LETTURE / IL CARTELLO


di Don Winslow / Einaudi, Torino, 2015 / pp. 882, € 22,00


 

L'epica della morte al Messico


di Adolfo Fattori

 

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Il 3 gennaio 2016 viene – tempestivamente? – assassinata appena 24 ore dopo la sua elezione a sindaco di Temixco, cittadina messicana dello stato di Morelos, Gisela Mota, cui già la criminalità organizzata aveva ucciso marito e figlio. Aveva giurato di combattere il narcotraffico.

L’8 gennaio 2016 viene – finalmente? – riassicurato alla giustizia Joaquin “El Chapo” Guzman, potentissimo capo del “cartello di Sinaloa”, la più potente gang messicana di narcotrafficanti, evaso (per la seconda volta) da un carcere di massima sicurezza nel luglio dell’anno precedente.

A differenza della Mota, El Chapo era già diventato un personaggio da mito, e non solo nelle poverissime e abbandonate periferie e campagne messicane. Pare che la camicia che indossa in una foto sia diventata un must per i modaioli che frequentano il web. 

Particolare significativo, la camicia è quella che Guzman indossa in una foto con Sean Penn, con cui si era messo clandestinamente in contatto per progettare un film sulla propria vita. L’attore lo aveva intervistato, e l’intervista è stata pubblicata da Rolling Stone, trasformando come effetto immediato Penn in un indagato. La realtà imita il melodramma e il thriller, e viceversa. Perché questo capitolo della ormai quasi secolare “lotta alla droga” potrebbe far parte della trama dello splendido seguito di Il potere del cane di Don Winslow (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 23), Il cartello, pubblicato in originale (e in italiano, nella traduzione di Alfredo Colitto) poco prima di queste due vicende e da cui, peraltro, pare che Ridley Scott voglia ricavare un film, l’anno prossimo (magari scritturando Sean Penn?).

Siamo ai nostri anni, al 2012. Ritroviamo qui tutti i protagonisti – almeno, i sopravvissuti – del primo romanzo, a cominciare da Art Keller, “il signore della frontiera”, l’agente della DEA che ha fatto della lotta al narcotraffico la sua ragione di vita, e che si era ritirato dalle scene, in un monastero del New Mexico, dopo essere sceso sempre più in profondità nell’abisso della ferocia e del cinismo, abbandonando ogni etica e qualsiasi limite nella sua guerra, quasi una “guerra santa”, una assoluta ossessione, in cui il protagonista slitta progressivamente, e senza quasi potere farci nulla, diretto quasi da una volontà metafisica, che lo trascende, dalla dimensione della ricerca della giustizia alla coercizione del perseguimento della vendetta personale. 

Dall’altro lato, rinchiuso invece nel carcere di San Diego in California, c’è Adàn Barrera, l’ex potentissimo capo del cartello di Sinaloa, catturato appunto grazie a Keller. Ormai, la guerra che aveva messo i due l’uno contro l’altro sembra finita, con il ritiro dalle scene volontario per il primo, coatto per il secondo. Ma Barrera riesce a farsi trasferire in un carcere messicano, e da lì riprende le redini del suo impero. Costringendo Keller a ridiscendere nella mischia e a riprendere la sua partecipazione al massacro. Perché, passati gli anni, il traffico di droga non si è affievolito, anzi, come non si è ridotta la “guerra alla droga”. Una guerra che non avrà mai fine, non solo, perché i trafficanti prosperano su una domanda in continua espansione – come si esprimono i capi del traffico di stupefacenti – ma anche perché praticamente da quando è nato, il mercato delle sostanze psicoattive si è intrecciato sempre più indissolubilmente con l’economia legale, con le operazioni politiche sotto copertura, con la grande finanza internazionale.

Tutti argomenti ampiamente sviluppati (verrebbe da dire documentati) da Don Winslow, che così, da vero scrittore, attraverso la narrativa ha trovato il modo di raccontare quello che nel suo precedente mestiere di giornalista non poteva scrivere: i cronisti e gli storici devono attenersi ai fatti documentati, mentre gli artisti possono riempire i vuoti e le ellissi dei documenti e della memoria inventando fatti che colgono verità più profonde e sottili (cfr. Fattori, 2013).

Le dimensioni del massacro e della rete di complicità, di compromissioni, di illegalità di cui racconta nel romanzo man mano che ci inoltriamo nella narrazione potrebbero sembrare iperboliche, impossibili, ma basta fare un po’ di ricerca in rete per rendersi conto che almeno le cifre relative ai morti ammazzati sono addirittura, a farsi i conti, sottostimate: si calcolano in circa 100.000 i morti, e in 27.000 i desaparecidos di questa guerra, fra cui sindaci, sindacalisti, sacerdoti, semplici poveracci, oltre che combattenti dei vari fronti, che si intreccia anche con l’assassinio di centinaia di donne e altri fenomeni criminali, come ha scritto Fabrizio Lorusso su L’Huffington Post il 23 giugno 2015. 

Una mattanza vera e propria, cui Winslow dà una dimensione romanzesca che non addolcisce affatto le cose, ma al contrario le rende se è possibile, più sgradevoli e disumane, perché dà volti, nomi (anche se inventati), moventi, identità, personalità, abitudini, perversioni agli attori del suo narrare, immaginandone tutta la crudeltà, la disumanità, la consuetudine alla violenza, al sospetto, all’intrigo, alla paura, alla viltà, come i (rari) momenti di umanità e di attenzione agli altri. Così la sua narrazione si sviluppa avendo come fuochi Adàn Barrera e Art Keller e come cerchi concentrici sempre più ampi la guerra fra i vari cartelli, il gioco delle alleanze – fra loro e con i poteri legali –, l’aumento progressivo del coinvolgimento degli inermi e degli innocenti, le torture, le vessazioni, in una escalation che assomiglia sempre più a un olocausto, in cui alla fine il coinvolgimento degli inermi e degli innocenti diventa una conseguenza necessaria, prevedibile, inevitabile. Siamo nei luoghi della barbarie, nella logica ancestrale della faida e del sacrificio.

Ma la lettura di Il cartello conduce anche altrove. Conduce a riflettere su come, al di là delle guerre fra i narcotrafficantri e di questi con la legge, la morte violenta e l’oppressione, in Messico, siano in tutte queste opere date come quotidianità, come ineffabile e naturale calamità. Come parte di queste terre, forse a partire dall’invasione di Hernàn Cortez e della sua soldataglia, protetta dalla croce e dalla fede, che mise a ferro e fuoco quelle regioni e diede inizio ad una storia di schiavitù, prepotenze, barbarie che si è perpetuata fino ad oggi, attraverso e nonostante rivoluzioni, guerre civili, mobilitazioni di massa, rivolte. Tutte destinate alla sconfitta, in cui spesso i leader del popolo si trasformavano, una volta al potere, in nuovi oppressori.

Fino alla guerra della droga, al potere dell’imprenditoria del narcotraffico – e del traffico degli esseri umani, e delle armi. Un’economia di scambio fondata sulla logica dell’accumulazione primitiva, senza regole, vincoli, scrupoli, pudori. Che nasce da circostanze – anche queste – poco conosciute, almeno secondo alcune fonti (Mazzucco, 2011). 

Inizialmente, grosso modo negli anni Trenta del Novecento, la sostanza di cui si trafficava fra il Messico e gli Usa era quasi esclusivamente costituita da un derivato della cannabis, la canapa, e così veniva indicata. Ma in realtà, questo uso della pianta era residuale rispetto a quelli più tradizionali e socialmente accettati: produzione di carta, tessuti, materiali che potevano sostituire le plastiche, addirittura carburanti per auto, alternativi alla benzina. E l’economicità della produzione di canapa, all’epoca estremamente diffusa, spingeva in questa direzione, mettendo a rischio gli affari di imprese come la DuPont (plastiche), la Standard Oil (petrolio) e il magnate della stampa William Hearst che oltre a controllare la carta stampata era anche uno dei grandi produttori statunitensi di carta.

Fu facile a queste imprese, usando come megafoni i canali di informazione di Hearst avviare una campagna di stampa in cui, prima di tutto, si cominciò ad usare il termine maryjuana al posto di cannabis per connotarne l’origine chicana, messicana, popolo su cui gli yankees esercitavano lo stesso razzismo che colpiva gli afromericani, con in aggiunta un di più di dissolutezza e barbarie relative alle loro origini latine e indios, e marchiare la pianta di canapa di un tratto diabolico e peccaminoso. La produzione di canapa fu messa fuori legge, il suo uso si ridusse a quello di sostanza psicotropa, e un commercio che come volume d’affari era minimo si espanse e diventò la base di partenza per il traffico di stupefacenti di oggi… Complottismo? Possibile. Ma che le strade dell’accumulazione di capitale a volte si intersechino in modo da far collidere fra loro gli interessi degli stessi capitalisti è vero. Per poi magari generare nuove alleanze fra vecchi nemici. 

Sta di fatto che il Messico rimane la terra martoriata e sofferente che continua a pagare per una nascita, all’indomani della scoperta dell’America, battezzata dal sangue richiesto dall’acciaio delle spade dei conquistadores e dal legno delle croci dei sacerdoti cattolici.

 


 

LETTURE

Roberto Bolaño, 2666, Adelphi, Milano, 2009.
Adolfo Fattori, Riempire i vuoti,
dalspace.library.dal.ca/bitstream/handle/10222/53187/10_02_fattor_jansen_it_cont.pdf?sequence=1
Fabrizio Lorusso, La NarcoGuerra divide in due il Messico, il Paese dei cartelli della droga,
www.huffingtonpost.it/fabrizio-lorusso/narcoguerra-messico-cartelli-droga_b_7628904.html
Sean Penn, A secret visit with the most wanted man in the world, Rolling Stone, 9/1/2016.
Don Winslow, Il potere del cane, Einaudi, Torino, 2009.

 

VISIONI

  Massimo Mazzucco, La vera storia della marijuana, www.youtube.com/watch?v=FB5D9dBPxno