VISIONI / EL ABRAZO DE LA SERPIENTE


di Ciro Guerra / Ciudad Lunar Producciones (distr. it. Movies Inspired) – Bergamo Film Meeting 2016


 

Il fiume dei destini incrociati


di Gennaro Fucile

 

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La scoperta e la conquista dell’Altro. Ecco per sommi capi l’approccio europeo ai popoli del continente americano. Storia di distruzione e al tempo stesso di creazione di un nuovo spazio immaginario; nella visione europea dell’ignoto, i fantasmi sbarcati dall’altra parte dell’oceano, insieme ad armi, cavalli e crocifissi, cercarono, insieme a oro e pietre preziose, uno spazio dove materializzare radicalmente la diversità. Quel luogo per eccellenza, gigantesco, pullulante di vita e di pericolo fu la selva amazzonica. Terra tuttora ferita, sanguinante e offesa, dove si impiantò addirittura un complesso industriale, Fordlandia, oggi ormai rovina/simbolo, ma anche temuta per la sua irriducibile alterità che continua ad agitare nel profondo l’homo technologicus anche nel XXI secolo. A questa immensa riserva d’immaginario, attinge El abrazo de la serpiente, terzo lavoro del cineasta colombiano Ciro Guerra, un viaggio nel tratto colombiano della grande foresta articolato lungo due piani temporali e mille percorsi possibili, intrecciati e saldati assieme da un bianco e nero rigoglioso, esuberante, che lascia senza fiato, aumentando lo scarto, la differenza tra Natura e Civiltà, rimarcando l’alienità di quel pianeta nel pianeta quale è la lussureggiante foresta che il Rio delle Amazzoni attraversa serpeggiando nel suo ventre. La pellicola di Guerra è prima di tutto questo: emanare di nuovo quello smarrimento e quella fascinazione che Claude Lévi-Strauss condensò in modo efficace, scrivendo: “Vista dal di fuori, la foresta amazzonica sembra un ammasso di ribollimenti solidificati, un cumulo verticale di rigonfiamenti verdi; si direbbe che un disordine patologico abbia ovunque afflitto il paesaggio fluviale. Ma quando si rompe l’involucro e si penetra al di dentro, tutto cambia; vista dall’interno questa massa confusa diventa un universo monumentale. La foresta cessa d’essere un disordine terrestre; si potrebbe considerarla un nuovo mondo planetario, ricco come il nostro e che dovesse sostituirlo” (Lévi-Strauss, 2008). 

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2015 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, vincendo il premio Art Cinéma, passato anche da Rotterdam e Berlino, il lungometraggio in seguito ha ottenuto la Nomination come Miglior film in lingua straniera per gli Oscar 2016 ed è giunto in Italia grazie al Bergamo Film Meeting 2016 (5-13 marzo), dove è stato proiettato nell’ambito della sezione Anteprime e Eventi Speciali. 

Giunto alla trentaquattresima edizione, Bergamo Film Meeting ha offerto analogamente alle edizioni precedenti un programma di tutto rispetto, così come in continuità con il passato si è subito posto il nuovo presidente del festival, Davide Ferrario, precisando che “Un festival del genere non ha bisogno di miglioramenti programmatici (anche se migliorare si può – e si deve – sempre); ha bisogno di essere difeso, coltivato, aiutato a crescere ancora”. Tant’è che oscillando come un pendolo tra ieri e oggi, la rassegna bergamasca ha così offerto da un lato omaggi e retrospettive, inclusi restauri di classici, e dall’altro ha selezionato nuovi autori presentati nella Mostra concorso e nelle sezioni dedicate ai documentari, all’animazione e alle anteprime, tra cui il lungometraggio di Guerra. 

La grande retrospettiva 2016 è stata dedicata al regista ungherese Miklós Jancsó, realizzata in collaborazione con MaNDA – Magyar Nemzeti Digitális Archívum és Filmintézet, in occasione del restauro digitale di molte opere del regista. Ben diciassette opere tra corti e lungometraggi e nove documentari per un ritratto davvero a tutto tondo, tra lavori più noti e fondamentali come L’armata a cavallo (1967), Salmo Rosso (1972), Allegro barbaro (1978), Il cuore del tiranno ovvero Boccaccio all’ungherese (1981) e il più noto Vizi privati, pubbliche virtù (1976). Un’occasione, però soprattutto per vedere le opere giovanili e del passaggio alla maturità come Il mio cammino del 1964, un film che “esce del tutto dal presente e dall’ambiente urbano, dando la possibilità a Jancsó di una stilizzazione sempre più astratta, anche se la situazione drammaturgica è ancora tradizionale” come scrive Angelo Signorelli, direttore artistico della rassegna, nel volume monografico allestito per l’occasione, con saggi originali e contributi oltre che dello stesso curatore, di Cecilia Ermini, Gábor Gelencsér, Judit Pintér, Lorenzo Rossi, Silvana Silvestri, Ferenć Varga, Paolo Vecchi, Gloria Zerbinati. Dall’Ungheria alla Francia, dove conduceva l’omaggio del festival, la cui scelta quest’anno è caduta su Anna Karina, mito, musa, icona, déesse della nouvelle vague come racconta la sua filmografia e anche la sua vita privata. Una selezione di dodici film con un formidabile poker godardiano (La donna è donna, 1961, Questa è la mia vita, 1962, Bande à part, 1964 e Il bandito delle 11, 1965), ma soprattutto opere di minor circolazione come la versione integrale e restaurata di Suzanne Simonin la religiosa di Jacques Rivette (1966), il debutto alla regia dell’attrice con Vivre ensemble (1973) e In fondo al buio di Tony Richardson (1969) tratto da un romanzo di Vladimir Nabokov, a sua volta latitante da  decenni nelle librerie italiane. Da ieri a oggi, si è detto, e la manifestazione ha fornito un’ampia panoramica sullo stato dell’arte in Europa. Lo ha fatto grazie alla sezione “Visti da vicino”, con 15 film documentari (corti, medi e lunghi), che quest’anno per la prima volta vedeva anche l’istituzione del “Premio Miglior Documentario Cgil Bergamo – Sezione Visti da Vicino”. Ad aggiudicarselo è stato il delicato Wir können nicht den hellen Himmel träumen di Carmen Tartarotti, storia delle uniche due suore rimaste in un convento che un tempo ne ospitava venti e della loro determinazione a continuare. Chi fa per se fa per dieci, insomma.

La sezione “Europe Now!” ha proposto un trittico di autori di valore, ognuno rappresentato da un nutrito numero di opere: la bosniaca Jasmila Žbanić, autrice tra gli altri di Grbavica (Il segreto di Esma, 2006), Orso d’oro al festival di Berlino e del più recente documentario One Day in Sarajevo (2015), il ceco Petr Zelenka, già vincitore del primo premio di Bergamo Film Meeting 1998 con Knoflíkári (Buttoners), autore dello straordinario I fratelli Karamazov (2008); è stata l’occasione per presentare l’ultimo lavoro del regista, Lost in Munich (2015) esilarante effetto cinema alla praghese. Terzo autore della rassegna, il britannico Shane Meadows, cui si deve il cult This Is England (2006), poi diventato anche una serie tivù conclusasi con This is England ’90 (2015). Doviziosa anche in questo caso la retrospettiva con diversi inediti. Ancora Europa (o quasi, vista la presenza di una produzione turco-tedesca) con la “Mostra Concorso” che ha visto contendersi la vittoria sette lungometraggi. A spuntarla è stato Enklava del serbo Goran Radovanović, con il racconto di due bambini, uno serbo l’altro kosovaro e del loro scontro/incontro. Spostandoci più a nord-est, si sono ammirati i corti d’animazione (otto filmati) del lettone Vladimir Leschiov, tenace avversario della computer animation. Questo e molto altro è stata l’edizione 2016 di Bergamo Film Meeting (per saperne di più  HYPERLINK "http://www.bergamofilmmeeting.it/"http://www.bergamofilmmeeting.it/), tra cui incontri con gli autori, compreso quello con Anna Karina, per un paio di giorni ospite al festival, presentazioni di libri, una mostra con i disegni originali di Leschov, la sonorizzazione del meraviglioso film d’animazione Le avventure del Principe Achmed di Lotte Reiniger, opera del 1926 tratta da un racconto de Le mille e una notte, a opera del sassofonista Gianni Mimmo con cui si è effettuato il consueto passaggio di consegne tra il Bergamo Film Meeting e il festival Bergamo Jazz e infine la “Fantamaratona” con un’accoppiata formidabile di creature terrestri ma aliene: The Deadly Mantis, ovvero La mantide omicida, film del 1957 di Nathan Juran e lo stracult Gli uccelli (1963) di Alfred Hitchcock. 

Infine, la sezione “Anteprime e Eventi Speciali” che ha ospitato il lungometraggio di Guerra, costruito a partire da due storie reali, distanziate da trent’anni circa e basate sui diari di viaggio dei due esploratori che ne furono protagonisti: l’etnologo tedesco Theodor Koch-Grünberg e lo statunitense Richard Evans Schultes, considerato il padre della moderna etno-botanica. A fare da raccordo tra i due è una quest comune, la ricerca di una pianta medicinale sacra, la yakruna, mentre a fare da Virgilio per avventurarsi in una selva davvero oscura è Karamakate, sciamano amazzonico, l’ultimo uomo della sua gente, ritiratosi in un volontario isolamento, uomo svuotato, un chullachaqui, sembiante d’uomo, involucro senz’anima, privo di ricordi ed emozioni. Neanche le rocce gli parlano più, segno inequivocabile della sconfitta. L’incontro con l’etnobotanico Evans sarà la svolta; con lui inizierà un viaggio anche nei suoi ricordi, quelli di un analogo attraversamento della foresta in compagnia dell’etnologo tedesco ai tempi della sua gioventù. I due viaggi per terra e per acqua diventano uno, i sogni e i ricordi si fondono, si intrecciano con storie di terribile realtà, lo sfruttamento delle materie prime (il caucciù), l’espropriazione delle identità (la comunità cristiana del villaggio lungo il fiume), la violenza che da sempre l’accompagna, ed è magistrale la scena terrificante della fustigazione del piccolo indio da parte del sacerdote a capo di una piccola missione cattolica composta unicamente da bambini (nel ritorno di Karamakate con l’amico americano si sarà trasformata in una setta) e di visioni ancestrali, di voli della mente grazie alle virtù magiche delle piante, dove si svela il sapere dello sciamano. Viaggi della mente, iniziatici, trapelanti già nelle parole autentiche di Koch-Grünberg, che nel suo diario annotò nel 1907: “Non mi è dato sapere in questo momento, caro lettore, se già la sterminata foresta abbia iniziato anche in me quel processo che già in tanti altri, tra coloro che si sono avventurati fin qui, ha condotto alla completa e irrevocabile pazzia. Se questo è il caso, non mi resta altro che scusarmi e invocare la tua comprensione, giacché la varietà di cose a cui ho assistito durante queste ore fantastiche è stata tale che mi sembra impossibile descriverla con parole che facciano capire agli altri tanta bellezza e splendore; so soltanto che, come tutti coloro che hanno visto squarciarsi il pesante velo che li accecava, quando ritornai in me, ero diventato un altro uomo”. Accadrà anche al suo collega statunitense che nella finzione cinematografica vivrà un sogno lungo un giorno, unico squarcio a colori, sufficiente a indicare il trip psichedelico intrapreso, nonché suggestiva citazione subliminale al viaggio finale del kubrickiano 2011, Odissea nello spazio.

Se i due attori che interpretano i viaggiatori bianchi svolgono più che adeguatamente la propria parte, il belga Jan Bijvoet (nella parte dell’esploratore tedesco) e il texano Brionne Davis (lo statunitense), la vera sorpresa è costituita dagli straordinari attori indigeni del cast principale: Nibio Torres e Ta’fuiyama (Antonio Bolivar) che interpretano rispettivamente Karamakate giovane e anziano e Yauenkü Migue (Miguel Dioniso Ramos), che nella finzione è Manduca, guida e accompagnatore dello studioso tedesco. L’intento di mostrare, per quanto possibile, l’autenticità del mondo fluviale amazzonico è rafforzato anche dalle comparse del film, rappresentanti delle varie tribù della porzione di foresta coinvolta. Un racconto fluviale, lussureggiante, anche sul piano linguistico, si direbbe finneganniano, perché si avvicendano spagnolo, portoghese, tedesco, latino, catalano, cubeo, wanano, tikuna e huitoto. 

Tra le due vicende, quelle reali e quelle delle finzione cinematografica ci sono non poche storie affluenti nel grande fiume, altre sortite nel cuore della foresta, altri tentativi di scoprirla, di possederla e/o di farne parte. Inevitabile citare i due lavori di Werner Herzog, Aguirre, furore di Dio (1972) e Fitzcarraldo (1982), opere distanti da Guerra perché privilegiano il punto di vista dell’uomo bianco e delle sue sfide. Qualcosa a metà tra omaggio e citazione a quest’ultima pellicola si ritrova in una scena dove l’esploratore tedesco fa risuonare Georg Friedrich Händel nella foresta azionando il grande grammofono che porta con sé. Ancor più lontani sono i cannibal movie come Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato o il più recente The Green Inferno di Eli Roth, dove la violenza sopra le righe è causa prima di tutto di smarrimento del senso. Quei viaggi nell’ignoto, nell’alterità sono anche stati un territorio battuto a più riprese dalla letteratura latinoamericana. Percorsi labirintici o lineari, mitici o realistici che conducono spesso a incontrare in questo spazio differente l’altro per eccellenza: la donna. 

Succede in Terra Nostra (1975) del messicano Carlos Fuentes dove il protagonista sente “ di penetrare nel folto della foresta vegetale” come “nella carne di una donna”, ma pure la donna civilizzata si ritrova ad avvertire una distanza, come nel romanzo del cubano Alejo Carpentier, I passi perduti (1953) e in La voragine (1924) del colombiano José Eustasio Rivera. Una foresta desacralizzata, sottoposta alle leggi di mercato, dove è un po’ più agevole entrare ma anche uscirne, si ritrova invece nelle storie del peruviano Mario Vargas Llosa, da La casa verde (1965) a Pantaleón e le visitatrici (1973), così come in Figlio d’uomo (1960) del paraguayano Augusto Roa Bastos, in un girotondo tra registri grotteschi, epici e drammatici. Talvolta è l’incontro tra la donna bianca e l’indio l’unico contatto del terzo tipo possibile nella foresta, come raccontano Quarup (1967) e Maíra (1976) dei brasiliani Antônio Callado e Darcy Ribeiro.

Dove però questo fiume di storie si congiunge con quella narrata da Guerra è nello straordinario Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi del peruviano César Calvo. Libro magico, resoconto di iniziazioni, documento autentico di culture perdute e di visioni procurate dalla ayawashka, bevanda sacra, potente allucinogeno usato nei rituali dei maghi amazzonici, l’analogo della yakruna ricercata dagli esploratori di Guerra. Il libro di Calvo ci conduce nel tratto peruviano della selva, nel film di Guerra in quello colombiano, ma gli affetti allucinogeni sono gli stessi, l’animismo, il senso del magico è identico, e anche la coscienza della perdita di un mondo, o meglio di un certo modo di sentire il mondo. Anche qui si svolgono incontri, non filmati, ma registrati su diciassette bobine, tra Calvo e Ino Moxo, capo e mago di un popolo amazzonico, gli amawaka. C’è un comune sentire nelle due storie. “Storie vissute, storie future. Perché tutto ciò che ascolteremo risuona con anticipo in mezzo alla notte. La memoria è qualcosa di più, è molto di più; lo sai? La memoria veritiera ricorda anche le cose che stanno per accadere. E persino quelle che non accadranno mai, anche questo ricorda. Pensa. Pensa un po’. Chi mai potrà riuscire a sentire tutto?, me lo sai dire? Chi potrà riuscire a sentire tutto nello stesso momento e crederci… ?” (Calvo, 1982). Coscienza dilatata, come quella a cui cercano di giungere i due occidentali in El abrazo de la serpiente

I lavori di Calvo e Guerra sono alla massima distanza dall’intrattenimento di taglio exotico e dalla violenza dei conquistadores, le due facce della stessa medaglia occidentale. Sono opere di finzione che si collocano alla minor distanza possibile dal reale e lontano dalle logiche civilizzatrici. Qualcosa di analogo a quanto praticato dal musicista, musicologo e scrittore David Toop che nel 1978 catturò i suoni di un altro angolo dell’Amazzonia, quello venezuelano, registrando i canti rituali delle cerimonie degli Yanomami e anche i suoni stessi della foresta, tutto documentato su Lost Shadows: In Defense of the Soul. Un mondo oscuro, fatto di melodie cantilenanti, un impasto di grida, risa, starnuti, sbadigli, toni lacrimosi e ringhianti, dove l’unico strumento è lo stesso corpo umano, mentre a far da contrappunto sono suoni d’animali. L’alterità è però reciproca e Guerra non lo dimentica. In El abrazo de la serpiente c’è una scena in cui l’esploratore tedesco legge da un taccuino alcuni passi scritti per l’amata lontana e questo curioso modo di esprimersi fa sbellicare dalle risa il giovane Karamakate. 

La foresta ti cambia, annotava Koch-Grünberg nel suo diario, iniziando a inoltrarsi nella foresta, come gli altri dopo di lui, come si è detto. Viaggio periglioso quello nella selva amazzonica, dagli esiti sempre incerti, che sembra trovare singolare conclusione nel Bosco Sacro di Bomarzo, dove un epigramma scolpito su una delle rocce recita: "Che ognuno vi incontri ciò che più gli sta a cuore e che tutti vi si smarriscano".

 


 

ASCOLTI

David Toop, Lost Shadows: In Defense of the Soul, Sub Rosa, 2015.

 

LETTURE

Antônio Callado, Quarup, Bompiani, Milano, 1972.
César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli, Milano, 1982.
Alejo Carpentier, I passi perduti, Sellerio, Palermo, 1996.
Carlos Fuentes, Terra nostra, Seix barral, Barcellona, 2003.
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 1982.
Darcy Ribeiro, Maíra, Feltrinelli, Milano, 1979.
José Eustasio Rivera, La voragine, Utet, Torino, 2008.
Mario Vargas Llosa, La casa verde, Einaudi, Torino, 2007.
Mario Vargas Llosa, Pantaleón e le visitatrici, Einaudi, Torino, 2007.

 


 

VISIONI

Ruggero Deodato, Cannibal Holocaust, Cg, 2016 (home video).
Werner Herzog, Aguirre, furore di Dio, Ripley's Home Video, 2016 (home video).
Werner Herzog, Fitzcarraldo, Ripley's Home Video, 2009 (home video).
Eli Roth, The Green Inferno, Midnight Factory, 2016 (home video).

 


 

VISIONI - Bergamo Film Meeting 2016

Vladimir Leschiov, Animated short films by Vladimir Lesciov, Lunohod Animation Studio, 2009 (home video).
Vladimir Leschiov, Lietus Dienas, Lunohod Animation Studio, National Film Board of Canada, 2014.
Shane Meadows, This is England ’90, Wrp Film, Film4 Productions, 2013.
Goran Radovanović, Enklava, Sein+Hain, 2015.
Carmen Tartarotti, Wir können nicht den hellen Himmel träumen, CarmenTartarotti Film Produktion, 2014.
Jasmila Žbanić, One Day in Sarajevo, Deblokada Ziva, 2015.
Petr Zelenka, Lost in Munich, Lucky Mn Film, 2015.