LETTURE / IL DISCORSO AMOROSO
di Roland Barthes / Mimesis, Milano, 2015 / pp. 656, € 28,00
La solitudine dell'innamorato
di Adolfo Fattori
Il discorso amoroso di Roland Barthes rappresenta prima di tutto – per coloro che hanno studiato le scienze umane e sociali negli anni fra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso – un viaggio nel tempo al recupero e alla conferma di una parte delle proprie origini culturali, quelle che afferiscono agli studi sull’analisi del racconto, alla galassia dello strutturalismo francese e, contemporaneamente, uno sguardo al processo di elaborazione del discorso scientifico. Inoltre, inaugura come è già successo per Michel Foucault con Feltrinelli e per Jacques Lacan con Einaudi, l’inizio della pubblicazione sistematica grazie a Mimesis dei lavori dell’intellettuale francese, uno dei colossi della cultura del Novecento, a partire dai due Seminari tenuti alla École pratique des hautes études fra il 1974 e il 1976, da cui derivò uno dei suoi libri più affascinanti – e forse più personali – Frammenti di uno discorso amoroso Barthes, 2005a), pubblicato nel 1977 da Seuil in Francia e due anni dopo da Einaudi in Italia.
Leggerne le pagine è un’esperienza che ha il fascino della scoperta e l’evocatività della nostalgia, di quando – da giovani ed entusiasti studenti lontani o da fortunati allievi presenti (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 18) – si scoprivano i nomi e le opere di coloro che hanno fatto grande la cultura di quegli anni, e dei decenni subito successivi, specialmente a partire dalla Francia, in cui stava maturando il genio di Foucault, Lacan, Claude Lévi-Strauss, per citarne alcuni, e, naturalmente, Roland Barthes, formato dalla linguistica e dalla semiologia e allargatosi alla ricerca in tutti i campi della comunicazione – dalla fotografia, ai miti di massa e alla moda (cfr. Barthes, 2003; 2005b; 2008).
Straordinario, quindi, il poderoso lavoro di organizzazione e riordino che Claude Coste e il suo gruppo di studio hanno condotto in Francia (sempre per Seuil), e di traduzione in italiano da parte dell’équipe guidata da Augusto Ponzio dei materiali lasciati da Roland Barthes, tenendo conto che non si può a questo punto davvero apprezzare Il discorso amoroso, il “Seminario” edito da Mimesis senza avere accanto il “Libro”, Frammenti di uno discorso amoroso, godendosi un continuo, affascinante andirivieni fra i due oggetti.
Anzi, a dire il vero, gli oggetti sono quattro: il Libro e i due Seminari, considerando che nel secondo dei due Barthes approfondisce, ripulisce, arricchisce il primo, per poi – dopo aver deciso di lasciare inedite alcune voci– esaltare tutti e due i Seminari nel Libro levigandoli, raffinandoli, scolpendoli, per così dire (per usare un’immagine che usa lo stesso Barthes nel primo Seminario alla figura “Creatività”), decidendo di eliderne una parte (ed ecco il quarto oggetto).
Con un’avvertenza: dobbiamo sempre ricordare – e qui vale a maggior ragione il discorso del viaggio nel tempo – che anche se noi lettori abbiamo conosciuto per primo il Libro, cronologicamente sono i materiali dei due Seminari i primi oggetti che il francese ha realizzato, subito concependone la struttura come un discorso che si sviluppa– dovendo comunque scegliere un qualsiasi principio ordinatore– secondo l’ordine più arbitrario possibile: quello alfabetico, visto che “la nostra cultura non dà nessun modello teorico” per “rispettare questo polverio, questa indifferenza delle figure (del discorso amoroso,ndr) a essere qui anziché là”. “È la quadratura del cerchio”, afferma Barthes nell’apertura del primo incontro del primo Seminario, per poi ripetere il concetto nell’introdurre il Libro. Con un'unica eccezione: il “Rapimento”, che è in assoluto la prima delle “figure” considerate da Roland Barthes per la sua natura fondativa di qualsiasi innamoramento…
Scelta che quindi non incide sulla pubblicazione in italiano – nel 1977 del Libro, oggi dei Seminari – che raccolgono la sfida dell’ordine alfabetico scegliendo di ordinare i materiali secondo le iniziali in italiano delle voci (le “figure”, secondo la definizione di Barthes) selezionate dal francese, data la totale permutabilità delle voci stesse.
E prosegue, nell’incontro di apertura del primo Seminario, chiarendo quale sarà l’obiettivo del lavoro, “Ciò a cui miriamo? […] (descrivere) uno spazio, un campo di circolazione del linguaggio è […] un’enunciazione, vale a dire una topologia che muove i luoghi del soggetto che parla secondo il desiderio e l’Immaginario […] in breve, del Testo […] l’opera secondo il soggetto-lettore” (corsivo nel testo). Laddove “Immaginario” è da intendere secondo il significato che gli dà Jacques Lacan, come risultato di un’operazione allucinatoria, in cui l’oggetto della sua nevrosi crea per il soggetto un mondo – solo suo – in cui tutto ruota attorno alla relazione fra lui e questo oggetto stesso. Dove nel nostro caso, l’innamoramento crea un mondo fatto solo dell’innamorato e dell’oggetto del suo amore.
E aggiunge: “il discorso amoroso è la presa a carico del Simbolico da parte dell’Immaginario” (corsivo nel testo, ndr): il linguaggio (ordine del Simbolico) viene piegato dal soggetto, nella sua allucinazione, agli scopi della affermazione del suo amore. In fondo, è un discorso che l’innamorato, in stato di ipnosi (qui Barthes ricorre a Sigmund Freud), fa a se stesso… e da lì nasce il Testo, che per Barthes è I dolori del giovane Werther (cfr. Goethe, 2014), il romanzo del 1774 di Johann Wolfgang Goethe. È il discorso dell’Io che si fa soggetto e prende a oggetto il soggetto del suo amore.
Discorso “oggi di un’estrema solitudine”, scrive Barthes nel Libro, in apertura “… forse parlato da migliaia di individui, ma non sostenuto da nessuno […] Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione” (corsivo nel testo, ndr affermazione è l’Io-ti-amo, il Je-t-ame, l’Ich liebe dich che è il Testo nucleare da cui si diparte il discorso dell’amore.
Tanto che in epigrafe a Frammenti di un discorso amoroso il francese scriverà “È dunque un innamorato che parla e che dice”, per poi partire con la prima “figura”, a ribadire come il “Libro” (e prima di questo i “Seminari”) siano nel senso che vuol dare al lavoro solo una mimesis possibile del Werther.
Riflessioni simili, sulla inattualità e solitudine del discorso amoroso, le sviluppava peraltro nel secondo dopoguerra il padre degli studi sulla letteratura di lingua tedesca in Italia, Ladislao Mittner, in Il «Werther», romanzo antiwertherianoscritto nel 1950, che introduceva l’edizione Einaudi del romanzo del 1962: “È ancora inesplorata (dalla critica) l’essenza di quel lirismo intenso e delicato sempre diverso e pur sempre uguale, che, circolando fra brano e brano, fra riga e riga, anima tutta l’affascinante e tragica storia di amore e di morte…” Mittner, 1962).L’amore non interessa gli studiosi: materia forse poco nobile, troppo profana? O piuttosto troppo ineffabile per essere affrontata? E tornando all’oggi – ci sembra – i quarant’anni passati dai Seminari e dal Libro non hanno cambiato l’oggetto della riflessione del francese: l’Ich liebe dich rimane solitario, inattuale, qualcosa di abissale, ma che si muove, sotto traccia, covando sotto la cenere, incurante del tempo che passa, per rinnovarsi ogni volta che viene detto o pensato, per ognuno dei singoli individui innamorati.
Declinazione sette-ottocentesca del mito medioevale dell’amore impossibile, il Werther fonda il discorso romantico dell’amour-passion, che continua ad ispirare i nostri io-ti-amo.
La persistenza del discorso dell’amore nonostante la sua inattualità definisce così il paradosso che rende attuale il percorso de Il discorso amoroso e dei successivi Frammenti
Roland Barthes, dopo aver scelto l’ordine alfabetico per articolare il lavoro, spiega che le “figure” che scandiranno i singoli incontri e attorno alle quali si svilupperà la ricerca – come si è detto (vedi sopra) – sono come dei “ritagli” del testo, che il lettore riconosce come già viste, già lette, già vissute; singole parole nel testo che sta leggendo – il Werther – che mettono a fuoco un particolare momento del discorso dell’innamorato. Parole esplicitate da “insegne”: brevi brani di letteratura che illustrano quella particolare figura. Come, per fare un esempio, per la figura “Demoni”, la cui insegna è “Lettera di Goethe: «Noi siamo i nostri propri demoni, ci espelliamo dal nostro paradiso»”. E che il francese riconduce poi ai temi del romanzo dello scrittore tedesco, che appare perfetto, per un lavoro come quello intrapreso da Barthes, per la sua posizione seminale rispetto alle identità contemporanee. Wolfgang Goethe rappresenta uno snodo fondamentale nello sviluppo del soggetto moderno, se prendiamo in considerazione due delle sue opere: I dolori del giovane Werther e Le affinità elettive (pubblicato nel 1809; cfr. Goethe, 2007). Del secondo, sappiamo che ci mostra l’affermarsi dell’idea dell’amore impossibile come unica soluzione alla gestione del desiderio, del primo, più antico, in continuità con romanzi come Pamela o la virtù premiata di Samuel Richardson, Tom Jones di Henry Fielding, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, tutti scritti attorno alla metà del XVIII secolo (cfr. Richardson, 2009; Fielding, 2013; Sterne, 2005), ci accorgiamo che introduce un altro elemento cruciale in tutta la narrativa contemporanea: il riconoscimento della formazione dell’individuo attraverso la riflessività del Sé.
Già nel titolo del romanzo – come per le tre opere britanniche citate sopra – compare un nome proprio, la prima pietra dell’individuazione. Ancora, il riferimento allo stato d’animo di fondo, a significare – almeno per noi posteri – la faticosa definizione dell’identità, che nel caso di Werther trova il suo canale per emergere nella consapevolezza dell’amore insoddisfatto. Il romanzo è tutto costruito ricorrendo a una sorta di monologo interiore: è un romanzo epistolare, quindi adopera una forma di narrazione particolarmente intima, a rafforzare il senso dell’autoriflessività e della narrazione diaristica del sé, anche se rivolta ad un interlocutore esterno. Alla fin fine, scrivere, come leggere – e torniamo al “piacere del testo” (cfr. Barthes, 1999), come altrove si esprime sempre l’intellettuale francese – è sempre, prima di tutto, l’innesco di un dialogo con se stessi.
Una declinazione e un canale, per accogliere il flusso del dialogo interiore dell’identità in formazione. Ma anche una conferma del fatto che il discorso amoroso, nella sua essenza, è prima di tutto un discorso che si fa fra sé e sé, anche se lo si trasferisce sulla carta da lettere per condividere le proprie sofferenze con un amico compiacente ed è rivolto a qualcun altro – cui si spera sempre di poterlo dichiarare... a confermare la dimensione allucinata, ossessiva, autoreferenziale dell’innamoramento. Anche se questo fa da propulsore per lo sviluppo dell’autoriflessività delle identità contemporanee: sempre in apertura della prima giornata in assoluto dei due seminari, Barthes definisce anche l’“intertesto” (un “compagno di linguaggio”, nella definizione dello studioso) cui si appoggerà per lavorare sul romanzo, la psicanalisi. Non nel senso, banale, di applicare la pratica psicanalitica al giovane Werther, quanto nel senso di procedere sapendo di avere al fianco una modalità di discorso utile ad illustrare la propria “parola”, le proprie riflessioni.
Al carattere diaristico del Werther possiamo attribuire quindi anche la “unità organica del romanzo”, come scrive sempre Mittner, “che ha una sua sapientissima struttura nascosta, pur presentandosi come una serie di frammenti improvvisati e slegati, ognuno dei quali ubbidisce apparentemente alla sola legge di essere compiuto e definitivo nella sua frammentarietà…” (Mittner, 1962), che al tempo dei Seminari Barthes replica nella stessa struttura che decide per questi.
Così gli appunti per le lezioni si dipanano l’uno dopo l’altro, mostrando l’attenzione sistematica che Barthes pone per fissare la ricchezza delle rifrazioni che il testo di Goethe ispira in lui, l’impegno certosino nel registrare a margine gli autori che intercetta nel progettare gli incontri, gli scarti e le cancellature che decide durante il lavoro di articolazione delle giornate seminariali…
Lavoro che rivela ai nostri occhi tutto il suo rilievo quando confrontiamo – come consente la completezza dei materiali pubblicati – i due seminari fra loro e gli inediti (le “figure” scartate) in fondo al volume, e poi i testi dei seminari con quelli del Libro.
Il Seminario del 1976, il secondo, trova figure nuove e figure rielaborate che mostrano una ben diversa corposità e discorsività e organizzazione rispetto a quelle del primo, riflettendo in controluce il lavoro di rielaborazione compiuto dallo studioso, forse anche in funzione del volume che poi avrebbe pubblicato l’anno successivo, che ancora mostra ripensamenti e ristrutturazioni dei singoli testi.
Rimane una questione di fondo: leggere – e prima di tutto pubblicare – questi testi, “vecchi” ormai di quarant’anni, ha un senso, oltre alla curiosità scientifica e alla spinta a ricostruire lo sviluppo dei discorsi che hanno preceduto la nostra epoca?
Barthes scrive alle soglie della tarda modernità, praticamente al crepuscolo della parabola dell’individuo moderno (cfr. Jameson, 2007; Taylor, 2009; Carroll, 2009; Harvey, 2015). Possiamo allora riconoscerci ancora nei testi che affronta? E nei discorsi che sviluppa? Sono ancora fertili la sua linea di pensiero, gli strumenti che adopera? O c’è il rischio che il tutto risulti anacronistico?
Pur percependo il rischio che nostalgia per quegli anni e affinità per quei discorsi influenzino la riflessione, ci sembra che il punto della questione sia altrove: oltre a rinnovare il piacere del testo, del leggere questi testi, che conservano ancora tutta la loro qualità stilistica e comunque narrativa, il motivo è nella permanenza – davvero inattuale, come scrive Barthes? – della presenza dell’amore, degli innamoramenti e del discorso amoroso nelle nostre vite, nonostante i mutamenti sociali, i passaggi di epoca, le mutazioni delle soggettività storiche, delle identità.
Roland Barthes lamentava la “solitudine” del discorso amoroso, prima di lui, Mittner stigmatizzava il disinteresse della critica per il tema centrale dello stesso testo poi scelto dal francese…
E più di recente? In piena tarda modernità, nel 1998 Alberto Abruzzese pubblica per Bompiani un saggio, La bellezza per te e per me, che ripropone nel 2012 insieme ad altri scritti. Anche qui, si parla d’amore, seppur in parallelo e dentro discussioni e riflessioni sugli statuti dell’estetica, sulle trasformazioni negli apparati e nello scenario complessivo delle comunicazioni di massa – e della relazione che gli individui intrattengono con questi. L’Ich liebe dich del giovane Werther e di tutto il Romanticismo si trasforma in un “Mi piaci” che guarda alla bellezza estetica, oltre che all’interiorità, in una declinazione che – come la percepiamo oggi – era spesso assente dall’orizzonte della sensibilità ottocentesca (cfr. Illouz, 2013; "Quaderni d'Altri Tempi" n. 46). Meno impegnativo, più discreto, mai risolutivo, pacificatore, o rasserenante, il “mi piaci” trascina con sé le torsioni e le frizioni che si creano nella dinamica che agita i media, gli individui, l’immaginario.
Uno dei fuochi delle riflessioni del sociologo sono come sempre i corpi, quelli – sintetici, simulacrali o organici – messi in scena dai media, e quelli dei consumatori, e “sull’avvolgersi in un movimento reciproco delle due parti in gioco” (Abruzzese, 2012, corsivo nel testo, ndr), la parte degli schermi, la parte degli spettatori.
Tornando al nostro tema, possiamo inferire che in questa dimensione, in tempi di definitivo sbriciolamento degli interdetti tradizionali, dell’imporsi del corpo femminile come depositario dell’ideale di bellezza, dell’esplosione della sessualità come valore, nonostante la propensione, la necessità dei media a entrare e mettere in scena – in tutte le forme della narrazione: fiction, reality, cronaca – la vita privata e l’intimità delle persone, una volta oltrepassata nel sociale la membrana della discrezione romantica, la sfera dell’intimità, della fusione dei corpi e delle interiorità, quella “natura incontrollata della sessualità” in cui si è trasferito nell’immaginario contemporaneo il groviglio dei languori, dei deliri, delle sofferenze d’amore romantiche, e delle derive che il postumano propone (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 52), rimanga occultata, confinata nel buio, in un ignoto tempestivamente evocato, nella dialettica continua fra due piani che si intersecano, “quello della bellezza e quello del sublime” (Abruzzese, 2012): ancora riemerge una categoria di fatto romantica, il sublime di Immanuel Kant, che ne scriveva nel 1790…
Comunque, a leggere Abruzzese, si percepisce negli scritti del sociologo la sensazione – o la consapevolezza – che la relazione d’amore continua a far soffrire, a produrre conflitto, incertezza, disorientamento...
Discorso ripreso da Eva Illouz, che nel citato Perché l’amore fa soffrire non può non citare il Barthes dei Frammenti: “Nessun amore è originale” quando affronta il tema della perdita delle illusioni romantiche, dell’avanzare di una logica più strumentale, più “contabile”, quella che anima, quando tutto sembra perso, le ricerche condotte sul Web da chi – disilluso e scoraggiato – si rivolge ai siti di incontri sentimentali online, alla ricerca di un amore algoritmico e computabile, all’estremo opposto della scossa provocata dal colpo di fulmine, dal “Rapimento”, su cui abbiamo scritto più sopra.
Come a dire che la mancanza di “originalità” di cui scrive Barthes, che rimanda a quel nucleo comune a tutti gli innamoramenti – e che rende il Werther idealtipico – si trasforma al tempo del digitale in una dimensione contabile, “profilabile” – che rende l’amore, anzi gli amori, fungibili, intercambiabili: ridotti nei siti di incontri ad una somma di tratti distintivi discreti, si assoggettano alla permutabilità totale di questi, secondo quel “gioco strutturale, o combinatorio (del segno, ndr) secondo una indifferenza o una indeterminazione totale” Baudrillard, 2007).
Certo, di storie d’amore se ne raccontano e se ne consumano ancora, a cinema, nelle serie Tv, nei romanzi e soprattutto nelle popsongs, ma a volte viene il dubbio che sia un modo per disinnescare più che per celebrare il discorso e la potenza ineffabile dell’amour-passion… O che questo sopravviva solo come ultimo fantasma del mito medioevale dell’amore impossibile (cfr. de Rougemont, 1998).
Forse, semplicemente, oltre le trasformazioni nella percezione e nelle rappresentazioni che l’impatto con l’amore ha avuto durante tutto il corso della vicenda dell’Occidente, dal Medioevo dei trovatori, attraverso il Rinascimento dei drammi elisabettiani, l’Ottocento delle tempeste romantiche, le emergenze del primo Novecento e poi della società di massa, fino ad approdare alle soglie del “postumano”, sappiamo, proviamo, sentiamo che l’incantamento – l’ipnosi, l’allucinazione del “rapimento d’amore”, come lo chiama Barthes – continua a colpirci, quando arriva, come un maglio, e non riusciamo a rendercene ragione. Come Werther, come Barthes, come tutti coloro che ne hanno ascoltato, ne ascoltano, ne ascolteranno il discorso.
LETTURE
— Alberto Abruzzese, La bellezza per te e per me. Saggi contro l’estetica, Liguori, Napoli, 2012.
— Roland Barthes, Il piacere del testo, in id., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1999.
— Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 2003.
— Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2005a.
— Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2005b.
— Roland Barthes, Sistema della moda in Il senso della moda, Einaudi, Torino, 2008.
— Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2007.
— John Carroll, Il crollo della cultura occidentale, Fazi, Roma, 2009.
— Denis de Rougemont, L’amore e l’Occidente, Rizzoli, Milano, 1998.
— Henry Fielding, Tom Jones, Mondadori, Milano, 2013.
— Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, Einaudi, Torino, 2007.
— Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, Einaudi, Torino, 2014.
— Ladislao Mittner, Il «Werther», romanzo antiwertheriano, in Goethe, I dolori del giovane Werther, 1962.
— David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 2015.
— Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, il Mulino, Bologna, 2013.
— Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007.
— Samuel Richardson, Pamela o la virtù premiata, Mondadori, Milano, 2009.
— Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, Mondadori, Milano, 2005.
— Charles Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009.