ORIENTAMENTI | QDAT 64 | 2016

orienta


di Gennaro Fucile

 

* Li si indichino come meglio aggrada, Generation Z, iGen, Post-Millennials, Centennials, o Plurals, in ogni caso il risultato non cambia. Si parla sempre degli stessi giovani, giovanissimi e bambini, anche molto piccoli, che con i gadget tecnologici di ultima generazione intrattengono relazioni tanto privilegiate quanto disinvolte. Ne fanno un uso a volte imperscrutabile per chi ha un’età maggiore; nel caso dei più piccini sono oggetti che accettano come naturali residenti nel proprio habitat. Giocano, comunicano, si divertono, si informano, fanno qualcosa che è tutto questo insieme, con buona pace di quelli che erano i giochi e gli intrattenimenti delle generazioni precedenti, dai baby boomers ai millennials. Forse. Prima di emettere una simile condanna, sarà meglio verificare lo stato di salute dei vecchi giocattoli e delle storie che veicolano, cercando di capire se davvero l’obsolescenza è tale da renderli oggetti museali e poco più. Iniziando proprio dai musei, dove un dispositivo narrativo che non mostra rughe, la bambola Barbie, ha compiuto una trionfale tournée, da Milano a Roma, da Parigi a Bologna con la mostra Barbie. The Icon. Autocelebrazione dei fasti del passato? Neanche per sogno. L’ineffabile Barbie abita ancora i sogni e le veglie di milioni di bambine ed è tuttora protagonista di ennesime camaleontiche incursioni in mondi altrui dalle quali trae linfa vitale. Dei meccanismi così affini a quelle del vampiro che la bambola aziona si è già detto (www.quadernidaltritempi.eu/numero58) e qui non vi ritorneremo.

 

 

Un altro oggetto anziano, ben oltre le ottanta primavere, si è confermato in salute, essendo resiliente come nessun altro: il Lego. Lo scorso ottobre a Milano ha aperto il quinto negozio monomarca del mattoncino. Presenta alcune soluzioni e novità tecnologiche che ancora più evidenziano la capacità di meticciare passato e futuro insieme: l’Immersion portal, grande teca trasparente in cui ci si può infilare per ritrovarsi, per così dire, all’interno delle ambientazioni Lego, il Minifigures scanner che consente di realizzare un alter ego, in versione, appunto, minifigure, e la Digibox, grazie alla quale il set contenuto nella scatola acquistata si anima su uno schermo passando su uno scanner il codice a barre. Tutto senza tradire la natura di fondo del mattoncino, quella incredibile capacità di generare soluzioni, ottenendo il massimo con il minimo. Di recente un industrial designer, Jonathan Bree, ha annotato sul suo blog (5thingsilearned.com/@jonathan_bree) le cinque cose che ha imparato lavorando per l’azienda danese, indicando la singolare affinità tra il costruire con i Lego e scrivere un tweet: tutti ci si possono cimentare, sostiene Bree, e non c’è una maniera sbagliata per unire dei mattoncini di plastica così come non c'è un modo sbagliato di scrivere dei tweet. Un gioco ottantenne che mostra la stessa logica operativa di una pratica odierna e più più passa il tempo e maggiore diventa l’intreccio tra vecchio e nuovo. Un po’ come accade nel nuovo capitalismo, che si sta intrecciando al feudalesimo, quel capitalesimo di cui si è prospettato l’insorgere (cfr. Paolo Gila, Capitalesimo, Bollati Boringhieri, Torino, 2013). 
A dirla tutta, l’amore per i tempi andati mostra anche un discreto insorgere della schiavitù, ma restiamo ai giochi. Barbie e Lego arrivano dal passato eppure non mostrano la corda, i relativi giri d’affari parlano chiaro. A pensare il futuro come un’onda che spazza via tutto, nello stile degli Unni, furono i primi ingenui scrittori di fantascienza e a esser logori e insostenibili sono proprio gli scenari di ieri sul domani, le vecchie storie sci-fi che confinavano gli oggetti a noi familiari nel ghetto dei ricordi, popolando la scena di nuovi, dai nomi altisonanti e dall’operabilità fanfarona.

 

 

Ancora più eclatante è un altro prodotto destinato ai più piccoli. Partito in sordina nel 2009/2010, si è trasformato in un successo mondiale, allarmando i pedagoghi (incita a far dispetti, ecco il j’accuse). Ha addirittura scatenato ipotesi complottiste con il presidente russo Putin nelle vesti del gran burattinaio. Sì, perché il caso nasce in Russia: il cartoon Masha e Orso dello studio Animaccord. La protagonista è una bimba addobbata in costume tradizionale color fucsia, così démodé che oggi in Russia nessuno si veste più così, neanche nell’angolo siberiano più sperduto; passa il suo tempo a far visita e giocare ma più che altro a molestare il suo amico, Orso, affettuoso, paterno, paziente soprattutto, perché la piccola è quanto mai discola. Orso, animale simbolo della Russia, vive in una casetta tra i boschi e nei paraggi ci sono altri animaletti che volta per volta vengono coinvolti nei pasticci combinati da Masha. La tecnologia più recente è defilata, c’è un telecomando spaziale ma il televisore è da anni Cinquanta, non c’è computer, ma il cellulare sì. Storie fulminee, di immediata comprensione, anche per i piccolissimi, Masha e Orso vestono i panni della tradizione ma vanno più veloci della luce. Raccontano in un tweet l’arcadia russa. Cinquantanove episodi finora prodotti, non tutti disponibili in italiano, realizzati in 3D CGI (computer-generated imagery). A inizio 2016 si è paventata la fine della produzione ma poi a furor di popolo si è ricominciato. Da noi sono trasmessi a tambur battente su Rai YoYo, su DeA Junior e su Infinity. Impazza su YouTube, è distribuito in oltre cento Paesi e vanta un giro d’affari che si avvicina ai trecento milioni di dollari; soltanto il licensing vede ormai coinvolte circa centocinquanta aziende.

 

 

Come è possibile? Si può capire il successo in patria, essendo farcito di figure archetipiche dell’immaginario russo ma come spiegarne la marcia trionfale per esempio in Indonesia? È il segno dell’oggi. In Masha e Orso coesiste quel coacervo di sentimenti d’altri tempi, di tempi narrativi propri della Rete, di rimandi al passato (gag in stile Tom & Jerry) e al presente/futuro (Masha nelle vesti di una rockstar, per esempio) considerati come universi paralleli, coesistenti senza attrito, alla presenza di fantasmi di ieri e di modelli dell’oggi. Detriti della Storia interrotta, ricurva su se stessa. L’impianto bucolico russo è solo parte della costruzione narrativa di Masha e Orso, anzi è la vera finzione della storia. In realtà, la strana coppia si muove in un mondo che è post e niente affatto pre industriale. Da questa angolatura inizia a mostrarsi la sua sintonia con l’oggi, così ben riassunta dal quel repertorio di oggetti provenienti da tempi diversi, tutti raccolti in un solo macrotesto, che macina frammenti degli storici cartoon a stelle e strisce, nuovi eroi in 3D come quelli di Era glaciale, fiabe del folklore russo ma non solo, icone e fantasmi del socialismo reale, dipendenze globali come quella da videogiochi, narrata nell’episodio più recente, il numero 59, Game Over. Citazionismo e reincanto, coppia miracolosamente affiatata seppur bizzarra, quanto può essere quella costituita da una bambina e un orso. Lo spettacolo al tempo della finis historiae. Altro che canto nostalgico con sottofondo di balalaike. Masha e Orso è un prodotto del futuro e ci allarma un dettaglio.
La casa di Masha è situata vicino alla linea ferroviaria Mosca-Pechino. Oltre la stazione c’è il sentiero che porta alla casa di Orso. I treni sono di un’altra epoca, quando ne passa uno si scorge sulla caldaia della locomotiva un’enorme stella rossa. Se ne scorgono un po’ ovunque nei vari episodi. Rovina resistente. Il treno ha destinazione ignota. Sembra avere un’inquietante parentela con quello inserito nella distopia di Terminus Radioso, l’ultimo romanzo di Antoine Volodine, ambientato in una seconda Unione Sovietica a sua volta al crepuscolo in un pianeta in buona parte radioattivo, come Volodine lo immagina tra cinquecento anni. Lì un treno si dirige verso il nulla, al termine della Storia, trasportando figure spettrali. Chissà che anche oltre la siepe di Masha non ci siano nient’altro che fantasmi e ombre, quelli delle storie e della Storia. Ciò proverebbe quantomeno che quelle di Masha e Orso sono vere fiabe, perché si sa che queste per natura sono niente affatto tenere.

 


* Un grazie ad Arturo Pini per aver reso possibile questa congettura.