BUSSOLE | QDAT 63 | 2016

 


ASCOLTI / DIFFERENT TIMES, DIFFERENT PLACES - VOLUME TWO


di Harry Miller / Ogun, 2016


 

Il sole dell'Africa a Londra


di Lia Passadori

 

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Hazel Miller, fondatrice dell’etichetta discografica Ogun, ha ancora una volta messo mano al suo ampio archivio discografico e portato alla luce alcune perle del florido periodo musicale di cui è stata testimone: si tratta del jazz britannico che a partire dagli anni Sessanta ha portato una ventata di aria nuova nel panorama europeo. A questa corrente hanno contribuito significativamente i musicisti sudafricani emigrati in Inghilterra per lasciarsi alle spalle i soprusi dell’apartheid e cercare la libertà espressiva che gli era sempre stata negata. Il loro successivo incontro con i musicisti legati all’avanguardia e al free jazz inglese ha prodotto un unicum musicale denso di contaminazioni e proficue sperimentazioni. Un esempio brillante di questo percorso è proprio Harry Miller, marito di Hazel, che con il suo contrabbasso ha preso parte attivamente alla musica di quegli anni. Musicista curioso e versatile, considerato solido e rassicurante ma anche sempre pieno di inventiva dai suoi tanti colleghi, Harry Miller ha composto molti dei più bei brani di questa corrente, unendo la gioiosità sudafricana con l’irrequietezza del free jazz. 

Questa ultima pubblicazione Ogun, Different Times, Different Places Volume Two (2016), è il secondo volume dell’omonimo disco uscito nel 2013 ed è composto da una raccolta di brani inediti eseguiti da Miller in quintetto tra il 1977 e il 1982, poco prima della sua tragica scomparsa. Si apre con Orange Grove, un brano allegro che ci riporta alle radici di Harry Miller. Nato a Cape Town nel 1941 ma di origini ebraiche – i nonni erano lituani – Miller da ragazzo assorbe il kwela – la versione sudafricana del jazz afroamericano, contraddistinta da un’armonia semplice, una ritmicità accattivante e melodie allegre – e ascolta Duke Ellington, Louis Armstrong e Oscar Peterson dai dischi del padre. Egli inizia a suonare seriamente solo poco prima del suo esilio e approda nel 1961 in Inghilterra, dove inizia gli studi e la carriera musicale. In Orange Grove si trova la connessione con il suo passato musicale nella spensieratezza melodica tipicamente africana: il tema dei sassofonisti Trevor Watts e Alan Wakeman si interseca con il tema della chitarra, mentre il contrabbasso di Miller fornisce la forte propulsione ritmica che rende così energico il brano. Il chitarrista Bernie Holland sostiene la semplice armonia ciclica con inventiva e incisività, mentre Louis Moholo alla batteria completa questo canto vitale collettivo con linee ritmiche indipendenti. 

Louis Moholo è il batterista insostituibile delle numerose formazioni che emergono in quegli anni: musicista prorompente e legato alla poliritmia africana, Moholo rimane profondamente segnato dal contatto con il free. Arriva in Inghilterra con i Blue Notes, amici fraterni nella musica e nell’esilio, e partecipa insieme a loro e a Miller all’esperienza esaltante della Brotherhood of Breath, orchestra guidata dal pianista Chris McGregor e miglior esempio di commistione tra jazz d’avanguardia e ritmi africani. Insieme a Moholo, Dudu Pukwana, Mongezi Feza, Johnny Dyani e lo stesso Chris McGregor hanno portato a Londra “il sole dell’Africa” come ama raccontare Hazel Miller. Louis Moholo è tristemente l’unico superstite del gruppo originario degli esuli sudafricani, mancati tutti prematuramente (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 46), e oggi resta l’erede di questo repertorio che continua orgogliosamente a diffondere. 

Il secondo brano di Different Times, Different Places – Volume Two continua sulla stessa linea di Orange Grove con Miss Liz, un’altra composizione dall’atmosfera gioiosa e rilassata. Qui però emerge l’anima free del quintetto: progressivamente la forma si perde in un crescendo espressivo che culmina in un’intensa apertura all’improvvisazione libera. Si sente la presenza del pianista Keith Tippett, che con il suo approccio percussivo trascina il gruppo lontano dalla struttura verso un territorio free. La bravura dei musicisti sta infatti proprio nell’alternare momenti con forme definite a momenti aperti, senza cesure ma in un fluire continuo. 

The Magician porta invece su un terreno più intimo con una melodia che riprende la celebre composizione di Miller Lost Opportunities, che Louis Moholo spiega con queste parole: “Il Sudafrica viveva la condizione di altri paesi in peggio: eravamo tutti persi nella segregazione. E adesso osservateci come stiamo! Le Lost Opportunities sono tante: guarda al blocco dei paesi dell’Est, pensa alle opportunità perse dal popolo della Russia, guarda quello che accade in Tanzania, nel mondo intero. Opportunità perse per tanti grandi uomini politici, e molti sono morti: Steve Biko è stato ucciso, Martin Luther King, Malcom X, guarda il mondo che cosa gli ha fatto; tutti i morti di Hiroshima, gli indiani d’America a cui è stata negata la loro terra. Il brano di Harry Miller Lost Opportunities è una commemorazione di tutti questi fatti, scritta quando era in Olanda, lontano dalla sua famiglia. E così questo brano gli è scaturito dal cuore: è un brano fantastico e lo suono tutti i giorni” (Moholo, cit. in Onori, 2004). 

Ballad di sole sei misure, ciclica e tonale, con una melodia cantabile e struggente, Lost Opportunities è qui suonata con l’intensità che la contraddistingue. Miller non presta grande attenzione ai titoli dei suoi brani, così la stessa idea melodica riarrangiata qui diventa appunto The Magician. La versione migliore resta probabilmente quella eseguita dalla Dedication Orchestra dopo la morte dei musicisti sudafricani e pubblicata in Ixesha (1994), con testo di Julie Tippetts e arrangiamento di Keith Tippett, due fedeli compagni di viaggio di Harry Miller (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 34).

In occasione di questo concerto a loro si sono uniti i tanti musicisti che negli anni hanno collaborato con Miller e gli esuli sudafricani, dando vita ad un appassionato omaggio alle loro composizioni. Questo progetto ha ridato forza anche a Hazel Miller, che dopo l’improvvisa morte di Harry nel 1983 aveva interrotto il suo lavoro con la Ogun. Dopo una decina di anni di silenzio riprende così l’attività di questa piccola ma gloriosa etichetta discografica, meritevole di aver documentato un ricco e creativo percorso musicale. Oggi Hazel Miller, oltre alle ristampe del catalogo e alle pubblicazioni di materiale inedito, si dedica ad incidere i nuovi progetti di Louis Moholo e Keith Tippett e a investire in giovani talenti come il pianista Alexander Hawkins. 

Il disco prosegue con Door Key, composizione armonicamente statica e sospesa ma con un’andatura incalzante sempre grazie all’incisivo contrabbasso di Miller. Gli ultimi tre brani, incisi nel 1982, sono presenti in diverse versioni anche in Down South (1984), la sua ultima incisione registrata con musicisti olandesi come Han Bennink e Wolter Wierbos, e mettono nuovamente in luce la bravura compositiva di Harry Miller: “Io cerco solo di lasciare al pubblico un sentimento di gioia e felicità. Fondamentalmente è solo questo. Non sono qui per cercare di dare un messaggio. Se proprio deve esserci un messaggio è «siate persone felici, pace!». […] Sul serio, quando scrivo vorrei che tutte le mie composizioni fossero senza titolo, ma le persone insistono sui titoli per identificare e classificare. […] Per alcune persone è molto facile inserire grandi messaggi nella musica e predicare cose fantastiche, ed è così che la musica funziona per loro. Per quanto mi riguarda voglio solo che le persone sappiano che ci sono grandi piaceri nella vita anche senza essere edonistici. Che c’è pace e amore fraterno, che non devi essere uno stronzo e che puoi semplicemente divertirti” (Hazel Miller, in Batttiti, 2015). 

In questa semplice filosofia di vita si racchiude tutta la bellezza della musica di Harry Miller, gioiosa e vitale, fresca e diretta. Anche Mofolo, che chiude la raccolta, conferma l’energia e l’entusiasmo del contrabbassista. Un altro elemento ricorrente è il desiderio di condivisione: il tanto ricercato interplay jazzistico qui è più che mai evidente, rendendo questa musica uno spontaneo canto corale. L’ultimo disco Ogun riassume così le qualità musicali di Harry Miller: la cura melodica, nei brani festosi così come in quelli sofferti, la sua bravura nel porsi alla guida del quintetto come un non-leader lasciando la libertà al gruppo di scegliere la strada che preferisce, e la sua inesauribile vena creativa.

È interessante però, facendo un passo indietro, vedere la gioiosità espressiva di Harry Miller e degli altri sudafricani alla luce della loro storia: immaginiamo cosa possa aver significato sopportare per anni le leggi razziali che impedivano loro di suonare, che li rendevano a rischio di arresto immotivato, che addirittura mettevano in pericolo le loro vite. Spesso suonavano nascosti da una tenda per non mostrare il colore della loro pelle. Immaginiamo come sia stato arrivare a Londra, lasciare il sole africano per la pioggia inglese, e trovare ad attenderli un mondo così diverso, più libero ma sicuramente anche ostile. Nonostante queste premesse la loro musica ha conservato una vena di allegra spensieratezza che ha contagiato la scena musicale inglese. Viceversa il free jazz ha rappresentato per i sudafricani la conquista di una completa libertà espressiva da cui sono stati profondamente stimolati, assorbendo le sperimentazioni locali e dando ad esse il loro fondamentale apporto.

Harry Miller giunge per primo a Londra e all’inizio viene ingaggiato per suonare sulle navi che viaggiano verso gli Stati Uniti, cosa che gli permette di ascoltare alcuni giganti del jazz proprio nei jazz club newyorkesi. Terminata questa esperienza Miller entra in contatto con i musicisti locali tra cui Mike Westbrook, astro nascente del jazz britannico in quegli anni e oggi storico compositore e band leader, con cui inizia una collaborazione che dura un decennio figurando in molti dischi di Westbrook e prendendo parte alla sua Concert Band, emblema del free jazz britannico. Tra le fila di questa orchestra troviamo anche Paul Rutherford, Alan Skidmore, John Surman e Mike Osborne, i quali si incontrano con frequenza con Miller e in seguito con tutto il gruppo dei sudafricani esuli, per suonare al Peanuts Club nel quartiere di Hackney a Londra. Sono anni di grande fermento musicale nella capitale inglese, dove nasce anche lo Spontaneous Music Ensemble di John Stevens e Trevor Watts, uno dei primi esempi di collettivo di improvvisazione libera che ha portato avanti un ventennale percorso nel jazz sperimentale. Nel 1965 arrivano a Londra i Blue Notes e per Miller è come ritrovare dei vecchi amici nonostante non si fossero mai visti prima, perché con essi condivide il suo percorso musicale e umano. L’anno successivo Louis Moholo e Johnny Dyani partono per un tour in Sudamerica con Steve Lacy ed Enrico Rava, mentre Miller inizia a suonare con gli altri sudafricani sostituendo Dyani nella nascente Brotherhood of Breath. L’orchestra, fondata poi nel 1969 con l’iniziale idea di aggregare i tanti musicisti che passano dal club londinese di Ronnie Scott insieme ai sudafricani, ottiene subito largo consenso. Negli anni si susseguono nella Brotherhood of Breath musicisti eccezionali che ampliano le potenzialità del gruppo: Evan Parker, Elton Dean, Alan Skidmore, Radu Malfatti, Gary Windo, Lol Coxhill, Harry Beckett e molti altri. “Se i Blue Notes rappresentano nel tempo il sacrario musicale del jazz sudafricano, nella Brotherhood of Breath si assiste a un ampliamento strumentale del sestetto, all’apertura e alla proiezione verso l’esterno, all’acquisizione di musicisti e linguaggi nuovi. Il collettivismo egualitario del free si sposa con la musica sociale e rituale del Collettivismo Nero; si attinge ai poliritmi africani, agli inni protestanti ibridati, allo swing americano, alle musiche improvvisate europee e il risultato è stupefacente, anche a più di trent’anni di distanza” (Onori, 2004). 

All’inizio degli anni Settata Miller suona anche in solo, e il risultato è l’album Children at Play (1974), il suo primo lavoro pubblicato con la Ogun e uno dei primi dischi in contrabbasso solo, in cui lavora con fantasia utilizzando sovraincisioni, flauti ed effetti. Harry Miller non si considera mai un musicista accompagnatore, nemmeno nei grandi ensemble, e si vede piuttosto come un musicista solista libero di esprimersi senza vincoli in ogni contesto. È quindi forse in questa occasione che mostra la sua vena più creativa, così come nel duo con Radu Malfatti in Bracknell Breakdown (1978), o ancora nel trio di Mike Osborne insieme a Louis Moholo in All Night Long (1976). 

Gli altri suoi dischi memorabili sono quelli incisi insieme al sestetto Isipingo, formazione guidata da Miller che negli anni cambia alcuni musicisti ma non la sua forza espressiva. Del 1977 è il primo disco di Isipingo, Family Affair, in cui si percepisce la grande intesa tra Miller, Louis Moholo, Mike Osborne, Keith Tippett, Mark Charig e Malcolm Griffiths, guidati dalle idee compositive di Miller che egli mantiene aperte lasciando spazio agli interventi dei singoli musicisti. Sempre negli anni Settanta Miller si trasferisce ad Amsterdam, stufo delle difficoltà incontrate in Inghilterra, dove i musicisti sperimentali faticano ad emergere e dove gli interessi del music business sono sempre rivolti a facili e immediati profitti. Nei primi anni Ottanta trascorre anche sei mesi a Berlino grazie al “DAAD Artists-in-Berlin Program”, un progetto per ospitare artisti stranieri in Germania: questi viaggi gli consentono nuove collaborazioni ed una visione ancora più ampia del jazz europeo. Nel 1983 in Olanda trova la morte a causa di un tragico incidente stradale al ritorno da un concerto.

In tanti continuano ad omaggiare il percorso musicale dei sudafricani esiliati in Inghilterra: Rebel Flames (2015) ad opera dei musicisti pugliesi di Canto General, guidati da Pino Minafra e Roberto Ottaviano, è solo l’ultimo esempio. Queste musiche spensierate sono il veicolo di messaggi di speranza, sono il riscatto sociale di una popolazione oppressa e il richiamo alla condivisione della ritualità africana, e non hanno smesso di trasmettere la loro gioia solare. 

 


 

ASCOLTI

— Battiti, Radio 3, Speciale Ogun Records, con un’intervista a Hazel Miller di Pino Saulo, puntata del 26/07/2015,
—  http://www.battiti.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-7c7655dd-e9a8-48d8-8c79-f27d931a0a6d.html.
Blue Notes, The Ogun Collection (include: Legacy – Live in South Afrika 1964, Blue Notes for Mongezi,
— Blue Notes in Concert, Blue Notes for Johnny), Ogun, 2008.
Canto General feat. Louis Moholo – Moholo, Rebel Flames, Ogun, 2015.
Elton Dean’s Ninesense, Happy Daze + Oh! For The Edge, Ogun, 2009.
Elton Dean’s Ninesense, The 100 Club Concert 1979, Reel Recordings, 2012.
Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Live At Willisau, Ogun, 1994.
Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Travelling Somewhere, Cuneiform Records, 2001.
Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Bremen To Bridgwater, Cuneiform Records, 2004.
Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Fledg’ling, 2007.
Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Brotherhood, Fledg’ling, 2007.
Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Eclipse At Dawn, Cuneiform Records, 2008.
Harry Miller, The Collection (include: Family Affair, Children At Play, Bracknell Breakdown, In Conference, Down South), Ogun, 1999.
Harry Miller, Different Times, Different Places, Ogun, 2013.
Harry Miller’s Isipingo, Family Affair, Ogun, 1977.
Harry Miller’s Isipingo, Which Way Now, Cuneiform, 2006.
Harry Miller’s Isipingo, Full Steam Ahead, Reel Recordings, 2009.
Louis Moholo – Moholo, Bra Louis – Bra Tebs + Spirits Rejoice!, Ogun, 2004.
Mike Osborne Trio, All Night Long, Ogun, 1976.
The Dedication Orchestra, Spirits Rejoice, Ogun, 1992.
The Dedication Orchestra, Ixesha (Time), Ogun, 1994.
Keith Tippett, Julie Tippets, Louis Moholo – Moholo & Canto Generàl, Viva La Black Live At Ruvo, Ogun, 2007.
Keith Tippett’s Ark, Frames. Music For An Imaginary Film, Ogun, 1996.

 


 

LETTURE

— Luigi Onori, Il jazz e l'Africa. Radici miti suoni, Stampa Alternativa, Viterbo, 2004.