BUSSOLE | QDAT 63 | 2016
LETTURE / FUGGIRE DA SÉ
di David Le Breton / Cortina, Milano, 2016 / pp. 195, € 19,00
Uomini delle terre estreme
di Adolfo Fattori
Nelle prime pagine dell'Uomo senza qualità Robert Musil, presentando il suo alter ego, Ulrich Anders, il protagonista assoluto del romanzo, scrive che questi, tornato dopo diversi anni, trascorsi prima di tutto nell'esercito, nella sua città natale, "… vi si stabilì dunque provando le stesse impressioni di un viandante che si segga su una panchina per l’eternità pur presentendo che si rialzerà quasi subito" (Musil, 2014).
Forse un atteggiamento, sicuramente un comportamento che fissa subito un tratto fondamentale del giovane Ulrich, il suo essere contemporaneamente dentro e fuori il suo mondo, il suo tempo, il suo spazio sociale. Ulrich è uno sradicato, disincantato uomo della Krisis, quella che già si avverte nella "gaia apocalisse" viennese (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 29) che anticipò la Grande guerra e il crollo degli Imperi centrali (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 49), ma è fermo nel proposito di salvare il suo Sé, di conservare il legame fra la sua identità e il mondo circostante.
Il suo barcamenarsi interiore fra il movimento e l'immobilità non è dissimile da quello dei suoi simili, contemporanei e successori, fino ai giorni nostri, anzi, specialmente ai giorni nostri.
Solo che se nel suo caso è il procedere di una strategia di sopravvivenza che paga, che serve a provare a preservare e salvare la sua identità, come ha spiegato benissimo il sociologo Peter Berger (cfr. Berger,1992), mentre per la maggior parte degli altri individui non è stata e non è una strategia intenzionale, ma il semplice subire gli effetti di un "legame sociale", come si esprime David Le Breton in Fuggire da sé, che si sfilaccia, si scolla, fino a strapparsi, e a indurre alla fuga, alla sparizione, nell'estremo tentativo di annullarsi, di rendersi ignoti a se stessi.
Un agire frutto di un disagio, di una sofferenza, di un dolore indefiniti, diffusi, immanenti. Il ritrovarsi in un limbo fatto di "biancore" (ibidem), di assenza di stimoli emotivi, di spinte a essere.
L'antropologo francese, che già in passato si è concentrato sul rapporto fra uomo contemporaneo e dolore (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 54), è obbligato, potremmo dire, a citare Alain Ehrenberg e il suo La fatica di essere se stessi (Ehrenberg, 1999), saggio in cui lo psicanalista francese elegge la depressione a disagio mentale (lui scrive esplicitamente di "malattia", mentale) principe del Novecento e dato che il suo libro è uscito a ridosso del Terzo millennio, possiamo legittimamente immaginare, di questi primi decenni del Duemila.
Ehrenberg colloca l'emergere della depressione all'inizio del XX secolo (qui vediamo quanto Musil sia stato acuto), una fase in cui "Il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l'individualità in una condizione di continuo movimento" (Ehrenberg, 1999, corsivo nostro). Un continuo oscillare fra chi si percepisce di essere, e chi si vorrebbe essere, volontà che viene sempre più percepita come un obbligo verso il sé cui si aspira. Debolezza che Ulrich Anders trasforma in forza, fino a raggiungere la spinta centrifuga necessaria per fuggire dal mondo (ma non da sé) e rifugiarsi con la sorella Agatha in quello che chiamerà "il regno millenario"(Musil, 2014), il protetto giardino della casa di famiglia, isolato da tutto, ma che invece per la maggior parte dei suoi contemporanei, come gli altri scrittori dell'epoca, a partire da Robert Walser, descriveranno nei loro romanzi, si trasforma in una spirale disorientante, distruttiva (cfr. Fattori, 2013).
Ehrenberg precisa ancor meglio il suo pensiero scrivendo che l'obbligo a essere se stessi "... induce a porre in altri termini la questione dei limiti normativi dell'ordine interiore: la contrapposizione fra il permesso e il vietato" (Ehrenberg, 1999) che per Sigmund Freud era l'innesco delle nevrosi "tramonta per far spazio a una contrapposizione lacerante tra il possibile e l'impossibile. Per cui l'individualità viene a trovarsi notevolmente trasformata" (ibidem, corsivo nostro). I sensi di colpa e i conflitti interiori che si producevano varcando (nella realtà o nell'immaginazione) la soglia del proibito, e che generavano i disturbi nevrotici, sono sostituiti da un senso di impotenza e insensatezza distruttivo, che frantuma l'identità, la rende nemica a se stessa. Non si tratta più di pagare il prezzo emotivo dovuto all'aver lasciato libero sfogo al desiderio, alle pulsioni più profonde, quanto di ritrovarsi di fronte alla propria impotenza, all'impossibilità di "essere o diventare se stessi", qualsiasi cosa voglia dire, estremo approdo di un'invenzione tipicamente moderna, l'interiorità. La frequentazione quotidiana di sé diventa intollerabile. Siamo alla radice della depressione.
L'unica soluzione sarebbe riuscire a sfuggire a se stessi, a "fuggire da sé", come scrive David Le Breton, avviando l'esplorazione delle "terre estreme" in cui cercano rifugio, dal primo Novecento in poi, i nostri contemporanei.
E quindi l'antropologo esplora le lande desolate della dipendenza da sostanze, dei disordini alimentari, quelli della follia. Paludi, luoghi interiori senza stimoli, dove domina il nulla, un “biancore” allucinato, disperante, metafora della vertigine causata da un vuoto interiore che si proietta sull'esterno a riempire il reale, quello in cui sente di vivere chi si abbandona all'anoressia, o chi, al contrario, cerca di “distrarsi” dal senso della propria inutilità riempiendo il corpo di sostanze di tutti i generi, che sedino il dolore, o che al contrario rendano euforici, “vitali”, iperattivi... fino all'estrema fuga da se stessi, la psicosi. Da questo punto di vista, per l'antropologo francese anche il morbo di Alzheimer diventa la meta e la prigione dorata di una strategia di fuga da una vita quotidiana sempre meno stimolante, nonché da un corpo che coloro che invecchiano sentono sempre più declinante, disubbidiente, nemico (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 53). Insomma, tutte strategie di illusoria rigenerazione, recupero, trasformazione del Sé, destinati in genere come minimo a un deludente fallimento.
Per certi versi, hanno un senso opposto, più “classico”, “romantico”, se vogliamo, le fughe nei territori in cui si avventurano coloro che apparentemente di punto in bianco, ma spesso come esito di un lungo lavorio interiore, hanno deciso di lasciare la sua vita quotidiana, il suo lavoro, la sua famiglia, e scomparire allontanandosi in silenzio. Per crearsi un'altra vita, un'altra famiglia altrove: Le Breton cita il caso, narrazione nella narrazione, di cui racconta Sam Spade, il protagonista di Il mistero del falco (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 62), di un uomo che, sfuggito per un pelo a un incidente casuale che poteva essere mortale, aveva capito di colpo di quanto la vita fosse effimera e aveva deciso di sparire e costruirsi una nuova identità.
O anche per vivere avventurosamente, quasi in modo romantico, ottocentesco, come Chris McCandless, alias Alexander Supertramp. Rampollo di una famiglia agiata, Chris conduce una vita normale, fino alla laurea. Poi si libera di tutto ciò che ha, e abbandona la famiglia, senza dir niente a nessuno. Lavoricchia qua e là, per poi riprendere sempre la strada. Fin quando non si avventura "nel biancore della neve", scrive Le Breton, oltre il monte McKinley per avviarsi verso l'Alaska. Verrà ritrovato morto quattro mesi dopo l'ultima lettera a un amico in una roulotte abbandonata: ammalatosi, lontano da tutto e da tutti, non aveva potuto curarsi.
Prima di morire aveva annotato (usando la terza persona, come a marcare la distanza da un se stesso che non gli appartiene): "Da due anni cammina per il mondo [...] egli fugge, e solo cammina nelle terre estreme" (cit. in Le Breton, 2016, corsivo nostro). "Terre estreme" dell'anima, della costruzione della propria biografia, in una ricerca radicale, condotta "per uccidere l'essere falso dentro di sé e concludere vittoriosamente il pellegrinaggio spirituale" (ibidem). Una vicenda narrata da Jon Krakauer nel libro Nelle terre estreme (1996), da cui nel 2007 ne ha tratto materia Sean Penn per il suo pluripremiato e riuscito Into The Wild – Nelle terre selvagge. Anche altri casi citati da Le Breton, sono stati oggetto prima di finzione letteraria e poi cinematografica, come per esempio la vicenda del pluriomicida Jean-Claude Romand, narrata nel 2000 da Emmanuel Carrère in L’avversario e poi dall’adattamento cinematografico del romanzo per la regia di Nicole Garcia nel 2002. Il dramma venne rielaborato liberamente anche da Laurent Cantet in un altro lungometraggio dal titolo A tempo pieno (2001).
Simile, Chris/Alex, al protagonista di Il presentimento, un romanzo di Emmanuel Bove: Charles Benestau, (Bove 2012). Charles, affermato avvocato cinquantenne, sposato e con un figlio, abbandona di colpo famiglia, lavoro e amicizie, e si rifugia in una zona popolare della città dove vive, Parigi, desideroso di svanire alla vista e all’invadenza di amici e parenti, sperando di farsi completamente da parte dalla vita.
Benestau pensa che, finalmente, fuggendo dal suo mondo precedente, possa vivere isolato, passeggiando per Parigi e trascrivendo i suoi ricordi, non una “autobiografia” sistematica, ma una raccolta casuale di fatti, di frammenti della sua vita precedente, che però riguardano più avvenimenti accaduti ad altri, anche se alla sua presenza, che a lui stesso.
Un memoriale in negativo, in cui la sua esistenza è affermata solo dal suo essere stato testimone di eventi altrui, marcando la sua estraneità alle cose, ai fatti del mondo. Solo che la realtà lo insegue: un giorno ha un malore, una piccola emorragia. Prima cerca di rassicurarsi, poi si preoccupa, alla fine si decide a farsi controllare da un medico: la diagnosi è pessimista, dovrebbe curarsi, ma Benestau rifiuta, decide di lasciar seguire alle cose il proprio corso. E alla fine, come succede a tutti, muore. Al suo funerale il suo ambiente cercherà di riappropriarsi di lui, ormai inerme, indifeso. Un'ultima offesa, forse, al suo desiderio di sparire.
Come ricorda anche Le Breton, molti sono stati gli scrittori del Novecento che hanno esplorato la pulsione di fuggire da sé. Da Ferdinando Pessoa, che ha moltiplicato le sue identità letterarie (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 42), nascondendosi a se stesso e agli altri, al punto che la sua immensa opera sarà ritrovata in una valigia solo a quasi cinquant'anni dalla sua morte, nel 1982; a Hermann Melville e al suo Bartleby lo scrivano (2006; cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 39) ma anche a Robert Walser, naturalmente, ai suoi Joseph Marti e Jakob von Gunten, alle sue passeggiate (cfr. Walser, 1986, 1992, 1976), il suo modo preferito di dimenticarsi di sé, come commenta l'antropologo francese.
E, a proposito di Walser, c'è da ricordare, in tempi più vicini a noi, il Dottor Pasavento, il protagonista dell'omonimo romanzo di Enrique Vila-Matas. Pasavento, arrivato a un certo punto della sua vita, coltiva un'unica ambizione: quella di diventare uno "scrittore dimenticato" (Vila-Matas, 2008). Abbandona casa, città, amici, conoscenze, cambia nome, gironzola per l'Europa, va in Nordafrica. Il suo modello è Robert Walser, e il suo obiettivo è seguirne l'esempio, fino a Herisau, sede del manicomio sulle Alpi svizzere dove lo scrittore trascorse i suoi ultimi anni. In Nordafrica si presenta a coloro con cui entra in contatto col nome di Pynchon, il grande misantropo americano. Ogni tanto controlla la posta elettronica, per vedere se qualcuno lo ha cercato, e rimane ogni volta sollevato e contrariato perché nessuno gli ha scritto. Pasavento esiste davvero, come individuo, con una sua realtà anagrafica, fisica, sociale? O è lui stesso un fantasma, l'alter ego di qualcuno? Di Vila-Matas, o di un suo personaggio... Certo è che, chiunque scriva le parole di Pasavento/Vila-Matas, il suo obiettivo è sparire: "Scrivere è uno spossessarsi senza fine, un morire inesorabile" (ibidem), è scritto nel libro. La letteratura viene sperimentata come una via di fuga, dal mondo, e da se stessi e dagli altri.
All'opposto della forza d'animo di Ulrich Anders e di Robert Musil, Pasavento e i suoi simili, incapaci di guardare allo svolgersi della propria biografia come parte del flusso storico in cui sono inseriti (cfr. Wright Mills, 2014), cercano una fuga dal disagio, dal dolore, da una sofferenza senza fine, marchiata dall'impossibilità di realizzare un desiderio inappagabile: diventare se stessi, cioè altri da sé.
LETTURE
— Peter Berger, Robert Musil e il salvataggio del sé, Rubettino, Soveria Mannelli, 1992.
— Emmanuel Bove, Il presentimento, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2012.
— Emmanuèl Carrere, L’avversario, Adelphi, Milano, 2000.
— Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999.
— Adolfo Fattori, Sparire a se stessi. Interrogazioni sull'identità novecentesca, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2013.
— Robert Musil, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 2014.
— Enrique Vila-Matas, Dottor Pasavento, Feltrinelli, Milano, 2008.
— Robert Walser, La passeggiata, Adelphi, Milano, 1976.
— Robert Walser, L'assistente, Einaudi, Torino, 1986.
— Robert Walser, Jakob von Gunten. Un diario, Adelphi, Milano, 1992.
— Charles Wright Mills, L'immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano, 2014.
VISIONI
— Laurent Cantet, A tempo pieno, CG Entertainment, 2005 (home video).
— Nicole Garcia, L’avversario, Warner Bros, 2004 (home video).
— Sean Penn, Into The Wild – Nelle terre selvagge, 01 Distribution – Rai Cinema, 2010 (home video).