BUSSOLE | QDAT 61 | 2016
LETTURE / REBELLION. DAI PUNK AGLI ARTISTI DI STRADA
di Rita Caccamo / Editrice Nuova Cultura, Roma, 2016 / pp. 120, € 12,00
Leeds '79: This Is (Young) England
di Luca Benvenga
È dagli anni Sessanta che la letteratura sociologica inglese inizia a riflettere sulla condotta aggregativa delle nuove fasce di giovani operai che iniziano a organizzare razionalmente il loro tempo libero. La società offre una incessante sensazione di mutamento, declinata nella diffusione di nuovi stili di vita, nell’indipendenza economica, nella crescente importanza del gruppo di pari e nella creazione di un mercato esclusivo per i giovani sempre meno affezionati ai modelli adulti prevalenti, allargando l’interesse delle scienze sociali sulla codificazione degli universi culturali delle classi subordinate e dei gruppi sociali subalterni, i quali si apprestano a esprimere vivacemente (in maniera conscia o inconscia) delle forme di resistenza ritualistica/affrancatoria, in contrasto con l’egemonia gramsciana della cultura dominante, reagendo con passività o con dinamismo alle relazioni di potere che invadono l’esistenza privata e attraversano lo spazio pubblico. Nello studio proposto dai classici del pensiero sottoculturalista occidentale, ovvero il CCCS di Birmingham (cfr. Hall, Jefferson) si è cercato di definire un aggregato giovanile la cui azione non appare orientata politicamente, né esplicitamente né implicitamente, perlomeno fino alla metà degli anni Settanta, anzi trova la sua legittimazione in una logica funnies – musica, abbigliamento, ballo, pub – (cfr. Marchi, 1998), tanto per capire ben distante dall’indirizzo di studio proposto in quegli stessi anni dal sociologo italiano Alberto Melucci o dalla sociologia radicale (cfr. Melucci, 1976; Rowntree, 1968; Goodman, 1971), e la cui fierezza estetico/simbolica incontra nell’auto-rappresentazione sociale la sua specificità di classe quale residuale gratificazione.
Il lavoro di Rita Caccamo parte da una “osservazione diretta”, in sostanza anche “partecipativa” (buona parte del lavoro è il risultato di una ricerca dalla stessa condotta negli anni Settanta nella città inglese di Leeds, ospite del Dipartimento di Sociologia allora diretto da Zygmunt Bauman) su una di quelle culture giovanili di cui sopra accennato, maturata dapprima nel quartiere londinese di Chelsea e dopo giunta nel Middle-England, forse la più conflittuale e difficile da decodificare unilateralmente per una serie di ragioni empiriche (il punk richiama i tradizionali approcci ludico-creativi della gioventù operaia, o si regge su forme di conflitto dichiaratamente politiche e ideologiche?).
Lo studio segue in parte una traiettoria post-sottoculturalista, più in linea con l’attuale teoria sociale postmoderna che articola la riflessione partendo da un assunto di base, quasi un assioma, quello della frammentazione identitaria e della fluidità delle relazioni sociali, una posizione che si dimostra lontana dall’orientare la riflessione sulla determinazione della struttura sociale e la perseveranza delle disuguaglianze, come fatto dagli stessi scienziati sociali di Birmingham o dall’attuale corrente neoclassica (cfr. Magaudda, 2009), inducendo alla ridefinizione dei modelli euristici e alla necessità di cercare una direzione teorica che tenga presente come la riflessione dei fenomeni che tipicizzano l’evolversi della complessità socio-culturale debba necessariamente tener presente l’esistenza di un insieme di variabili che interagiscono sul fenomeno stesso (la relazione dei soggetti con la classe, il ruolo delle stesse, le condizioni sociali ed economiche e così via).
Entrando più a fondo, nello studio della conflittualità giovanile dal dopoguerra ai giorni nostri emerge un fenomeno culturale, il punk per l’appunto, il cui peso storico ha spostato gli equilibri analitici. Esso ha portato al collasso la riflessione sociologica della scuola di Birmingham e la loro ortodossa separazione tra subcultura workin’class e controcultura middle-class (cfr. Marchi, 1998); indotto i post-sottoculturalisti a rivedere le culture giovanili attraverso la lente monocolare dell’edonismo o del sottoculturalismo astensionista (assunti di base di natura teorica, soprattutto il primo, precipui per l’approfondimento delle culture musicali del clubbing o del rave party di fine millennio e inizio secolo, o degli stessi artisti di strada riproposti dall’autrice nella prima parte del volume, i quali sembrano richiamare l’azione diretta degli happeners americani dei primi anni Sessanta, i quali con mezzi originali negarono la commercializzazione delle performance artistiche e annullarono la separazione tra attori e pubblico, ribadendo come il teatro dovesse essere fatto in strada (cfr. Hollstein, 1974), invitando, perciò, a un modello euristico tipi Giano del fenomeno: il punk come movimento estetico-musicale frutto della compresenza di elementi sottoculturali in un quadro d’insieme controculturale, normato socialmente da una dimensione politico-ideologica, dall’assolutismo esistenziale, dal forte senso del gruppo e del territorio (la Caccamo ha annotato la presenza agli angoli delle strade di Leeds di giovani punk, come a testimoniare il redivivo approccio del gruppo di giovani maschi della classe operaia alla prevalenza della sfera pubblica, questo sin dai tempi dei giovani vittoriani aggregati in bande di fine Ottocento).
“Mobilità ascensionale” del giovane mod, “riformismo operaio” dello skinhead, auto-lacerazione, minimalismo e culto di strada del punk cfr. (Hebdige, 2000), sono indicatori di quella “idealizzazione dell’incompiutezza giovanile” (cfr. George Lapassade, 1971) che aumenta la sensibilità delle giovani generazioni al mutamento sociale, e la cui “unità generazionale” (Menheim, 2008) è il prodotto non solo di una differenziazione biologica nel corso della vita, bensì di una collettiva condivisione di esperienze, emozioni, sensazioni, prospettive, che trovano avallo nello street corner, nei quartieri proletari, nella rielaborazione critica e riflessiva dei codici morali ed estetici dominanti.
Il punk della Caccamo, tornando alla sua natura ambivalente, rimanda a un’azione collettiva di tipo “aggregato”, ossia si limita a una reciproca imitazione degli attori sociali e adesione ad uno stile (sia esso nell’abbigliamento, nella musica, nelle intuizioni sul mondo), ma anche ad un comportamento collettivo di “gruppo”, al cui interno matura una nuova consapevolezza identitaria, una solidarietà interna e una ridefinizione dei codici di valore (cfr. Tabboni, 1986), ma ciò che lo differenzia dai beatnik americani, dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac degli anni Cinquanta, o degli stessi hippies, delle loro comunità agricole, è l’accentuata corrispondenza tra componente generazionale e classe sociale subalterna, come lo era stato per il ted boy o lo skinhead e gli stessi mod inglesi: il punk ha origini operaie, lumpen, il suo look è modellato sugli strali del giudizio di valore negativo attraverso cui era solito essere etichettato dell’osservatore, adoperando in tal maniera quello che nella disciplina sociologica lo si definisce come il “rovescio dello stigma”, avallando e rifiutando cioè le etichette loro attribuite attraverso un processo di causazione circolare (cfr. Autori Vari, 1986). Per queste ragioni, il punk descrittoci (inglese nel caso specifico, ma non solo) è un inno alla decadenza materiale, il riflesso della condizione sociale della propria classe, che vive alla ricerca di un autocollocazione in un modello di società in transizione e trova nell’estetizzazione della propria subordinazione la sua gratificazione relativa, e nel nihilismo l’aggettivazione della propria esistenza discensionale, No Future.
Lo studio della resistenza culturale come intesa da Richard Hoggart e colleghi di Birmingham, l’opposizione ad un universo ambientale maggioritario cui faceva riferimento anche George Lapassade, è stato storicamente l’elemento tangibile e comune tra tutte le forme aggregative giovanili (non solo operaie). Il punk che ha intercettato i malumori di una generazione precedente ed ha riproposto l’aggressività estetica del rocker con un orientamento rough dello skinhead dell’East-End londinese, il radicalismo dei motherfucker newyorkesi con il “rumorismo” futurista e la non-estetica dadaista, e su questa base ha costruito le premesse di una condizione socio-cognitiva della gioventù metropolitana attraverso atipiche (dati i tempi) forme di lotta, l’occupazione ludica di edifici pubblici o privati abbandonati (le Zone Temporaneamente Autonome individuate da Hakim Bey), il tutto in una società dominata dall’inconsistenza delle relazioni interpersonali e dalla disaggregazione, a corroboramento dell’equazione che lo vuole come una sottocultura-controculturale, s’è vero che ha palesato agli occhi di chi la osserva il superamento delle consuete classi d’età e la separazione tra lavoro, tempo libero, impiego e scuola, oltre a una esaltazione simbolica e fisica del conflitto. Per concludere, seppur davanti a delle constatazioni inequivoche, questo fenomeno giovanile appare passibile di molteplici interpretazioni a seconda dalla lente d’osservazione e del modello teorico di cui ci si serve per analizzarlo, come mostrato costantemente dall’autrice.
LETTURE
— Autori Vari, Bande. Un modo di dire, Milano, Unicopli, 1986.
— Hakim Bey, Taz. Zone temporaneamente autonome, Milano, Shake, 2007.
— Stuart Hall, Tony Jefferson, Resistance through rituals. Youth Subcultures in post-war Britain, Birmingham University,
— The Center for Contemporary Cultural Studies, 1975.
— Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Genova, Costa&Nolan, 2000.
— Walter Hollstein, Underground. Sociologia della contestazione giovanile, Firenze, Sansoni, 1974.
— Georges Lapassade, Il mito dell’adulto, Bologna, Guaraldi, 1971.
— Georges Lapassade, Islam dei giovani e “resistenza culturale”, in Massimo Canevacci, Roberto De Angelis, Francesca Mazzi,
— Culture del conflitto, Genova, Costa&Nolan, 1996.
— Paolo Magaudda, Ridiscutere le sottoculture. Resistenza simbolica, postmodernismo e disuguaglianze sociali, in Rivista di Studi Culturali,
— Bologna, Il Mulino, anno VI n 2, 2009.
— Karl Mannheim, Le generazioni, Il Mulino, Bologna, 2008.
— Valerio Marchi, Teppa, Castelvecchi, Roma, 1998.
— Alberto Melucci, Movimenti di rivolta, Torino, Etas Libri, 1976.