom senza il contributo di questi musicisti.

Anatomia di un capolavoro 6: le parole

“Mi imbarazza sempre molto il fatto che si pensi che parte del disco parla di me. Quando cominciò a lavorare sulle parole di Alifib, Robert cantava: “Polly, my larder”. Allora gli chiesi: Chi è questa Polly? Se vuoi cantare di qualcuno, canta di me! Non fu propriamente un’idea sua: mi introdussi quasi a forza nel disco”
(Alfreda Benge in Michael King, 1994).

“Nel verso finale di Sea Song, il semplice ma rincuorante “non siamo soli”, riecheggia qualcosa che sia Robert sia Alfie dicono della loro relazione: quando si conobbero smisero di sentirsi soli”
(Marcus O’ Dair, 2015).

In Rock Bottom convergono una serie di aspetti privati e artistici di Robert Wyatt che hanno molto a che fare con la sua relazione con Alfreda Benge. L’invito a seguirla a Venezia a seguito delle riprese del film di Nicolas Roeg A Venezia…un dicembre rosso shocking, dove lei avrebbe lavorato in qualità di seconda assistente al montaggio, lo costringe a uno stop forzato dai suoi numerosi impegni ma allo stesso tempo gli dà la possibilità di lavorare su idee e musiche nuove, di interrompere il turbinio di concerti e collaborazioni varie, di ascoltare i consigli e di riflettere. Una vacanza che consolida una relazione fertile, proficua, alla pari, e che diverrà ancor più stretta subito dopo l’incidente con la presenza costante di Alfie al suo fianco. È questa relazione affettiva che si dipana in un momento della loro vita assai particolare ad essere in gran parte al centro dei testi di Rock Bottom; circostanze e contesto che verranno poi riversati, artisticamente, in parole. I numerosi riferimenti all’acqua, del quale la copertina disegnata da Alfie ne è un esempio lampante, sono uno degli aspetti più interessanti e visivamente potenti dei testi di Rock Bottom: da una parte il ricordo di una vacanza intensa passata tra i canali di Venezia con colei che diverrà poi sua moglie, dall’altra riferimento al salto nel vuoto compiuto sia fisicamente che artisticamente, ma anche un ritorno al grembo materno, un toccare il fondo del mare per poi risalire, il lasciarsi andare al flusso delle maree, e poi delfini, cuccioli di capodoglio, alghe aggrovigliate (Sea Song). È un mondo acquatico che viene enfatizzato anche da quel particolare suono di quella tastiera Riviera regalatagli da Alfie proprio a Venezia.

Robert Wyatt e Alfreda (Alfie) Benge.

Interessanti sono le tematiche che riguardano più propriamente il loro rapporto di coppia e sul quale Wyatt, durante la sua permanenza in ospedale dove inizia a riprendere confidenza con la musica mettendosi a suonare un pianoforte, ha avuto modo di riflettere. La pausa forzata gli permette di elaborare testi che, pur parlando in generale d’amore, non perdono il loro carattere dadaista, potremmo dire: Alfie come dispensa, come cena, e lei che risponde apostrofandolo “una vecchia crema sdolcinata” (Alife). Così come non vengono persi i giochi di parole, i nonsense, il famoso fol de rol, da sempre caratteristica fondamentale della scena di Canterbury: dalla serie di “no nit not” passando per “trip trip pip pippy pippy pip pip” in Alifib/Alifie che producono una sorta di tappeto ritmico, alle talpe d’acqua (probabile riferimento ai Matching Mole), alla stessa presenza di Ivor Cutler che declama “Io e il porcospino facciamo scoppiare le gomme tutto il giorno” (Little Red Robin Hood Hit The Road).  Un corredo testuale che ondeggia tra la decantazione di un rapporto finalmente maturo e duraturo, e le ombre che talvolta aleggiano sulle parole, alludendo in maniera poetica al drastico cambiamento avvenuto nella vita di Wyatt. La forza dei testi si amalgama perfettamente alle atmosfere musicali rendendo, ancora una volta, l’album assolutamente omogeneo e bilanciato.

Coda
Tuttavia, questa parziale analisi non coglie pienamente l’essenza di Rock Bottom, i significati e le emozioni che ancora oggi riesce a dare. Non spiega, e non potrebbe farlo, perché a distanza di così tanto tempo quest’album suona ancora attuale, intenso, coinvolgente, persino innovativo. Come in tutte le grandi creazioni artistiche, ci sono sempre aspetti che sfuggono alla disamina oggettiva. C’è quel senso di magia, di trascendenza che fa sì che quell’opera mantenga una sua natura misteriosa, insondabile, impossibile a spiegarsi. Una dimensione magica che la rende immortale. Nessun dubbio che fra altri cinquant’anni si ascolterà, si parlerà e si scriverà ancora di Rock Bottom.

Ascolti
  • Matching Mole, Matching Mole, Esoteric Recordings, 2012.
  • Matching Mole Matching Mole‘s Little Red Records, Esoteric Recordings, 2012.
  • Soft Machine, Third, Sony Music, 2013.
  • Robert Wyatt, The End of an Ear, Cherry Red, 2013.
Letture
  • Graham Bennett, Soft Machine. Out-Bloody-Rageous, SAF Publishing, London, 2005.
  • Michael King, Falsi Movimenti. Una storia di Robert Wyatt, Arcana Editrice, Milano, 1994.
  • Marcus O’ Dair, Different Every Time. La biografia autorizzata di Robert Wyatt, Giunti Editore, Firenze, 2015.
  • Robert Wyatt, Dalla viva voce, Auditorium Edizioni, Milano, 2009.