LETTURE / THE HOLLOW OF THE HAND
di PJ Harvey, Seamus Murphy / Bloomsbury Circus, Londra, UK / pp. 232, 45 £
Parole e foto raccolte in una mano
di Francesco Zago
Post-punk e post-grunge, indie, rock, elettronica: controversa e sorprendente, instancabile esploratrice di generi e mondi sonori diversi, dopo oltre vent’anni di carriera PJ Harvey si merita senza dubbio la definizione di artista di confine. La Polly Jean aggressiva e viscerale degli esordi nei primi anni Novanta (dal debutto con il singolo Dress all’album Rid of Me, del 1993) ha via via lasciato il posto a un’immagine e a un mood (relativamente) più misurati e al tempo stesso dark, come in Is This Desire? (1999), fino allo spettrale White Chalk (2007) e a Let England Shake (2011), raccolta di meste ballate sul tema della brutalità della guerra. Di volta in volta tormentata o intimista, provocatoria e scabrosa, per la Harvey quasi ogni uscita discografica è il segno di una svolta, spiazzante e inaspettata. Capace di regalare testi taglienti, oscuri, delicatissimi, non sorprende che sia approdata alla letteratura e alla poesia, proprio in compagnia di Seamus Murphy, fotografo e regista irlandese con cui la cantante ha realizzato il dvd di Let England Shake, controparte immaginifica e ancora più suggestiva dell’omonimo cd. Insieme a Murphy, PJ Harvey ha firmato da poco il suo primo libro, The Hollow of the Hand, una raccolta di poesie e fotografie che anticipano l’uscita del ritorno discografico, previsto per il 2016. Di nuovo con l’intenzione di stupire, la Harvey ha inciso il materiale inedito in pubblico, “esponendo” letteralmente se stessa, la band e tutte le figure coinvolte nella produzione (non ultimo il partner musicale di lunga data John Parish) in uno studio appositamente allestito in un’ala della Somerset House di Londra, isolato acusticamente e dotato di un vetro unidirezionale. Un’operazione al limite dell’esibizionismo (e del voyeurismo), forse, ma che nelle intenzioni della cantante intendeva offrire al pubblico uno spettacolo inedito, quello della gestazione artistica “dall’interno”. La performance, svoltasi dal 16 gennaio al 14 febbraio 2015, è stata intitolata Recording in Progress: il pubblico (cioè i pochi fortunati possessori del biglietto, suddivisi in turni di quarantacinque minuti l’uno) hanno potuto assistere direttamente al flusso creativo che precede il confezionamento del prodotto finito. Dieci brani inediti sono stati eseguiti il 9 ottobre scorso (quarantaseiesimo compleanno della cantante) alla Royal Festival Hall insieme allo stesso John Parish e a James Johnston (membro a sua volta dei Gallon Drunk, band già supporter della Harvey nel 1993).
The Hollow of the Hand apre un nuovo capitolo dell’esperienza artistica di PJ Harvey, pur essendo difficile definirlo come un esordio vero e proprio, vista la centralità dei testi nelle sue canzoni. D’altra parte le trentaquattro poesie vivono tranquillamente di vita propria, di una musicalità del tutto autonoma. L’accostamento di parola e immagine documenta i viaggi della coppia in Kosovo, Afghanistan, Washington. La Harvey ha dichiarato in proposito, confrontando questo lavoro con il precedente Let England Shake: “Raccogliere informazioni da fonti secondarie sembrava troppo lontano da quello di cui stavo provando a scrivere. Volevo sentire l’odore dell’aria, sentire il suolo sotto ai miei piedi e incontrare le persone che vivono nei paesi che mi affascinano. Il mio amico Seamus Murphy ed io ci siamo accordati e abbiamo deciso di lasciare crescere questo progetto insieme – io avrei raccolto parole, lui fotografie, seguendo i nostri istinti per dirigerci in nuovi posti”. Come nella sua esperienza discografica, l’impulso è ancora quello della ricerca, ma questa volta toccando con mano, entrando direttamente sulla scena, calandosi nel paesaggio umano al centro del racconto. Murphy aggiunge: “Polly è una scrittrice a cui piacciono le immagini e io sono un fotografo a cui piace la scrittura. La nostra è una combinazione curiosa. È il nostro sguardo sul nostro Paese e il mondo”.
Sembra proprio lo sguardo – atteggiamento ovvio nel caso del fotografo, meno immediato in quello della song writer – il filo conduttore del volume. Lo stile della Harvey è descrittivo, asciutto; a tratti i versi scandiscono un vero e proprio diario di viaggio. Sullo sfondo di strade, villaggi, colline, si muovono personaggi senza nome. Sono scenari segnati dalla devastazione, fra case e palazzi crivellati di colpi, negozi abbandonati, cumuli di ossa e cadaveri, in mezzo ai quali emergono paesaggi incantati, lunari, di una solitudine che mette soggezione e invita al silenzio. Parole e musica finiscono per spegnersi, devono spegnersi, sostituiti da un cupo lamento che sale dalla terra. Nella brevissima e intensa Poem – una sorta di manifesto poetico, come se il linguaggio stesso si arrendesse a qualcosa che non si lascia descrivere o catturare – PJ Harvey raggiunge la massima sintesi espressiva: “And sounds of weeping came instead of music / And I walked out trembling and pushed my face into the soil / And sounds of weeping came instead of words or speeches / And dark evenings arrived at dawn and wailing rose from the village”. Proprio come in alcune immagini di Murphy, dove figure umane minuscole sembrano inghiottite, annullate da montagne e deserti. Murphy alterna un iperrealismo crudo, senza compromessi, come quando illustra la morte, la decadenza, o semplicemente la vita quotidiana della gente, a visioni astratte, geometriche, dove spiccano l’intensità di una macchia di colore, un gioco di luce inaspettato, un primo piano sconcertante per la crudezza dei dettagli.
Allo stesso modo, narrazione e descrizione si interrompono di tanto in tanto per fare posto a una visione, richiamando i fantasmi delicati e inquietanti di White Chalk o Let England Shake: “I thought I saw a young girl / between two pock-marked walls. / I looked for her in the white house / that crumbled mud from its falling roof […] The husk of a corn doll / hung from the ceiling. / I asked the doll what it had seen / I asked the doll what it had seen” (The Abandoned Village).
Poetessa e fotografo finiscono quasi per scambiarsi i ruoli, quando le parole fissano un istante, e la narrazione, il diario svaniscono, lasciando il posto alla luce, al dipinto: “A tiny red sun / like a tail light / down the overpass” (Anacostia). Parallelamente, molte foto raccontano storie – giochi, lutti, fatica, rituali. E in tutto questo non c’è alcuna retorica del dolore, nonostante ogni pagina del volume sia percorsa dal trauma del conflitto, della perdita. La realtà più dura viene restituita con occhio disincantato, mostrandone perfino l’innata eleganza, come se contemplare la tragedia ne attutisse metaforicamente le ferite. Oppure il dolore è così forte da essere inaccessibile, come per la protagonista di Chain of Keys: “Fifteen keys is hang on a chain. / The chain is old and forms a ring. / The ring is in a woman’s hand […] Fifteen gardens overgrown. / Fifteen houses falling down […] Imagine what her eyes have seen. / We ask but she won’t let us in. / A key so simple and so small; / how can it mean no chance at all? / A key – a promise, or a wish; / how can it mean such hopelessness? / Now all I do is wait, she says. / Now all I do is wait, she says”. Quindici chiavi che non possono aprire più nulla e che, di fronte al vuoto e all’insensatezza, non ci lasciano altra scelta che attendere. Lo spaesamento e la perdita ricorrono spesso, come in The Guest Room (“Where shall I go? / I have no home. / I had a place / but guests came / and they remained. / Where shall I go?”) o in The Boy, dove un ragazzo guida la voce narrante in una città oscura e martoriata (“Young boy in your face / every loss I can trace”).
Lo sguardo di chi “raccoglie” parole e fotografie deve fermarsi per interpretare correttamente le apparenze, e intuire un significato che può essere trasmesso con efficacia solo per via allusiva. Qui sta la forza che unisce la poesia, in grado di ammettere i propri limiti e lasciare che la parola risuoni a lungo sulla pagina, e la fotografia, che può solo approssimarsi al reale e per questo selezionarne le ombre, le pieghe, ridisegnando la gerarchia delle apparenze. Poiché il medium è sempre un vincolo, parole e immagini diventano altrettanti segni di un’inadeguatezza espressiva, che tuttavia mostrano il proprio potere evocativo nel momento in cui quell’inadeguatezza viene riconosciuta. Il limite si trasforma in una forza. Il “cavo della mano” che dà il titolo al volume diventa un simbolo – di un bisogno mai soddisfatto, e dell’indifferenza per quel bisogno, ma anche del tesoro insospettato che può racchiudere: “In the hollow of the hand / is a folded square / of paper, / but nobody looks at the white paper / that gleams in the hand that begs, / stretching out and shining in the rain”.
ASCOLTI
— PJ Harvey, Let England Shake, Island, 2011.
— PJ Harvey, Is This Desire?, Island, 1999.
— PJ Harvey, White Chalk, Island, 2007.
— PJ Harvey, Rid of Me, Island, 1993.
— PJ Harvey, Let England Shake, Island, 2011.
VISIONI
— PJ Harvey, Let England Shake: 12 Short Films by Seamus Murphy, Island, 2012.