BUSSOLE | QDAT 63 | 2016
VISIONI / IL TRONO DI SPADE
di David Benioff, D. B. Weiss / HBO – Sky Atlantic / sesta stagione, 2016
Sexposition e potere a Westeros
di Giulia Iannuzzi
Può una quantità
determinare una qualità? Sì.
In un sistema complesso, raggiunta una determinata massa critica di
unità o di connessioni, può ad esempio nascere un
nuovo fenomeno, una nuova organizzazione degli elementi. Possono
fattori meramente quantitativi influenzare la qualità
di un prodotto della creatività intellettuale?
Certamente: Game of Thrones spende una media di sei
milioni di dollari per la realizzazione di una puntata (con picchi di
otto milioni), e i risultati si vedono nella rutilante ricchezza
figurativa, nell'impegno di scrittura e di interpretazione (e in ultima
analisi nell'immenso successo) che caratterizzano questa serie della
HBO. Le risorse economiche non bastano senza idee, ma non
c'è invarianza di scala nel budget di uno show televisivo:
il network via cavo statunitense sembra aver conseguito scientemente un
effetto valanga, o circolo virtuoso, tra ingente impegno produttivo e
risultato presso il pubblico.
Nata nel 2011 come adattamento di una saga letteraria da 31 milioni di
copie stampate, Game of Thrones è a oggi
la serie di maggior successo della HBO dai tempi dei Sopranos.
Con le sue sei stagioni uscite tra 2011 e 2016 (una settima
commissionata per il 2017), è stata trasmessa in oltre 150
paesi nel mondo, con ratings crescenti: 3 milioni di persone negli
Stati Uniti hanno guardato il finale della prima stagione in diretta,
via via fino a 4,2 quello della seconda, 5,4 per la terza, 7,1 per la
quarta, 8,11 milioni per la messa in onda dell'ultima puntata della
quinta stagione (nonostante fosse in programmazione in contemporanea
alla finale NBA), 8,9 milioni per il finale della sesta (dati Nielsen
cit. in Prudom, 2016; Kissel, 2015). Ha registrato una media di quasi
20 milioni di spettatori a puntata durante la quinta stagione contando
i servizi DVR, on demand, HBO Go e HBO Now, saliti
a 23,3 milioni di media per la sesta – per farsi un'idea
più concreta: è una cifra equivalente a quasi
metà dell'intera popolazione italiana (cfr. Mitovich, 2015;
Prudom, 2016). Dati che offrono uno spaccato interessante della
crescente importanza dei canali di distribuzione digitale, che contano
ormai – almeno per Game of Thrones
– per quasi due terzi dell'audience totale. Nonostante il
crescente impegno di HBO nell'articolare l'offerta per tutti coloro che
guardano lo show al di fuori dei palinsesti tradizionali, attraverso
piattaforme digitali on demand, la serie detiene da
alcuni anni anche il primato di show televisivo più piratato
della storia – per il 2015 si parla di 14,4 milioni di
download solo da BitTorrent; al secondo posto The Walking Dead
ne conta “appena” 6,9 milioni (cfr. Itzkoff, 2014;
Ernesto, 2015).
Ambientata nel mondo fantastico di ispirazione medieval-feudale
inventato da George R. R. Martin nel ciclo di romanzi A Song
of Ice and Fire – ad oggi cinque, pubblicati tra
1996 e 2011, altri due in stesura –, la serie ne adatta le
storie e le prospettive narrative con libertà variabile,
sotto la supervisione degli showrunners David Benioff e D. B. Weiss.
Potere e conflitto, intrigo e guerra, sesso e violenza, invenzioni
fantastiche e soprannaturali sono gli ingredienti essenziali di una
serie che segue le vicende di diverse casate nobili in competizione per
conquistare il trono della terra di Westeros. L'organizzazione
narrativa si avvale di formule rodate: la spiccata coralità
di fondo è marcata in ciascuna delle sei stagioni
dall'eliminazione di alcuni dei personaggi più popolari e
dall'introduzione di nuovi; la pregnanza degli archi narrativi
orizzontali (di stagione e di serie), la avvicina agli andamenti tipici
delle soap opera di cui già Lynch impose un riuso
intelligente e camp nei primi anni Novanta.
Al centro delle vicende, nella prima stagione, la famiglia di Eddard
Stark, Guardiano del Nord e fedele al regno di Robert Baratheon. Robert
siede sul trono di spade dopo essersi ribellato contro il re pazzo
Aerys II Targaryen, anni prima dell'inizio dell'azione, ribellione che
ha costretto gli ultimi Targaryen – Viserys e la sua giovane
sorella Daenerys – alla fuga nel regno di Essos. Cercei
Lannister, regina consorte di Robert, è madre dell'erede al
trono Joffrey Baratheon, frutto in verità dell'incesto col
fratello Jaime Lannister, come suo fratello Tommen e sua sorella
Myrcella.
Quando Eddard “Ned” Stark viene chiamato da Robert
a divenire Hand of the King (in italiano Primo cavaliere –
consigliere, delegato, braccio destro del re), dopo la misteriosa morte
del predecessore Jon Arryn, lascia Winterfell per King's Landing, la
capitale, portandosi appresso le figlie – la bella e delicata
Sansa, e la più giovane e fieramente indipendente Arya. A
Winterfell restano, assieme alla moglie Catelyn della casata Tully (la
cui sorella Lysa è vedova di Jon Arryn), i figli Robb
– maggiore ed erede, i più piccoli Bran e Rickon,
il figlio bastardo Jon Snow, e Theon Greyjoy – la cui casata
è legata agli Stark da rapporti vassallatici, da anni tenuto
come ostaggio dopo il tentativo di ribellione del padre, e ormai
pressoché “adottato” dalla famiglia.
Nella capitale Ned – troppo corretto ed onesto e
perciò troppo ingenuo e vulnerabile – non
sarà all'altezza del gioco di intrighi con cui la famiglia
Lannister sta cercando di impossessarsi del trono, e a cui partecipano
– ciascuno con i propri interessi – dignitari e
consiglieri, tra cui Petyr “Littlefinger” Baelish
– self made man arricchitosi con la
prostituzione, Varys – eunuco a causa di una mutilazione
subita durante un'infanzia di povere origini, giunto all'apice del
regno grazie al commercio di informazioni e a una vasta rete di spie, a
cui si aggiungerà presto Tyrion Lannister, fratello nano di
Cersei e Jaime.
I fili narrativi seguiti dalla prima stagione comprendono tre fuochi
fattuali e fisici principali: gli schemi politici che si architettano
in King's Landing, la ricerca di Viserys Targaryen di un appoggio per
riconquistare il trono dando in sposa la sorella a un re barbaro in
Essos, la vicenda di Jon Snow che si arruola nell'ordine del Night's
Watch votato alla protezione del confine a nord di Westeros, dove
un'enorme muraglia di ghiaccio separa il regno dalle popolazioni
ribelli che vivono al di là e da oscure e misteriose
presenze che vanno addensandosi, man mano che si avvicina un lungo
inverno.
Dopo la morte apparentemente accidentale di Robert Baratheon, la
decapitazione di Ned Stark, fatto accusare dai Lannister di tradimento,
giunge alla fine della prima stagione come momento di deflagrazione del
sistema di potere nel regno (e del sistema relazionale dei personaggi):
Tyrion Lannister diviene Hand of the King del giovane e sadico re
Joffrey, che tiene Sansa in ostaggio; Arya fugge fingendosi un orfano
di strada e si dirige a nord con una carovana di altri reietti
destinati all'arruolamento forzato nel Night's Watch; Robb Stark muove
guerra contro i Lannister, il cui esercito è guidato sul
campo dal padre Tywyn; Theon Greyjoy viene mandato a chiedere il
supporto del padre Balon, ma tradisce gli Stark per gli interessi della
sua famiglia di sangue, attacca Winterfell e Bran e Rickon devono
fuggire. Diffusesi le voci sulla vera paternità di Joffrey,
entrambi i fratelli del defunto Robert Baratheon avanzano pretese sul
trono: Renly – supportato dalla ricca famiglia della sposa
Margaery Tyrell, e Stannis – con il consiglio di Melisandre,
sacerdotessa della crudele religione di R'hllor. Jon Snow, nell'estremo
nord, finisce prigioniero delle popolazioni oltre il muro, dove scopre
che la vera minaccia è costituita non da questi ma dai White
Walkers – ritornanti simili a zombie
delle nevi, che si approntano a colpire Westeros. Nella terra di Essos,
Daenerys ha sposato Drogo, capo di una temibile orda destinato a una
morte prematura, e comincia un difficile percorso che la
porterà nelle stagioni successive a comandare un'armata di
schiavi liberati e tre draghi, e a prendere controllo delle
città Astapor, Yunkai e Meereen.
Nel corso delle puntate e delle stagioni muoiono, oltre a una messe di
comparse e numerosi comprimari importanti, diversi personaggi tra i
principali: dopo Ned Stark, anche Robb e Catelyn Stark in una
sanguinosa strage al termine della terza stagione; Joffrey Baratheon e
Tywyn Lannister nella quarta, Stannis Baratheon nella quinta, nella
sesta Tommen Baratheon succeduto al fratello Jeoffrey, la sua consorte
Margaery Tyrell e l'High Sparrow, il leader religioso che era giunto a
tenere in scacco la corona nel corso della quinta e sesta stagione.
Altrettanti personaggi vengono introdotti, man mano che entreranno nel
gioco dei troni, assieme a Stark, Baratheon, Lannister e Targaryen, le
casate dei Greyjoy, Tyrell, Bolton, Arryn, Frey, Martell. L'intreccio
si dipana tra infingardi scacchieri politici, o geografico-bellici, e quest
intraprese da personaggi isolati o con pochi compagni.
Una struttura corale dunque, e un andamento tipicamente da soap opera,
in cui la suspense si accumula man mano che nuovi pericoli minacciano i
personaggi e la riuscita dei loro piani, e intervengono a scompaginare
gli scenari noti (senza esclusione di colpi di scena, rivelazioni e
agnizioni, pronipoti di quelli del racconto d'appendice classico).
Lo sviluppo di linee narrative parallele attorno a una
molteplicità di figure e la loro costruzione alternata
producono un andamento costitutivamente digressivo,
che in buona misura scompagina il funzionamento della stagione come
unità discorsiva dotata di parziale autonomia (e questo vale
anche per la sesta, trasmessa in Italia tra maggio e luglio 2016). Non
si tratta qui solo del perenne rinvio di conclusioni, di marca
feuilletonesca e soap-operistica, né del costante
differimento di risoluzione narrativa indicato da Hills tra i caratteri
non sacrificabili di ogni narrazione che voglia aspirare ad avere un
seguito di fan fedeli (Hills, 2002). Queste spinte centrifughe nella
diegesi favoriscono e riflettono a loro modo anche una particolare
centralità dell'ambientazione (intesa in
senso ampio, non meramente fisico), sempre sull'orlo di prendere il
sopravvento creativo sugli accadimenti specifici e sul ruolo di singoli
eroi ed eroine. La profondità prospettica suggerita da un
mondo esplorabile ed abitabile al di là degli eventi portati
in scena dal singolo prodotto rimanda alla complessità
programmatica di un ecosistema narrativo potenzialmente espandibile
(dagli estensori, con nuovi prodotti dell'industria culturale,
così come dal riuso dei fruitori).
Questa importanza del mondo finzionale è scientemente
riassunta nella sigla di apertura: la camera scorre su una mappa
tridimensionale dei continenti di Westeros ed Essos, costruita come una
sfera di Dyson (in altre parole una mappa creata all'interno
della superficie di un globo) al cui centro, attorno ad una fonte
luminosa, ruotano degli anelli metallici, simili a quelli di una sfera
armillare. La camera si sofferma su alcuni feudi e città, i
volumi di edifici e monumenti si alzano dal suolo come macchine di
ispirazione leonardesca, contraddistinti dai vessilli delle casate
dominanti. Non un singolo personaggio appare, mentre la sequenza viene
modificata per riflettere via via l'andamento generale delle vicende,
incorporando nuovi luoghi e segnalando l'avvicendarsi delle famiglie
regnanti tramite le insegne delle casate innalzate sulle varie
roccaforti. Così, ad esempio, il lupo degli Stark sulla
cittadella di Winterfell viene sostituito dall'uomo scuoiato dei
Bolton, che ne conquistano il controllo all'inizio della quinta
stagione.
Elaborata dallo studio di produzione Elastic (Emmy 2004), la sequenza
dei titoli riflette d'altronde l'economia narrativa della serie ad
ulteriori livelli: la scelta di simulare nell'animazione solo materiali
esistenti nel mondo della serie (pergamena, legno, metallo), il
riferimento alle rappresentazioni cosmologiche di età
medievale e moderna, la stessa idea di un mondo in cui l'osservatore,
posto all'interno della sfera, non può scorgere oltre i
confini della mappa, una scelta che è andata incontro
egregiamente all'esigenza di rendere la profondità di uno
scenario fantasy e a quella di contenere i costi di realizzazione allo
stesso tempo (cfr. Wall, 2011).
La sigla insomma rende omaggio a diversi tra gli ingredienti che fanno
oggi la fortuna del genere fantasy a cavallo di media diversi: l'idea
di un mondo finzionale fantastico ma tratteggiato con ampiezza e
profondità diacronica, entro cui i fan possono situare
produzioni amatoriali ispirate alla serie, il crescendo di invenzione
che rende possibile l'esistenza di draghi, sortilegi e warg
(persone in grado di trasferire la propria mente in altri corpi), unita
all'ispirazione latamente storica che informa spesso gli avvenimenti di
Westeros ed Essos – dalla Guerra delle due rose al vallo di
Adriano, dal sistema feudale dell'Europa alto-medievale ai culti delle
civiltà assire e mesopotamiche, per menzionare solo alcuni
delle più evidenti.
Non basterebbe questo cocktail di elementi e il sapiente uso di una
serialità corale a spiegare il successo della serie, senza
l'impegno creativo e produttivo che va nella realizzazione del prodotto
e la presenza delle tematiche che profondamente ne attraversano lo
svolgimento.
Il clima oscuro e fascinoso di Westeros è reso con
incredibile dovizia di dettaglio. Un budget medio tra i sei e gli otto
milioni di dollari a puntata ha permesso un'eccezionale elaborazione
creativa, dalla scelta delle location, che spazia tra Islanda, Irlanda
e Croazia, al design degli interni, fino ai più minuti
dettagli dei costumi e delle armi, sotto la cura di artisti come
Michele Clapton (due Emmy alla sua supervisione dei costumi), Tommy
Dunne (già “mastro d'armi” per
produzioni come Braveheart, Saving
Private Ryan, The Mask of Zorro), set
designer come Gemma Jackson (Emmy per la stagione 2) e Deborah Riley
(subentrata a Jackson nella quarta stagione dopo aver lavorato in The
Matrix, Emmy per la quinta stagione). I linguaggi immaginari
Dothraki e Valyriano sono stati creati da David J. Peterson,
specialista classe 1981, ora all'opera sull'adattamento di The
Shannara Chronicles (su alcuni di questi casi e dettagli di
produzione e post-produzione ci sono paragrafi interessanti
nell'altrimenti piuttosto celebrativo Taylor, 2014). È
questa la ricca materia prima a cui può attingere un fandom
che sembra essere al momento tra i più estesi che si siano
conosciuti nell'era di Internet.
Prendono così corpo – tra accurata concretezza e sense
of wonder – le tematiche in capo alla narrazione,
onnipresenti nell'animo e nella mente dell'uomo – il potere,
la brama, il conflitto –, nonché gli aspetti che
fanno generosamente appello a parti che si trovano più in
basso nel nostro corpo: sesso e violenza. Il gioco dei troni
è evidentemente il gioco del predominio (cfr. Jacoby, 2012):
la serie mette in scena una vera e propria fenomenologia di come il
potere e il desiderio di esso possono corrompere un individuo. Attinge
a un ammiccante repertorio d'appendice l'insistenza sulla
rappresentazione dei ceti sociali, delle agghiaccianti sperequazioni
tra ricchi e poveri, tra caste privilegiate – nobili, clero
– e masse plebee di diseredati. La disparità tra
classi si traduce, in termini di vicende individuali, nella ricorrenza
del tema dei natali: la disgrazia del figlio
bastardo in cerca di legittimazione, la dignità del trueborn,
figlio (e soprattutto erede) legittimo di nobile padre, e da qui in
giù, tutto ciò che ne può conseguire
– il fidanzamento, il matrimonio, l'educazione di un figlio
come strumenti di alleanza tra casate, la scoperta di una
paternità come svolta narrativa. A questo proposito il
successo della serie – la sua capacità di parlare
a un ingente numero di spettatrici e spettatori oggi – ci
dice molto sull'attualità, sull'eterno ritorno, mutatis
mutandis, di dinamiche di differenziazione sociale ed
ereditarietà. Un'attualità ben compresa e
diversamente sfruttata in senso demenziale da Another Period
(Leggero e Lindhome, 2015-).
Ma è alla presenza di sesso e violenza che guardiamo per
scovare i cortocircuiti più interessanti che si sono
prodotti tra le scelte compiute dai creatori della serie e le dinamiche
della sua ricezione. Game of Thrones si
è presentata alla sua nascita come uno spettacolo dai
contenuti volutamente espliciti e adulti, sulla scia di altre
produzioni americane recenti che, in virtù della
distribuzione via cavo e via satellite, hanno potuto evadere i limiti
di censura tradizionalmente imposti ai programmi in chiaro. I tassi di
nudità femminile e di brutalità in Game
of Thrones si sono però spinti decisamente
più in là rispetto a quelli in altri prodotti
paragonabili (per network, per target, o per genere), dando luogo a
dibattiti ampi e molto accessi sia all'interno della base dei fan che
in sedi di informazione e analisi generaliste. Sono così
comparse aspre critiche all'asimmetria di genere nella presenza del
nudo e dello stupro, anche attraverso paragoni con i libri di partenza,
rivelatori di un certo maggior compiacimento della versione televisiva
nella rappresentazione della violenza sessuale contro le donne (cfr.
Saraiya, 2014). Il dibattito è approdato sulle pagine del New
York Times (cfr. Itzkoff, 2014) e ha coinvolto direttamente
George R. R. Martin, i creatori della serie, registi di singoli episodi
(ad esempio, Alex Graves, dir. 4:3), il presidente della programmazione
HBO (Michael Lombardo); la discussione ha fruttato persino l'entrata in
inglese di un neologismo – sexposition
(per sincrasi di sex ed exposition;
McNutt 2011).
Critiche specifiche sono state rivolte alla presenza del nudo
femminile, a cui è riservato l'uso di inquadrature full
frontal e una presenza sullo schermo decisamente maggiore
rispetto al nudo maschile (cfr. Bacon, 2015); alla reificazione del
corpo delle donne che si origina in virtù del punto di vista
di personaggi maschili adottato (mentre raramente avviene il
contrario); alla rappresentazione ricorrente e compiaciuta della
punizione corporale e della violenza sessuale ai danni delle donne (un
poco più rara e molto più raramente a sfondo
sessuale la brutalità fisica che colpisce i personaggi
maschili); alla scarsa esplorazione delle tracce psico-emotive di
questi traumi, di cui la serie sfrutta invece appieno la carica
più superficialmente disturbante e sensazionalistica. Talune
scene (il primo rapporto sessuale di Daenerys e Drogo in 1:2; il
“monologo con prostitute” di Littlefinger in 1:7,
lo stupro di Cersei da parte del fratello Jaime Lannister in 4:3;
l'omicidio di Shae da parte di Tyrion in 4:10) sono state analizzate
dettagliatamente nel tentativo di chiarificarne (o attaccarne o
difenderne) le implicazioni per i personaggi, il ruolo nell'economia
narrativa, le valutazioni e i giudizi morali suggeriti dall'adozione di
un dato punto di vista. Tutti aspetti, questi, in cui rappresentazione
del corpo e del potere rivelano connessioni indistricabili e tutt'altro
che sorprendenti – anche per l'epoca corrente dove vanno di
moda declinazioni smaterializzanti del post-umano
– e per cui si è parlato di sex politics
o fuck politics. Un'estetizzazione del sesso e
della sopraffazione fisica consonante con quella di altre produzioni
recenti di ambientazione medievale come The Borgias (Jordan
2011-) e The Tudors (Hirst 2007-2010).
Forse non meno interessanti si sono rivelate le letture dei personaggi
femminili principali che la serie costruisce – come la saga
libraria – tra uso di stereotipi e complessità
psicologica, nella loro autonomia di motivazione e gestione politica
(Cersei, Lady Olenna Tyrell), nei loro coraggiosi percorsi di
formazione ed emancipazione (Arya, Daenerys, Sansa), nella loro
rappresentazione di valori positivi (familiari: Catelyn; d'onore
cavalleresco: Brienne of Tarth) e di capacità e potenza
fisica e leadership militare (Daenerys, Brienne, Yara). La presenza e
il significato delle donne nell'universo transmediale di Game
of Thrones restano nel complesso tra gli oggetti di
discussione di maggior fascino e minor uniformità di vedute
sia tra gli appassionati che tra i critici di provenienza accademica
(cfr. Gjelsvik, Schubart, 2016), come d'altronde la collocazione di
precedenti presenze femminili in casa HBO (cfr. McCabe, Akass 2008).
E certo non è un caso che siano soprattutto le attrici
lanciate dalle serie ad essere approdate, negli ultimi anni, a ruoli
primari o comprimari in altre produzioni per il piccolo e il grande
schermo: Sophie Turner (Sansa) in Another Me
(Coixet, 2013) e X-Men: Apocalypse (Singer, 2016);
Maisie Williams (Arya) in The Falling (Morley,
2014) e Doctor Who (nona stagione, Newman, Webber e
Wilson, 1963-); Emilia Clarke (Daenerys) in Terminator Genisys
(Taylor, 2015); o ancora Natalie Dormer (Margaery Tyrell) protagonista
in The Forest (Zada, 2016). Un elenco a cui non
aggiungiamo Gwendoline Christie (Brienne), sprecata nell'ultimo Star
Wars (Abrams, 2015), e a cui potremmo invece giustapporre i
casi di colleghe dalla carriera già consolidata sugli
schermi, come Lena Headey (Cersei), o sui palcoscenici teatrali, come
Michelle Fairley (Catelyn) e Kate Dickie (Lysa Arryn), quest'ultima da
non perdere nell'eccezionale The Witch (Eggers,
2015), distribuito da poco in Italia.
Ma torniamo alle donne in Game of Thrones per
chiederci: quali logiche hanno informato i dibattiti sulla loro
rappresentazione? A cosa sono approdati questi dibattiti? Sono serviti
a qualcosa? Di primo acchito non si può non rilevare che
alcuni aspetti delle polemiche tratteggiate sopra dipendano da un
presupposto raramente esplicitato: una ricorrente valutazione della
serie secondo criteri morali, o set valoriali, che tende a metterne in
secondo piano la dimensione di intrattenimento e la natura di prodotto
commerciale. In questo senso, come già fece notare Henry
Jenkins a suo tempo per altri casi (cfr. Jenkins, 2006), la serie ha
offerto al suo fandom un terreno di scambio e condivisione il cui
interesse si può far prescindere, almeno in larga parte, dal
merito dei contenuti, per ricondurlo invece all'acquisizione dello show
come “materia prima grezza” di elaborazione critica
condivisa e negoziazione di un'identità collettiva. L'altra
faccia di ciò è l'ingenua obliterazione del ruolo
che sesso e violenza – non certo il più innovativo
dei binomi mediatici – hanno avuto e hanno nel costruire il
successo di pubblico: insufficiente attenzione è stata
dedicata a cercare di comprendere come mai questo
“titillamento” funzioni, a quali pulsioni
sado-masochistiche e voyeuristiche facciano appello questi aspetti in
ciascuna/o spettatrice/spettatore, pulsioni che riconoscere e indagare
sarebbe forse più utile a una comprensione della
società presente nella sua contraddittoria
complessità. Insomma: una qualche forma di tabù
sembra permanere nei confronti del corpo nudo, della
sessualità, della brutalità, se è vero
che si può legittimamente spendere molta attenzione per
criticarne la presenza, ma non per analizzarne il richiamo, che pure
sembra innegabile (si ricordino gli incredibili numeri sul pubblico
citati all'inizio di questi paragrafi). Un fatto che i produttori e i
creatori dello show sembrano invece aver compreso e sfruttato molto
bene.
L'attenzione dedicata alle tematiche legate al genere (nel senso di gender)
nella serie evidenziano d'altronde la perdurante centralità
del corpo femminile negli immaginari contemporanei, un corpo vero campo
di battaglia su cui si disputano contese di intramontabile rilevanza
culturale, simbolica e politica (per fare solo un esempio recente, si
pensi ai fiumi di inchiostro che, a seguito dell'attentato di Nizza nel
luglio 2016, sono stati spesi sul “burkini”, ossia
attorno al significato di coprire e scoprire il corpo femminile in
relazione a dati contesti culturali). Legando dimensione corporale e
potere, la serie è senz'altro riuscita a cogliere (e fare
furba leva su) un nodo della cultura statunitense ed europea.
Ma c'è di più: i dibattiti accesi dalla base dei
fan e proseguiti da commentatrici/ori e studiose/i, hanno rivendicato
una fruizione criticamente attiva e impegnata, e sono riusciti a
chiamare direttamente in causa i produttori e i responsabili creativi
della serie, costringendoli a difendere le proprie scelte. La
televisione riflette la società, ma la società
riflette sulla televisione, e ingaggia l'industria culturale in un
confronto circolare continuo.
LETTURE
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— ed. Gary R. Edgerton and Jeffrey P. Jones, Lexington, University Press of Kentucky, Usa, 2008.
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VISIONI
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— Neil Jorda, The Borgias, Bravo!-Showtime, Canada-Usa, 2011-.
— Natasha Leggero, Riki Lindhome, Another Period, Comedy Central, Usa, 2015-.
— Carol Morley, The Falling, BBC Films, Uk, 2014.
— Sydney Newman, C. E. Webber, Donald Wilson, Doctor Who, Bbc, Uk, 1963-.
— Bryan Singer, X-Men: Apocalypse, Marvel Entertainment, Usa, 2016.
— Alan Taylor, Terminator Genisys, Paramount Pictures, Usa, 2015.
— Jason Zada, The Forest, AI-Film-Lava Bear Films, Usa, 2016.