ORIENTAMENTI | QDAT 61 | 2016
 

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di Gennaro Fucile

Edward Hopper: Second Story Sunlight (1960) Olio su tela, 102,1x127,3 cm
© Whitney Museum of American Art, New York

 


 

A far da quinta, c’è un bosco dall’aria tranquilla, ma non troppo. La luce del sole vi penetra in parte, lasciando immacolate macchie di oscurità. Illuminate appieno, invece sono le due case dai tetti spioventi. Le facciate sono bianche, le pareti laterali blu come i tetti, ma di differente intensità. Al terzo e ultimo piano di ciascuna casa, c’è una finestra; al secondo piano, il centro della scena, altre due finestre e un terrazzo con due donne. La più vicina a chi osserva è vestita di blu, ha i capelli bianchi raccolti dietro la nuca e legge seduta su una sedia. L’altra giovane, formosa, in costume da bagno, ma più che un bikini sembra indossare pantaloncini e un top, ha i capelli biondi sciolti sulle spalle. È seduta sul parapetto. Osserva una zona del paesaggio che l’osservatore non può vedere.

“Non credo avesse un significato simbolico, se non molto vago, senz’altro non ossessivo. Ero più interessato alla luce del sole sugli edifici e sulle figure che non al simbolismo. Jo ha posato per entrambe, lei ha sempre posato per tutto”.

Chi parla è Edward Hopper, la persona a cui si rivolge è la storica dell’arte Katharine Kuh, la modella in questione è Josephine, la moglie di Hopper, e il lavoro a olio su tela descritto è Second Story Sunlight, realizzata nel 1960, sette anni prima della morte. Un’opera di abbacinante bellezza. Nonostante l’avvertenza dell’autore, però è difficile non chiedersi anche di fronte a quest’opera come alle altre realizzate da Hopper: che cosa aspettano i suoi personaggi solitari? Che cosa osservano in realtà, dove si dirige il loro sguardo che evita sempre di fissare l’occhio dell’osservatore? Sono figure in posa che non guardano in macchina, che attendono pazienti come nessun altro l’arrivo di Godot, che osservano la vita che in quell’istante sembra averli abbandonati, per spostarsi più in là. Oppure sono lì senza nessun motivo, esistono, nient’altro, oscuri, invisibili, finché la luce non li porta in primo piano. Quello che di sicuro non si aspettano è di essere sostituiti, soppiantati, messi fuori scena, grossolanamente sostituiti da uno stuolo di osservatori ammalati di protagonismo. Succede proprio all’enigmatica signora in blu ritratta in Second Story Sunlight, esposta con altre cinquantasette opere, dai disegni con studi preparatori ai lavori su tela, tutte provenienti dal Whitney Museum di New York ed esposte  nella preziosa cornice di palazzo Fava a Bologna, storico edificio che ospita il ciclo di Giasone, realizzato dai Carracci nel 1584. Una mostra inaugurata lo scorso 25 marzo e che resterà aperta fino al 24 luglio 2016. Una mostra il cui percorso parte dal periodo accademico di Hopper e si conclude con uno dei lavori della maturità, Second Story Sunlight, appunto. Quasi si conclude, se non fosse che in un’ultima sala, in appendice all’itinerario, in una sua escrescenza potremmo dire, ecco di nuovo, duplicato, Second Story Sunlight. Accediamo qui a un piccolo set. Grazie a un proiettore è possibile stando su una sedia posta in un angolo della sala, vedersi seduti sul balcone al sole al posto della signora che legge. Meglio ancora, se ci si può avvalere di un complice, ci si può far fotografare, immortalati per sempre nello spazio metafisico di Hopper. Ecco un passaggio di stato: non sono più i personaggi della fiction a passare il Rubicone ed entrare nella cosiddetta realtà, come il Tom Baxter di Woody Allen (nel film La rosa purpurea del Cairo) e l’Icaro di Raymond Queneau (nel romanzo Icaro involato). Accade il contrario e forse non è un caso che il precedente sia opera di un bambino, il dodicenne Danny Madigan di Last Action Hero alla ricerca del suo eroe Jack Slater, un ironico Arnold Schwarzenegger. Anche a Bologna si rende possibile un giochino innocente e un po’ infantile, un modo di rendere l‘arte alla portata di tutti, accessibile a grandi e piccini, arte a misura umana, non solo per essere divulgata in una lingua comprensibile a tutti, ma perché messa in condizione di interagire con il suo pubblico, di intrattenerlo, divertirlo.

Un giochino erede di quelle sagome da luna park dove si poteva inserire il proprio volto e farsi fotografare attrezzati con un corpo ideale da atleta o da maggiorata.

Un giochino ma anche un semplice souvenir che incorpora un pizzico di upgrade tecnologico, un selfie per procura, giusto per non perdere il vizio e per dargli una pennellata colta, una ennesima testimonianza della propria esistenza. 

L’elenco potrebbe continuare, ognuna di queste motivazioni non esclude l’altra, potrebbero darsi tutte come plausibili, essere addirittura valide solo nell’insieme. In realtà, tragicamente, non si spiegano, sono impermeabili a qualsiasi tentativo di decifrazione, perché non sono attribuibili a un soggetto individuale, ma ad azioni di massa, quell’agglomerato oscuro che tutto consuma, che assorbe qualsiasi cosa, senza mai far trasparire nulla dei processi che avvia, della sua masticazione, digestione, espulsione. Non è un processo addebitabile alle applicazioni ludiche e sempliciotte della tecnologia, come nel caso di questa mostra, che ne è una semplice, ennesima testimonianza; non si tratta di un fenomeno esploso nella primavera 2016. Quella che meglio sarebbe definire implosione del sociale, è già rintracciabile nella lucida e visionaria analisi portata avanti da Jean Baudrillard sul finire degli anni Settanta. È l’effetto Beaubourg, come intitolò un suo ficcante saggio del 1977 (!), l’effetto della produzione a opera della massa. Già, la massa, “la sfera sempre più densa in cui implode tutto il sociale, e si distrugge in un processo di simulazione ininterrotto” (corsivo dello stesso Baudrillard). 

Il passaggio radicale non consiste tanto nella condizione di merce assunta da cultura e informazione (e per estensione la politica), alla stregua di qualsiasi altro prodotto, ma nelle modalità indifferenziate delle pratiche di consumo di massa. L’oggetto smarrito del marketing contemporaneo: la massa. Ci si affanna a parlare di nuovo consumatore maturo e consapevole, di soggetto unico, con propria personalità e gusti precisi da intercettare. Si ha un bell’interrogarsi su come mettere a punto un’offerta mirata, segmentata, fatta su misura per target sempre più apparentemente fotografati in alta definizione, ma poi tutto affonda inesorabilmente in un grande buco nero. In quello stesso saggio Baudrillard scriveva: “La gente ha voglia di prendere tutto, di azzannare tutto. Di abbuffarsi di tutto, di manipolare tutto. Vedere, decifrare, imparare non la emoziona”. Torna in mente una scena da un film di un altro visionario, Pier Paolo Pasolini, la discesa agli inferi tra i maiali che lo sbraneranno di Julian in Porcile.

Nel ventre della massa tutto trova spazio e intorno a esso danzano follemente le merci dall’alimentare all’abbigliamento, dalla salute e cosmesi ai gadget ludico-tecnologici, che fanno cultura (si pensi allo storytelling), le merci cultura e informazione che si fanno appetibili, che cercano di ingolosire, di sedurre, tutte considerate e snobbate al tempo stesso, ognuna in fondo interscambiabile con un’altra, un semolino dove ogni granello è indistinguibile dall’altro, perché è sempre la logica del codice binario ad agire, talmente naturale, come l’aria che respiriamo che quasi non val la pena tornare a parlarne.

Ecco, dunque implacabile la massa rivendicare in qualsiasi frangente il suo ruolo, il suo corpo oscuro assorbe energia vitale per riprodursi, per farlo agisce in qualsiasi contesto con la medesima rigorosa assenza di logica e per assecondarla, per ingraziarsela si è disposti a confezionare qualsiasi spettacolo, allestimenti complessi, come due dozzine di telecamere per una partita di calcio o una per scivolare in Second Story Sunlight.

Non tutti i mali, però, vengono per nuocere. Grazie a un semplice gioco di scambio delle parti, perché altro non è il trucchetto messo in scena a Palazzo Fava, iniziamo a intuire finalmente che cosa osservano i personaggi hopperiani.

Che spettacolo...

 

 

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