VISIONI / THE NIGHTMARE
di Rodney Ascher / Zipper Bros Film, 2015
Sogno eppur son desto
di Francesca Fichera
Labile e ambiguo è il confine fra realtà immaginata e realtà concreta, tra il sonno e la veglia dei sensi, e lo stesso può dirsi della soglia che separa la finzione dal suo bacino di riferimento nel mondo sensibile. Quando ciò avviene, ossia quando il finzionale rinuncia al proprio, connaturato diritto di essere verità – perlomeno, una delle tante verità possibili – a prescindere dalla concretezza cui fa riferimento, il risultato è quanto meno affascinante; un “incanto”, quello di un finto ritorno al reale, che il cinema documentario riaccende potenzialmente all’infinito. E che, in casi come quello del film The Nightmare, si arricchisce e s’increspa, generando nuove e inedite pieghe, per quanto a cementare l’insieme vi sia una fra le cose umane più comuni e cioè la paura.
Rodney Ascher, regista reso mediamente celebre dalla sua incursione nel dietro e oltre le quinte dello Shining di Stanley Kubrick con Room 237 (2012), ha incontrato e osservato così spesso il terrore da decidere di provare a scrivere su di esso una sorta di piccolo trattato cinematografico. In quest’ultimo, che è The Nightmare, convivono senza contraddirsi le potenzialità e i limiti che il medium-cinema conserva nel momento in cui è chiamato a descrivere la dimensione soggettiva della paura. Trasformare l’intrinseca soggettività dello sguardo umano – che per definizione non esce da sé, a maggior ragione se intra-vede o sogna – nel “vedere condiviso” garantito dall’immagine cinematografica, rappresenta un’impresa di non facile realizzazione dove, per forza di cose, la finzione ha da venire in soccorso del dato documentale e delle sue naturali carenze. Per descrivere, cioè, le esperienze allucinatorie degli otto personaggi afflitti, nel passato o nel presente del pro-filmico, dalla sindrome della paralisi del sonno – cosa che pare abbia assillato anche lo stesso regista del film in gioventù – fare a meno dell’espediente della ricostruzione sarebbe stato praticamente impossibile; perché ciò di cui si parla non riguarda il campo dell’agire o degli accadimenti, ma solo, o almeno principalmente, del vedere.
Un ambito per il quale non v’è parola che basti o che non sia paragonabile alla restituzione – sebbene parziale, sporcata dal soggetto-medium che è il regista e dalla sua personale modalità d’adozione del codice cinematografico – dei frame di pura mostruosità visti, intravisti o addirittura avvertiti dai protagonisti-vittime delle storie messe in scena. Sagome scure e ghignanti dagli occhi rossi, pallidi crani alieni emergenti dalle tenebre, sussurri e grida demoniache, vanno a costituire il vero centro dell’attenzione di The Nightmare, di quel processo di visione che è stato solo e soltanto altrui prima di essere anche e soprattutto nostro; di tutti. Le mise en scène delle testimonianze degli otto intervistati fungono dunque da rafforzamento, sia in senso narrativo che emotivo della componente verbale interna al film; ne rappresentano la parte strettamente artificiale, il punto in cui lo strato illusorio prodotto spontaneamente dalla narrazione va a inspessirsi, raddoppiando il lavoro sulla materia del mondo e la messa in evidenza del suo intreccio, della sua essenza. In questo modo si materializza l’orrore reale: entro i confini di una cornice finzionale che ingloba tanto l’artificialità della rappresentazione, – le ricostruzioni – quanto la tradizionale e nuda crudezza della testimonianza diretta – le interviste – alternando ambedue sotto il comune denominatore dell’ars narrandi. Da una parte, dunque, The Nightmare ascolta la paura nelle voci delle persone coinvolte, la legge nei silenzi e fra i dettagli delle loro descrizioni, perfino con il linguaggio dei loro corpi, come il gesto del ragazzo che si guarda alle spalle mentre racconta della sua esperienza ipnagogica con gli alieni; dall’altro lato, la cerca e la ricrea mediante la messinscena, attuata con la piena e rispettosa adozione dei principali stilemi del genere horror, dal cosiddetto jump scare – il sobbalzo provocato da un’immagine e un suono improvvisi posti all’unisono – fino alla più banale ombra nascosta al di là del vetro di una porta o di una finestra socchiusa. È perciò lecito considerare ciascuna delle sequenze di ricostruzione da cui è composto The Nightmare come un piccolo film dell’orrore a sé stante, frammenti neri sparsi che la scrittura di Ascher ha avvinto gli uni agli altri facendo di un documentario il candidato ideale – e per gran parte della stampa effettivo – a horror dell’anno 2015. Un horror che annulla le consuete distanze fra genere e realismo, dove l’esasperazione del reale è già insita nei fatti raccontati; perché i fatti, questa volta più di altre, non sono che sogni. Come nei documentari più estremi di Werner Herzog – Grizzly Man (2006), storia di un esploratore che convisse con gli orsi grizzly per finirne sbranato, e Into the Abyss (2011), intervista a un giovanissimo condannato a morte – la finzione entra a far parte della realtà provando a descriverne le parti irrimediabilmente mancanti: il sonno, i suoi segreti, altro non sono che un “aldilà temporaneo”, un assaggio della vera e propria esperienza di morte indagata da Herzog. Al pari di questa, giacciono infatti nell’impossibilità di essere documentati direttamente, di mutare cioè in fonte visiva, in testimonianza oggettivabile dello sguardo; gli uni perché, come detto, sottostanti alla legge dell’inestraibilità dello sguardo individuale, l’altra in quanto parte della vita successiva alla vita stessa, alla sparizione del sé. In questo modo la bugia della fiction, per come la intese a suo tempo Stephen King, incrementa il suo portato di verità andando oltre la coerenza logica dell’intreccio, muovendosi quella restituzione dell’essenza del mondo che qualsiasi narrazione di qualità è (o dovrebbe essere) in grado di garantire. Primariamente, è lo stesso oggetto di un film come The Nightmare a essere vero, nel senso di verosimile, possibile, per certi aspetti inconfutabile; com’è la paura di fronte a un brutto sogno o, ancor peggio, un’orribile allucinazione di cui non si conoscono né la natura né la causa. La sospensione dell’incredulità quindi viene sospesa a sua volta, facendo sì che lo spettatore di The Nightmare rimanga a fluttuare in un limbo di angosce e interrogazioni allo stessa stregua dei personaggi che popolano il mondo dall’altra parte dello schermo, condividendone verosimilmente, o perlomeno potenzialmente, il destino. È molto più probabile o usuale avere un incubo che imbattersi in un serial killer particolarmente sadico, tant’è che non è raro che The Nightmare inneschi un meccanismo di immedesimazione molto più comune e semplice, soprattutto in coloro che hanno sofferto di paralisi del sonno con una certa frequenza.
Proprio da questa fondamentale verosimiglianza s’irradia il potere dell’ultimo documentario di Rodney Ascher: quello di fare paura descrivendo la paura stessa. Non per come la si immagina, non per come potrebbe essere, ma per come effettivamente si è manifestata ed è consueto che si manifesti; illustrando le sue dinamiche con la garanzia dei fremiti e degli sguardi di chi l’ha provata in prima persona, portandone i segni, anche per lungo, lunghissimo tempo, sulla propria pelle interiore.
E per quanto lo scarto fra soggettività e oggettività, com’è ovvio che sia e tuttavia molto meno che altrove, sia destinato a rimanere, un film come The Nightmare ha e conserva il potere di metterlo in secondo piano rispetto alla capacità di accomunare narratori e spettatori nel vincolo profano del terrore. Riuscendo nel ricordare a entrambi l’inestinguibilità della paura: il suo costante annidarsi, fra il sonno e la veglia, nel sospetto di un’ombra, in un’improvvisa mancanza di respiro, o in quella macchia scura nell’angolo della stanza che potrebbe non essere un cappotto. Quel sussurro secondo il quale il buio, anche se non lo è, sembra realmente sempre vivo.
VISIONI
— Rodney Ascher, Room 237, Feltrinelli, 2013.
— Werner Herzog, Grizzly Man, Fandango, 2008.
— Werner Herzog, Into the Abyss, Revolver Entertainment, 2012.
— James Wan, Insidious, Filmauro, 2012.