VISIONI / INSIDE OUT
di Pete Docter, Ronnie del Carmen / Walt Disney Pictures – Pixar Animation Studios, 2015
Tu chiamale se vuoi emozioni
di Francesca Fichera
Autonomia e sicurezza fanno parte di quelli che possiamo ritenere i pilastri psicologici dell’essere umano. Perciò sono i primi a tremare – e, in qualche caso, a crollare – quando l’essere umano compie e attraversa una mutazione, un cambiamento. E quale fase di trasformazione c’è che sia più lunga, più complessa, più difficile da gestire e “delimitare” dell’adolescenza? Lo sanno bene i creatori di Inside Out, lungometraggio targato Disney Pixar che Pete Docter, già autore del fortunatissimo Up (2009), ha scritto e diretto con il supporto del co-regista Ronnie del Carmen e del consulente Paul Ekman, psicologo noto a livello mondiale per i suoi studi sulle connessioni fra emozioni ed espressioni facciali – fonte d’ispirazione, oltre che per Docter, della celebre serie tv Lie to Me (2009-2011) con Tim Roth. Sarebbe d’altra parte sufficiente uno sguardo distratto alla copertina dell’edizione italiana di Te lo leggo in faccia (2010) per ritrovare subito i segni di quel modello che, opportunamente riplasmato dalla fantasia di Docter e dell’art department dei Disney Studios, ha funto da variopinta base alla storia della piccola Riley e del suo (non troppo) accidentato percorso di crescita.
Dentro il micro-universo ingrandito di Inside Out, in senso stretto e lato, le vere protagoniste sono le emozioni, fino, letteralmente, dai primi vagiti del racconto e del suo centro figurato, la bambina bionda figlia di un papà e di una mamma volutamente senza nome; poiché se loro sono qualsiasi anche la figlia lo sarà, rispondendo a un’ottica che intende ampliare al massimo la possibilità di immedesimazione, e quindi di universalità, da e per il pubblico. Mentre i cinque tòpoi emotivi – Gioia, Paura, Tristezza, Rabbia e Disgusto – che abitano la mente di Riley, e non solo la sua, vengono introdotti e mostrati come sottostanti a una specie di gerarchia. Se vi può essere un “centro del centro”, qui è di fatto e senza dubbio (la) Gioia: rappresentata a mo’ di fatina luminosa e ipercinetica, arriva prima sia in senso cronologico che narrativo, essendo la causa del primo sorriso di Riley neonata e, nel tempo, configurandosi come direttrice della varia e colorata “orchestra emotiva” al comando della mente e del cuore della bimba. Cioè, per riprendere quella visione sicuramente semplificata, antica ma non superata (cfr. Raffaele Alberto Ventura, 2015) che è la teoria degli umori di Ippocrate, divenendo carattere: Gioia diventa l’emozione prevalente – caratteristica, appunto – della giovane Riley, il suo stato umorale dominante. Non per sempre però. Quando il cambiamento muove dall’esterno, l’interno gli risponde modificandosi a propria volta. Nella coinvolgente rappresentazione grafica e simbolica dei meccanismi mentali dell’uomo che Inside Out compie, a tutto ciò che è astratto viene assegnato una forma, un contorno, un colore; mutamento incluso. La mente appare come una vera e propria stanza dei bottoni provvista di monitor e consolle, tastiere e vetri panoramici, intorno alla quale orbitano le isole dei valori fondanti, quali la famiglia oppure il gioco, e sono celati gli sterminati archivi della memoria, in collegamento diretto con quei mondi che il pensiero ha creato e conserva in silenzio, sul filo dell’abisso dell’oblio. I ricordi, in particolare, rappresentati come sfere luminose, scorrono attraverso tubature che, una volta archiviata la giornata, s’impegnano a ricollocarli tra le infinite scaffalature in cui si articola la mente; i più importanti, detti “ricordi base”, sono protetti da uno scaffale speciale e servono ad alimentare e sostenere le isole dei valori, cioè le componenti fondamentali della personalità di Riley. Il trauma, relativamente piccolo, di un trasloco – da molti salutato e criticato come “First World Problem”, un problema da ragazza agiata – fa sì che l’umore caratterizzante perda la sua centralità e, conseguentemente, il controllo della “squadra emotiva” dell’undicenne. Ed è lì, a quel punto, che entra veramente in scena Tristezza – sulla linea del tempo di Riley, la seconda a manifestarsi dopo Gioia, con un pianto immediatamente successivo al primo sorriso. All’emozione blu – come blue si definisce l’anglofono malinconico o nostalgico – goffa, occhialuta e, naturalmente, piagnucolona, si deve il primo, significativo cortocircuito emotivo della ragazzina dentro la cui mente stiamo scrutando: la modifica di un ricordo-base. A Tristezza è sufficiente sfiorarne la superficie liscia e tondeggiante per cambiarne il colore e, quindi, l’umore – non più oro-felicità ma azzurro-amarezza – provocando un’inarrestabile reazione a catena, prodromo, per l’appunto, della tempesta adolescenziale.
Eppure, e ce lo insegnano bene le fiabe contemporanee, chi sembra nemico è molto probabile che, a conti fatti, si riveli il migliore degli amici; nel caso di Inside Out, questo sarà vero per Tristezza, antagonista senza cattiveria di Gioia e, in maniera implicita, delle altre emozioni. Il regista e sceneggiatore Docter ci ha evidentemente tenuto molto a far passare una visione, per così dire, “orizzontale dell’apparato emotivo umano, dove un umore può essere caratterizzante ma non per questo elevarsi sugli altri e, soprattutto, connotare automaticamente il diverso da sé come negativo. Il salto dalla ricerca della felicità all’obbligo di provarla – perché altrimenti non c’è vittoria, né successo né bellezza – è sì figlio della spesso chiamata in causa società del benessere, ma non solo: perché elevare a moda ciò che dovrebbe essere frutto esclusivo della spontaneità – e ciò lo dobbiamo, in buona parte, a quella disastrosa ondata New Age che ha impregnato la classe imprenditoriale fino a spugnare la società tutta – non può che nascere dalla paura e, per questo, farne ancora di più. Paura di “convivere con la malinconia”, come suggerisce Ventura, o, più in generale, di non riuscire a gestire le proprie emozioni per via di una sostanziale incapacità a comprenderle; una comprensione che, nella parabola illustrata di Inside Out, ci viene indicata come conseguenza essenziale di una gentile e razionale – perché chi ha visto in questa storia l’esclusione del pensiero non ha saputo leggere fra le righe – collocazione e accettazione delle cose: affrontarle dando loro il giusto peso, per non venirne schiacciati né trascinati, nell’enfasi o nella repressione. Ma questo fa parte dell’essere adulti, cosa che la ragazzina del film è ben lungi dall’essere: nel suo cammino attraverso l’età sismica per eccellenza, fra i primi, grandi crolli di isole e punti di riferimento, il dissolversi dei miti infantili, un primo addio alla magia dell’illusione, la preponderanza delle emozioni è assolutamente logica; e, per contro, non esclude affatto la possibilità di una risoluzione linguistica e razionalmente complessa – fino a prova contraria, Riley è e resta un esemplare di homo sapiens – da realizzare, come difatti accade, mediante una semplice confessione. Con le lacrime, finalmente ammesse, sgorga anche una maggiore consapevolezza di sé, uno sguardo dritto e aperto nei confronti di una delle tante facce del reale, l’individuazione del problema come presupposto sostanziale alla sua eliminazione. Inside Out propone un discorso in cui il riconoscimento dell’esistenza di un’emozione e il suo assecondamento risultano ben distinti, dove la Tristezza non è meno e non è più della Gioia, e la Paura e la Rabbia hanno la stessa ragion d’esistere. Come i colori stanno alla luce, loro si rivolgono all’individuo: lo compongono, lo caratterizzano, lo tengono acceso. Perché basterebbe una sola emozione in meno a spegnerlo.
LETTURE
— AA. VV., Il fagiano Jonathan Livingston. Manifesto contro la New Age, minimum fax, Roma, 1998.
— Paul Ekman, Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste, Amrita Edizioni, Torino, 2010.
— Raffaele Alberto Ventura, La gioia di non essere felici, "Studio", 15 settembre 2015.
— http://www.rivistastudio.com/standard/insideout-psicologia/
VISIONI
— Samuel Baum, Lie to Me, 20th Century Fox Home Entertainment, 2011 (home video).
— Pete Docter, Up, Walt Disney Studios Home Entertainment, 2015 (home video).