LETTURE / TEATRO GROTTESCO
di Thomas Ligotti / il Saggiatore, Milano, 2015 / pp. 281, € 19,00
Cosmologia della Desolazione
e dintorni
di Adolfo Fattori
Il racconto di orrore soprannaturale ha una tradizione robusta, e ancora fertile, nel panorama della narrativa contemporanea. Basti pensare a Stephen King, o alle cose migliori scritte dall’inglese Clive Barker fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento. O ancora alla serie della cittadina di Niceville dell’americano Carsten Stroud (2012-2014) – oltre a tentativi, sgraziati e deludenti, di inserirsi sulla scia di quel gigante che è stato Howard Phillips Lovecraft come quelli di K. W. Jeter (2013) e Fred Chappell (2014).
Potevamo considerare questo dato di fatto come parte della natura della cultura e della narrativa di massa, effetti della cifra “imperialista” di queste, e della serialità, che recuperano, riciclano e ripropongono contenuti e forme della narrazione, nell’eterno richiamo al Mito e alle sue radici.
Ma oggi? Quando ci troviamo a confrontarci con un qualcosa che sta sostituendo forme e riti del moderno, e che per adesso abbiamo difficoltà a circoscrivere, a definire? È ancora plausibile in una fase storica in cui si discute di “postumano” come dell’individuo che sta già sostituendosi al modello identitario nato con l’Umanesimo? (cfr. Abruzzese, 2011; "Quaderni d'Altri Tempi" n. 37; "Quaderni d'Altri Tempi" n. 52)
Possiamo considerare anche questo un fantasma – per rimanere in argomento – della Modernità (cfr. Fisher, 2012; Ferrara, 2012, in "Quaderni d'Altri Tempi" n. 51; Brancato, 2014) che ci tiriamo dietro fra tanti altri, insieme al cinema, alla fantascienza, agli altri residui delle forme e dei testi che hanno fatto il XX secolo? Al complesso del sistema delle narrazioni che hanno fatto da mimesis della condizione umana?
Forse, se rivendichiamo la necessità di guardare oltre, meglio, al di sotto della superficie delle cose per coglierne la sostanza profonda, idealtipica, di scoprirne l’aspetto spettrale, quello che sopravvive e si riverbera nell’attuale.
Ma leggendo la raccolta di racconti Teatro grottesco dell’americano Thomas Ligotti (e pensando alle sue infiltrazioni nel lavoro di altri contemporanei, come Nick Pizzolatto, cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 56) possiamo ipotizzare che forse la persistenza della presa dell’horror narrativo nel nostro immaginario sia fatta anche della sua propensione a spostarsi in avanti, a recuperare i contenuti, le forme, le atmosfere dell’orrore classico, quello che ha come vette – vertiginose – prima di tutto Edgar Allan Poe nell’Ottocento e Lovecraft nel Novecento (“fantasmi”, appunto, del Moderno) per proporci attraverso un sistema di potenti, allucinate metafore una visione ulteriore, originaria, della condizione umana nella tarda modernità, l’ingresso in una dimensione del tutto originale del “sistema mimetico” (Pecchinenda, 2014), il sistema estetico complessivo delle rappresentazioni del rapporto fra società e individuo nelle varie epoche storiche.
Sicuramente non inventiamo – quando raccontiamo – nulla di nuovo, ma possiamo curvare quello che narriamo alle nuove condizioni di esistenza delle nostre soggettività, ai nuovi modi di articolare il nostro modo di dare senso al nostro vivere, alla domanda “Che significa essere umani? E cos’è che ci rende tali”?
D’altra parte Ligotti dichiara nel suo saggio The Conspiracy Against the Human Race: A Contrivance of Horror (2011) – che cita in Teatro grottesco come opera di uno dei personaggi che mette in scena, e che potremmo considerare quasi come l’omologo del classico L’orrore soprannaturale nella letteratura di Lovecraft (2011; cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 32) e di Filosofia della composizione di Poe (1974) – la sua riconoscenza nei confronti dei due giganti della narrativa fantastica – aggiungendovi Arthur Machen e Algernon Blackwood – istituendo così una sequenza che ci permette di ipotizzare una linea di sviluppo che connette direttamente l’opera dei cinque autori alle tappe del mutamento sociale in cui si sono trovati a lavorare.
I racconti che Ligotti pubblica in Teatro grottesco narrano di un mondo grigio, nebbioso, polveroso, semideserto, fatto di grandi panorami piatti, indefiniti, in cui si ergono costruzioni già – sempre – cadenti, degradate, che appaiono straordinariamente antiche, di cui non si sa quali siano le origini. Edifici cupi, labirintici, dalle geometrie indecifrabili, come i palazzi e le abitazioni delle cittadine in cui il lettore, seguendo il narratore, si imbatte. O luoghi di incontro – taverne, circoli, retrobottega, negozi abbandonati – cupi, oscuri, popolati di ombre mutevoli e polverose.
Gli stessi narratori – quasi sempre in prima persona, nella migliore tardizione del racconto fantastico – sono personaggi di cui si sa poco: non narrano molto di sé, perché spesso sanno poco di se stessi. Il loro racconto è ridotto al minimo, il vocabolario elementare, povero, ripetitivo, l’identificazione dei luoghi di cui parlano è reiterativa, ossessiva (“la cittadina sul confine settentrionale”, “i luna park alle stazioni di benzina”, “un ospedale fuori mano”), ma sempre indefinita.
Oppure si tratta di sedicenti artisti – nevrotici, tormentati, insoddisfatti – alla ricerca di qualcosa che è oltre le possibilità umane, che gioco forza immaginiamo si possa ottenere solo cedendo a forze che sono al di là della comprensione e delle possibilità umane, condannati quindi ad un destino che si esaurirà o in una Quest senza soluzione, o in un traguardo peggiore della frustrazione per il proprio fallimento e della morte – ma che però potrebbe anche piacere. Come per i “supplizianti”, i cenobiti dei romanzi di Barker, ma nei termini di una sofferenza concentrata tutta sull’anima, non sul corpo.
In altri racconti ritroviamo i topoi della storia dell’orrore tradizionale – personaggi negromantici, presenze indefinibili, spettrali, tentativi di commerci con entità o spazi alieni, ultraterreni – che rimandano al soprannaturale classico, alle allusioni di Poe e Lovecraft a quello che nell’orrore classico è il mistero, il diabolico, il Male soprannaturale.
Le ossessioni dei protagonisti dei suoi racconti e dei loro comprimari sono l’arte, il teatro, le ombre, le angosce di esistenze senza scopo, esseri indefinibili, l’insonnia notturna fatta di attese di qualcosa di indefinito, di soglie da violare, che una volta oltrepassate danno risposte che vanno ben oltre le aspettative di questi…
Ecco, sopra tutto dominano le ombre. Ombre animate, dotate di spessore e volume, aperture verso interi mondi, o mondi interi esse stesse. Universi indefiniti e confusi, desolati, inospitali, in cui domina l’assenza di colore, il grigiore, il crepuscolo.
E che si rivelano spesso creazioni delle stesse menti di coloro che popolano i racconti. Universi simili a quello immaginato dall’austriaco Alfred Kubin in L’altra parte, (2001) pubblicato nel 1909, in pieno Espressionismo: “Nelle camere desolate, deserte, giacevano dei mobili rotti e un’aria pesante, che sapeva chiaramente di muffa, mozzava il respiro. Passai attraverso sale spaziose, fiocamente illuminate da una candela solitaria”.
O al continente sotterraneo esplorato dal protagonista Fernando nel romanzo Sopra eroi e tombe (2009) che l’argentino Ernesto Sabato ha pubblicato nel 1961, e narrato nel suo Rapporto sui ciechi, un lungo, allucinatorio racconto nel racconto di un viaggio nel delirio ambientato nelle fogne di Buenos Aires: “Orrende cloache di Buenos Aires! Universo infernale, patria dell’immondizia […] osceno e pestilente tumulto […] l’immenso, infinito pattume di Buenos Aires”.
Ecco, se dovessimo accennare a un punto di riferimento, potremmo proporre per Ligotti fra le altre una matrice espressionista, legata all’aspetto più cupo del movimento. Come scriveva Ladislao Mittner, il germanista italiano più importante del dopoguerra, trattando della nuova sensibilità di cui l’espressionismo si fa interprete, “L’opposizione fra il mondo vecchio e nuovo si coglie con evidenza particolare nel nuovo rapporto fra l’uomo e le cose. Per il simbolista le cose erano, appunto, simboli […] dietro i quali si manifestava […] un’altra, ineffabile realtà, quella sognata dall’anima […] Con l’espressionismo quest’ontologia è capovolta: le cose ora esistono in sé, ma non esistono più per l’uomo […] sono incomprensibili e al tempo stesso irrefutabili, e sono disposte su piani cubistici che s’intersecano e si compenetrano a vicenda, o in uno spazio di n dimensioni in cui, come nel vuoto pneumatico della musica atonale, ogni soluzione è legittima, perché tutte le soluzioni possibili coesistono” (Mittner, 2005, corsivo nel testo, ndr).
In termini leggermente diversi si esprime lo studioso Paolo Chiarini, nell’Introduzione al volume di Mittner citato: “… l’immagine-metafora del progressivo sfaldarsi del mondo, del suo ritirarsi dall’uomo […] fino a lasciarlo abbandonato entro una realtà fatta di cose estranee, inquietanti e ostili come l’altra faccia della crisi della soggettività che caratterizza, in modi e forme diversi, l’universo espressionista” (ibidem, corsivo nel testo, ndr).
Nei racconti di Thomas Ligotti compare la stessa opposizione: le cose sono lì, irraggiungibili, anche se sono davanti ai nostri occhi; non ne comprendiamo le origini, la natura, ma ne cogliamo gli elementi di estraneità, di malignità, di assoluta diversità – e, contemporaneamente, però, vi aneliamo. Il primo dei “fantasmi” novecenteschi fa capolino, così, negli universi dello scrittore. Uno sfondo pessimista, espressione di una crisi. Quella dell’uomo tardomoderno, non tanto lontana, in termini di trasformazioni della soggettività, della percezione del rapporto fra noi e la realtà, di quella dichiarata dagli espressionisti. Quella che fa urlare di dolore e frustrazione “l’uomo nudo” di fronte al mondo da loro immaginato. Quella dell’Urlo del pittore espressionista norvegese Edvard Munch, che Ligotti cita – pur senza farne il nome – in L’ultimo banchetto di Arlecchino, racconto ospitato nella sua prima raccolta di storie, pubblicata in origine nel 1986, I canti di un sognatore morto, esplicito omaggio al Maestro Lovecraft.
Ecco, le topografie e le architetture dei paesaggi di Ligotti rimandano alle geometrie sghembe, alle topologie labirintiche delle città e dei palazzi del primo cinema espressionista, o di romanzi come Il golem di Gustav Meyrink. E richiamano alla mente il primo, visionario lungometraggio di David Lynch, girato con mezzi di fortuna nel 1977, Eraserhead, la mente che cancella, notturno, dominato dalle tonalità del grigio di albe e tramonti opachi e malati, dalle visioni di periferie ed edifici degradati, poveri, malridotti, da una umanità dolente e terminale, di mostri minori, che assomigliano quasi a quelli che saranno gli “iperorganismi” cui accenna Ligotti in La Torre rossa, uno dei racconti di Teatro grottesco, che per inciso fa pensare all’ambientazione e all’azione della performance diretta da David Lynch Industrial Simphony No 1 (1989) – “Da una parte essi manifestavano un’intensa vitalità in ogni aspetto della loro forma e funzione; dall’altra, simultaneamente, essi manifestavano un ineluttabile elemento di decomposizione” (Ligotti, 2015, corsivo nel testo) – e che è dominato da una visione: una testa spiccata dal corpo e usata per farne le gomme da cancellare che sono in testa alle matite (eraserhead = “testa che cancella”) in una specie di piccola officina. Davvero, come ebbe a dire l’autore, “un sogno di cose oscure e inquietanti”. Come la cifra del sogno – anche se sarebbe meglio parlare di incubo – è un’altra delle matrici del lavoro di Thomas Ligotti. Mentre questi iperorganismi, il frutto delle sperimentazioni che si svolgono nella “Torre”, una fabbrica che sorge come un manufatto alieno al centro di un paesaggio desolato, “… produzioni di natura fondamentalmente estrema”, fanno ricordare gli esseri semiumani che il protagonista scopre nei sotterranei della casa del negromante Joseph Curwen in uno dei racconti più “gotici” di Howard Phillips Lovecraft, Il caso di Charles Dexter Ward.
Continuamente, nelle sue narrazioni emerge il dubbio – cui partecipano gli stessi personaggi – se tutto ciò che viene descritto sia sogno o realtà, immersione in un incubo o percezione referenziale di qualcosa di materiale, di concreto.
In un’intervista recente, Ligotti dichiara: “Il mio punto focale è abbastanza coerentemente centrato su quello che immagino come un «paradiso infernale», un regno dove si sguazza in qualcosa di putrido e corrosivo che giace al di sotto della vera percezione” (traduzione dell’autore, ndr; cfr. http://weirdfictionreview.com/2015/10/interview-thomas-ligotti-and-the-realm-of-nightmares/, 10/11/2015). Forse, per tutta l’opera dello scrittore, vale una frase rivelatrice, sempre nei Canti: “… sorgere alla luce del mondo dopo essere caduti nella tenebra del sogno. Ma in me non avvertivo la sensazione di aver spezzato l’involucro del sonno, la membrana delicata che seleziona un particolare universo pur contenendone innumerevoli altri”. Cos’è sogno, e cos’è realtà? Domanda centrale della Modernità, dal momento in cui si cominciano a mettere in dubbio i pilastri della conoscenza, dell’esperienza: siamo immersi nel Sacro, ed è questo che orienta e governa le nostre vite, o è tutta illusione? Almeno dai tempi di Pedro Calderón de la Barca e di William Shakespeare:
“Noi siamo delle stessa materia di cui son fatti i sogni/
E la nostra vita è circondata da un sonno” (Shakespeare, 2002).
Solo che, nel caso di Ligotti, tutto ciò che circonda le vicende narrate dai due bardi dell’Umanesimo in termini di realtà naturale, strutture sociali, visione del mondo si colora dell’oscurità della desolazione e della disperazione.
Ancora, le voci narranti dei suoi racconti adombrano, alludono alla possibilità – o alla certezza – che tutto si svolga su un “palcoscenico”, in un “teatro” – è Ligotti a suggerirlo – di cui noi siamo le marionette, dirette da fili invisibili, che si intuiscono come manovrati da un qualcosa privo di scopo, di progetto, di coscienza, qualcosa di immanente ma inconsistente, non un dio o un pantheon di dei, seppur folli per la nostra idea di coscienza, o esseri alieni che scambiamo per divinità, ma forze cieche e senza volto come quelle che governavano l’immaginario greco arcaico: Caos, Fato, Fortuna… Un passo oltre le cosmologie aliene di Lovecraft, o del soprannaturale ancora classico evocato da Poe.
Per molti versi sono, se vogliamo tentare un paragone, gli universi della depressione, dell’angoscia, della psicosi. E questo è il secondo “fantasma” che lo scrittore di Detroit si trascina dietro dal Novecento.
Anzi, se volessimo coniare un termine per indicare la declinazione che Ligotti dà all’horror potremmo – sulla scorta del cyberpunk e dello steampunk come aggiornamenti della science fiction alla tarda modernità – proporre quello di psychopunk.
Quello elaborato da Ligotti è un universo – meglio, un multiverso – che potremmo interpretare come interamente mentale, volta per volta interno ai singoli personaggi-narratori, elaborato dalla loro psiche, una coscienza interamente colonizzata e corrotta dalle forze più arcaiche e feroci dell’inconscio – e, eventualmente – condiviso fra loro, nella costruzione di una architettura complessa, articolata, decisamente post o forse meglio extra-euclidea.
Ma d’altra parte, della scoperta (o dell’invenzione, se si vuole), dell’inconscio nel passaggio dal XIX al XX secolo fa parte integrante l’idea della sua mancanza di dimensioni, della sua indefinibile immensità. Un terzo “fantasma”, a pieno diritto, della visione moderna dell’umano. E questa a-dimensionalità permette di pensarlo – e di pensare i mondi creati da Thomas Ligotti – come modellati sulla topologia e sulla geometria più estreme, dove contenente e contenuto si confondono fra loro, oltre solidi come la “bottiglia di Leida” o l’“anello di Möebius” o quel “tesseract”, l’ipercubo, su cui Robert A. Henlein scrisse un magistrale, divertente racconto, La casa nuova (cfr. Heinlein, 2006), giusto per fare qualche esempio. Geometrie dei solidi che elaborate dai matematici otto-novecenteschi, avrebbero potuto essere rappresentate visivamente da una immaginazione come quella di Mauritius Escher, per intenderci.
Ma c’è di più, crediamo. Nell’intervista sopra citata, Ligotti ricorda: “Ho frequentato una scuola cattolica dalla prima alla terza elementare e sono rimasto un credente per tutta la mia adolescenza. Nessun avvenimento o studio in particolare di cui mi ricordi mi ha fatto diventare ateo, attorno all’età di diciannove anni. Per quanto possa ricordare, diventai consapevole del mio errore mentre preparavo un compito a casa di Storia. A dire il vero, non successe in occasione di un fatto importante. Guardandomi indietro, dovrei dire che il mio cattolicesimo era piuttosto minuzioso e ossessivo per un bambino, e era fatto di una forte osservanza dei rituali e di una condotta privata senza essere diretto da un vero sentimento emotivo o spirituale” (traduzione dell’autore, ndr).
Anche se lo scrittore precisa che nella sua applicazione alla fede non era “diretto da un sentimento emotivo o spirituale”, affermando che la sua cattolicità era “piuttosto elaborata e ossessiva”, le sue dichiarazioni ci conducono a ipotizzare che, in ogni caso, l’educazione religiosa ricevuta – e rispettata – durante l’infanzia, la prima infanzia, abbia ispirato anche il suo lavoro di scrittore, come un ulteriore “fantasma” del suo immaginario.
A cosa assomigliano i paesaggi, gli scenari, le luci fioche e le ombre nei racconti di Ligotti se non al panorama di uno sterminato purgatorio? I personaggi dei suoi racconti sono figure opache, prive di forza, mossi da impulsi inconsistenti alcuni; incubati da frenesie nevrotiche, illusorie, senza speranza altri, come gli aspiranti artisti che lo scrittore colloca nei suoi scenari. Le uniche figure forti sono le ombre: solide, dotate di spessore, di volume, insieme o volta per volta evanescenti macchie sui muri, solide e sconcertanti presenze – e vere e proprie soglie verso ulteriori dimensioni. Buchi neri metafisici, alieni, incomprensibili, inconoscibili, ineffabili… Tutti gli altri, anime dannate, condannate a transitare dal male di esistere a un Male ancora peggiore, astrale, metafisico – e desiderose di farlo.
Un altro mondo in cui il purgatorio non è un luogo di pena dove si subisce un’espiazione che condurrà alla salvezza, al paradiso, ma che ha come traguardo un inesorabile e inimmaginabile inferno. Naturalmente non nei termini delle tradizionali raffigurazioni cristiane, quelle di Dante Alighieri o di Hieronymus Bosch, ma in quelli di una eterna agonia, di un’infinita sofferenza dell’anima.
Questa visione appare dunque come il fulcro della cosmologia costruita da Thomas Ligotti. Fondato sulla visione più arcaica e ancestrale del sacro, quella che si identifica con il Male in senso pieno. Un Male assoluto, perché indifferente agli umani, che agisce per suoi scopi o capricci imperscrutabili – magari colpendoli, ma pur sempre ignorandoli – e quando questi, inconsapevolmente, fanno qualcosa che lo irrita, lo infastidisce (perché è invulnerabile), comunque reagisce, infliggendo dolore. Un Male che si prova a placare con rituali e sacrifici, offerte e ordalie, che non è detto che funzionino, sia chiaro.
Un sacro che sopravvive tenace, mutando aspetto, riscoprendo antiche forme e mascherandole, o inventandone di nuove, e che la tarda modernità, nonostante la sua presunzione e la sua sicumera, non riesce a esorcizzare, perché esauritasi la forza delle grandi narrazioni che ha ereditato dal moderno, non offre più sicurezza, certezze.
Sentiamo di vivere in una società del rischio (cfr. Beck, 2013), perdiamo i nostri ancoraggi, la nostra sicurezza ontologica, quella che ci permetteva di collocarci solidamente in uno spazio-tempo preciso, padroni di un senso del Sé stabile, vacilla. Cerchiamo rifugi. La scienza non ce ne offre più: troppi disastri, inganni, promesse mancate. Così immaginiamo un complotto cosmico (una versione meno romanzesca, ma anche meno affascinante del complotto metafisico che fa da sfondo dei romanzi di Philip K. Dick) che mette a rischio le sfere naturale e sociale, frutto però dell’agire umano, della spietata azione di burocrazie multinazionali, sempre più evanescenti come le multinazionali, gli enti di ricerca statali, gruppi finanziari globalizzati… “La consapevolezza quindi che fenomeni apparentemente provenienti dalla sfera naturale, costituenti in taluni casi attentati alla sopravvivenza, siano invece il prodotto dell’azione umana, determina uno stato di coinvolgimento emotivo in conseguenza del quale le spiegazioni del mondo divengono fortemente appesantite dalla fantasia. Qualsiasi manifestazione fenomenica minacciosa non afferisce più, sul piano metafisico, al fato o alle leggi di natura ma torna ad essere vissuta, e dunque compresa, nei termini – per dirla con Mary Douglas – del «complotto cosmico» privo, però, di legittimazioni trascendenti” (Camorrino, 2015).
E per difenderci, per illuderci cerchiamo risposte e modelli nelle riemergenze dell’irrazionale tradizionale – occidentale o del cosiddetto etnico – riarticolando matrici e dimensioni nella sostanza metafisiche di vita e di pensiero, come medicine alternative, pratiche alimentari naturali, discipline del corpo e della mente esotiche, “sapienze” archeologiche come l’astrologia, la numerologia, la cristallologia… tutto l’universo del neoterico, cercando di difenderci da una malvagità che da umana rendiamo metafisica con pratiche che afferiscono all’irrazionale, comportandoci, come scrisse Karl Marx, come i rappresentanti dell’idealismo tedesco, “… che discende dal cielo sulla terra” (Marx, 2011), trasformando in divino ciò che era prodotto dell’uomo.
La matrice di questa narrazione è quindi composta di due elementi: da una parte la natura, l’ambiente esterno, da risanare e salvaguardare, dall’altra l’ambiente interiore, il Sé, da rendere più autentico, da liberare dall’oppressione delle nevrosi. Si ipotizza e ipostatizza uno stato originario vero, giusto, in cui regnava il Bene, i tre pilastri delle concezioni idealiste, da ripristinare, nell’ennesima riedizione del mito dell’Età dell’oro. Comunque sia, siamo nella sfera del sacro, dell’irrazionale, del soprannaturale, dell’istituzione di corrispondenze “simpatiche” fra macrocosmi (come la natura) e microcosmi (come l’inconscio). Che, qualsiasi volto prenda, persiste. E – di conseguenza – garantisce spazi di cittadinanza anche all’immaginario narrativo del soprannaturale, dell’orrore.
Ed è qui che scrittori come Ligotti collocano le loro opere, evocando gli aspetti più cupi, il lato oscuro del sacro. Quello, se vogliamo, sicuramente meno rassicurante ma più affascinante, il luogo in cui precipitano le nostre fobie, ossessioni, paure senza nome.
Così il debito che Thomas Ligotti dichiara verso Poe e Lovecraft acquista un senso più pieno, rotondo, ricco. E ci permette di collocarlo non solo lungo il percorso della letteratura, ma intrecciato con i punti di svolta, di frizione del mutamento sociale.
Edgar Allan Poe (cit.) è stato un maestro nella scrittura di racconti al cui centro sono i temi centrali del fantastico: la morte, il doppio, il fantasma: si pensi a La maschera della morte rossa, o a William Wilson; o ancora a certe figure femminili collocate dentro la dinamica fra vita e morte: Ligeia, Berenice, Eleonora, Morella… Acutamente consapevole dello strappo che stava avvenendo nella società occidentale, nella riarticolazione dell’economia, delle comunicazioni, del mestiere dell’intellettuale, dello statuto dei rapporti fra uomini e donne, scrive della forma del racconto, inventa il poliziesco, esercita il giornalismo, ma scrive anche poesie. Insomma, difende il ruolo dell’intellettuale auratico calandosi nelle nuove forme della comunicazione che si avvia a diventare di massa. Ma persegue il suo scopo infilandosi come un cuneo negli apparati culturali di allora, e nelle sfere di azione della narrazione: con i suoi racconti riattizza le ultime braci del gotico mentre scrive di amori impossibili per donne al di là della vita naturale. E appena scalfendo i domini del sacro (si pensi alle sue tre detection stories), mentre conferma che il soprannaturale ha i suoi spazi, che sono fuori del mondo naturale, che il Male abita altrove, ma esiste, si fa cronista visionario, profetico, di un passaggio di stato epocale: quello che dal Romanticismo porterà alla società di massa.
Quasi esattamente un secolo dopo Howard Phillips Lovecraft riprende il testimone della persistenza dei domini del sacro in una società che sembra completamente secolarizzata: l’orrore esiste, altroché. Solo che saremmo ingenui a pensare a una sua dimensione metafisica, soprannaturale: gli dei folli degli universi esterni sono assimilabili agli alieni della fantascienza, solo che sono talmente altri da noi, da farci ricadere negli incubi degli uomini primitivi.
Così, nei suoi articoli e saggi sul tema del racconto dell’orrore il “solitario di Providence” agisce sulla sfera del soprannaturale storicizzandola, operando da antropologo, attribuendo a “… un certo stadio di sviluppo primitivo” degli uomini l’illusione dell’esistenza di Dio e dell’immortalità. Sembra di leggere un testo di fenomenologia: “Sarebbe impossibile non cadere nell’animismo da parte di qualsiasi mentalità ignorante che abbia dimestichezza coi sogni, e la nozione d’immortalità costituisce il passo successivo, una volta ammessa una duplice esistenza. Il selvaggio, per quanto rammenta, ha sempre vissuto: di conseguenza non sa immaginarsi una condizione di non esistenza” (Lovecraft, 2011). Le società antiche e moderne hanno ereditato questa illusione, ma la realtà è molto più prosaica e profana di quanto ci piace pensare. Nel bene e nel male, naturalmente: istituire un altro mondo significa trasferirvi il nostro, e quindi il Bene e il Male. Soprattutto il Male.
E se ricordiamo che Lovecraft aveva ben presente anche il lavoro di Sigmund Freud, possiamo ben immaginare che potesse intravedere un legame fra i mostri dell’inconscio e quelli scaturiti dall’immaginazione narrativa. Da rigoroso razionalista, quale rivendicava di essere nei suoi scritti polemici, e dalle sue parole, possiamo ipotizzare che, insieme a Freud e Charles Darwin, magari avesse presente anche Julius Bahnsen, il filosofo tedesco dell’Ottocento, allievo di Arthur Schopenhauer, che dichiara lapidariamente in una sua opera che “l’uomo è un Nulla dotato di autocoscienza”, che si illude che la sua esistenza abbia un senso. Thomas Ligotti cita questa affermazione di Bahnsen nel suo The Conspiracy Against the Human Race, per affermare che il suo saggio si ispira proprio a questa considerazione. E, senz’altro, anche i suoi racconti. Ispirati a una visione delle cose decisamente opposta agli araldi dell’irrazionale contemporaneo mascherato da battaglia per il Bene. Come, d’altra parte, Lovecraft, ispirandosi a Freud, Darwin e al razionalismo, svillaneggiava e maltrattava nei suoi scritti non narrativi i suoi critici “spiritualisti”. Come Edgar Allan Poe, anche Lovecraft si esprime sugli umani e sulla visione del mondo del suo tempo: il soprannaturale non esiste. Se esiste il Male, è del tutto naturale. E se lo evochiamo attraverso l’arte del raccontare, è per dare forma alle nostre paure attuali, ricorrendo alla loro forma atavica, ancestrale: “Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto” (Lovecraft, 2011).
Dopo Lovecraft – e mettendo per un attimo da parte Stephen King – tocca a Ligotti continuare nell’esplorazione dei reami del sacro contemporaneo. È l’altra faccia, quella letteraria, delle spinte all’irrazionale come recupero di una umanità più “vera”.
E ne sposta ancora più avanti il fulcro: se nell’universo immaginato dal maestro di Providence il soprannaturale è una realtà oggettiva, seppur frutto di un equivoco, dell’applicazone di categorie arcaiche – gli dei folli del suo pantheon, come Nyarlathotep, Yog Sothoth, Cthulhu – negli spazi di Ligotti non c’è bisogno di deità, di esseri superiori più o meno antropomorfi: il Male è impersonale, è una endemica condizione ontologica, tanto che sembra quasi il frutto di uno stato d’animo, della produzione delirante di una sofferenza interiore. Nell’intervista già citata Ligotti dichiara: “C’è ancora qualcos’altro nel mio lavoro, a cominciare da L’ultimo banchetto di Arlecchino, e che in seguito ha giocato un ruolo di guida nella mia presunta «carriera». In una parola, è Buio”.
Alle intuizioni di Poe e Lovecraft nelle loro rappresentazioni del Male nella condizione umana, Thomas Ligotti aggiunge una dimensione solo e completamente novecentesca: quella della depressione, il disturbo mentale più diffuso del nostro tempo, la consapevolezza di essere quotidianamente di fronte a un compito impossibile: vivere. Farlo con la certezza di non avere senso, di non avere scopo: “l’uomo è un Nulla dotato di autocoscienza” (ibidem).
E se non è il frutto di una nostra percezione allucinata, del nostro delirio, il Male è il frutto di una attitudine squisitamente umana. “Siamo case infestate che nascondono indicibili segreti dentro stanze tormentate da mostri terrificanti, con specchi a riflettere l’abisso, per questo alcune porte sono ben chiuse a chiave. Se mai le aprissimo, se mai decidessimo di galleggiare su quell’abisso, dovremmo imparare a guardare la nostra coscienza e a riconoscervi l’inferno” (Ribaldo, 2015, cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 56). Riferita alla serie tv True Detective, potrebbe essere una descrizione degli interni dei racconti di Ligotti, proiezioni del delirio dei suoi personaggi. Il cui protagonista, Rust Cohle (Matthew McConaughey), cita chiaramente lo scrittore (scatenando una polemica poi rientrata): “Siamo cose che si illudono di avere un sé, una secrezione di esperienze sensoriali e di sensazioni, programmati per avere la totale certezza che ognuno di noi è qualcuno, quando in realtà non siamo nessuno”. Se ce ne rendiamo conto, scopriamo di essere in un purgatorio senza fine, sempre ad un passo dal precipitare in un inferno inimmaginabile, immersi nel grigiore, nelle tenebre, nel Buio. Senza speranza, senza riscatto possibile.
LETTURE
— Alberto Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.
— Clive Barker, Hellraiser, Sonzogno, Milano, 1995.
— Urich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2013.
— Sergio Brancato, Fantasmi della modernità, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
— Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno, Einaudi, Torino, 1980.
— Antonio Camorrino, La natura è inattuale. Scienza, società e catstrofi nel XXI secolo, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2015.
— Fred Chappell, Dagon, Mondadori, Milano, 2014.
— Paolo Chiarini, Introduzione, in Mittner, 2005.
— Robert A. Heinlein, La casa nuova, in Claudio Bartocci (a cura di), Racconti matematici, Einaudi, Torino, 2006.
— K. W. Jeter, Le machine infernali, Mondadori, Milano, 2013.
— Howard Phillips Lovecraft, Il caso di Charles Dexter Ward, in Opere complete, Sugar, Milano, 1973.
— Howard Phillips Lovecraft, Teoria dell’orrore. Tutti gli scritti critici, Bietti, Milano, 2011.
— Alfred Kubin, L’altra parte, Adelphi, Milano, 2001.
— Thomas Ligotti, I canti di un sognatore morto, Elara, Bologna, 2012.
— Thomas Ligotti, The Conspiracy Against the Human Race: A Contrivance of Horror, Hippocampus Press, Usa, 2011.
— Karl Marx, Ideologia tedesca, Bompiani, Milano, 2011.
— Gustav Meyrink, Il golem, Bompiani, Milano, 2000.
— Stanislao Mittner, L’espressionismo, Laterza, Roma-Bari, 2005.
— Gianfranco Pecchinenda, Il sistema mimetico, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
— Edgar Allan Poe, Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze, 1974.
— Ernesto Sabato, Sopra eroi e tombe, Einaudi, Torino, 2009.
— William Shakespeare, La tempesta, Mondadori, Milano, 2002.
— Carsten Stroud, Niceville, Longanesi, Milano, 2012.
VISIONI
— David Lynch, Eraserhead, la mente che cancella, CG Entertainment, 2013 (home video).
— David Lynch, Industrial Simphony No 1, RaroVideo, 2011 (home video).
— Nic Pizzolatto, True Detective stagione 1, Warner Home Video, 2015 (home video).