di Francesca Fichera
Dopo La leggenda degli uomini straordinari
di Stephen Norrington (2003), il ritorno del gotico e delle sue creature
sullo schermo ha un nome, che unisce passato e presente in
due sole parole: Penny Dreadful. Così si
chiamavano le sottili pubblicazioni pulp diffuse
nell’Inghilterra del XIX secolo, sulla scia dei dime
novel statunitensi e dei “fogli”
francesi, nate affinché le masse si specchiassero nei propri
stessi incubi dormienti; e in modo identico si intitola la serie ideata
e scritta dal creator televisivo John Logan per il network Showtime.
Lungo
le crepe di un ennesimo e kuhniano cambio di paradigma scorre la
riproposizione di forme e miti appartenenti ai primi passi
dell’età moderna, in una versione rivisitata e
rinnovata che chiude il cerchio sulla modernità stessa,
narrando e insieme rappresentando la rivoluzione ai suoi confini, quel
tutto che viene dopo: dopo l’umano, dopo
il moderno, soprattutto – in tal caso – dopo
la serialità.
Restano
i leitmotiv, i motivi fondanti, dai vampiri delle
pagine di Joseph Sheridan LeFanu (Carmilla, 1872) e
Bram Stoker (Dracula, 1897) agli uomini-lupo
plasmati dal folklore, ma soprattutto lui, il corpo nato da mille corpi
che vive e riscrive le contraddizioni della nuova era: il mostro di
Frankenstein, “insidia della felicità”
(Abruzzese, 2007) innescata dalla radicale modificazione dei processi
produttivi e di consumo che, mediante il suo essere “lavoro
espropriato di volontà e intelligenza” (ibidem),
si erge a simbolo della crisi per narrarla ciclicamente attraverso i
tempi – altri come attuali.
Lui
e le altre creature mostruose fuoriuscite dalla nebbia di antichi
castelli, in Penny Dreadful, tornano a parlare di e
per ciò che, fin dalle origini, continua
a tenerle unite: la cultura di massa, il “sacro vincolo del
pop”. Piuttosto, è il modo di guardarle a essere
inedito perché, in nome di quello spostamento del conflitto
che caratterizza i prodotti seriali della contemporaneità, i
nostri occhi entrano nei loro: in quelli verdi e impauriti di Vanessa
Ives (Eva Green), posseduta da demoni ancestrali; al centro delle
pupille intelligenti e curiose di Victor Frankenstein (Harry
Treadaway); e nello sguardo unico e inumano di
Caliban (Rory Kinnear), primogenito
dell’ambizioso dottore da lui stesso ripudiato, pronto a
“distruggere o essere distrutto” (Abruzzese, 2007)
pur di vendicare la sete d’amore che gli è stato
imposto di non saziare.
In questo tripudio seriale, che vede una
serie per la tv nascere e crescere a partire dal racconto delle origini
della serialità stessa, la novità – non
tanto nuova, se si pensa agli esempi letterari e cinematografici dei
primi anni Novanta – sta nell’assoluto protagonismo
della figura mostruosa, indice di una
“ultra-realtà che prende piede per condensare
metaforicamente il portato fattuale della realtà”
- secondo la definizione data da Achille Pisanti nel corso del convegno
Coinvolti nelle storie, tenutosi al Dipartimento di
Scienze Sociali dell’Università Federico II (28/29
maggio 2015). Il ruolo del mostro, al pari di quello del serial-killer,
diviene sacrale in apparente contrapposizione con
la dissacrazione realizzata dalla resa cruda ed estrema delle azioni
violente e dei personaggi che le compiono; e, come accade nella quasi
totalità di quei testi audiovisivi raggruppabili sotto il
termine di post-serialità (cfr.
Brancato, 2011), oltre ad ammorbidire i confini tra le parti in gioco
– cioè, in sostanza, fra buono e cattivo
– interviene per raccontarsi, svelare i trucchi, mostrare lo
scheletro ligneo che regge la scena.
Succede perciò
che la storia del mostro acquisisca il potere e la dignità
per stare in piedi da sola e dare vigore alla
struttura narrativa di un intero episodio: il terzo della prima
stagione (la seconda è attualmente in corso, ndr),
dal titolo emblematico di Resurrection. Una
resurrezione e un ritorno in piena regola, del mito – e delle
sue immagini – come dei temi che ingloba; a cominciare da
quel “ci sono cose che siamo destinati a non
sapere” che la madre di Victor Frankenstein ricorda a suo
figlio dopo aver da lui subito una lunga interrogazione sul senso della
morte, e a poca distanza dal successivo (ed efferato) manifestarsi di
quest’ultima – poiché è nella
scomparsa della genitrice che risiede la ragione per la quale il
piccolo Frankenstein crescerà studiando il modo di far
morire la morte.
La rinascita è
nel sangue, perché – direbbe lo stokeriano
Renfield – “il sangue è vita”
e ambedue si uniscono onde rappresentare un letterale fil
rouge narrativo in grado di unire la creatura al suo creatore
attraverso il discorso della perdita, dolente e pulsante come carne
ferita.
Così liberata dai
vincoli del broadcasting, la scrittura può dare forma a
improvvisi fiotti rossastri, dettagli di orbite svuotate dai vermi,
corpi squarciati a metà; può far esclamare a
Caliban: “Guarda come ho sanguinato” e mostrare,
subito dopo, esattamente quel come, i modi e i
tempi del suo sanguinare, della sua sofferenza, del suo secondo,
terribile ingresso nel mondo. Può anche parlare come un
romanzo, e come gli stessi romanzi che cita entro quel meccanismo
chiaramente post-seriale che è la
meta-narratività; dare alla creatura di Frankenstein la
possibilità di menzionare opere e uomini del suo tempo
– l’Adonais di Percy Shelley,
marito della “vera creatrice” Mary – come
se fossero di un altro. Rivelando le tracce nascoste, i meccanismi alla
base della messinscena, in una corsa il cui apice è
costituito dalla sintetica e sfolgorante auto-analisi del mostro, dal
suo dire di sé: “Non sono una creazione
dell’antico mondo bucolico. Personifico la
modernità […] Siamo gli uomini del ferro e della
meccanizzazione, adesso. Siamo motori a vapore e a turbine”.
In questo modo, Penny Dreadful spiega se stessa non
soltanto attraverso il suo titolo, ma anche nelle frasi che racchiude e
nei singoli frammenti di cui si compone; negli anacronismi, nei giochi
post-modernisti con i quali arricchisce la narrazione; nei riferimenti
incrociati tanto peculiari del genere – l’horror,
che vive di rimediazioni e rimandi continui
– quanto del vasto bacino post-seriale cui afferisce. Fino al
Grand Guignol, altro fondamentale dispositivo di
raccolta e smistamento delle narrazioni della cultura di massa, qui in
veste di “rappresentazione nella rappresentazione”
come di punto di snodo del plot, ossia di quella parte
d’intreccio legata proprio alla creatura, che diventa grip
di scena per guadagnarsi il pane e tentare anche una minima forma di
integrazione sociale.
Dalla fusione di passato e presente, il
mostro può dunque declinarsi al futuro,
proiettarsi dentro la cornice della storia e al suo esterno, verso
quella “ripetizione mitologica
dell’orrore” (Pisanti, 2015) dalle infinite
possibilità di soluzione e differenziazione.
Può chiedere al suo giovane padre di procurargli una
compagna – rendendolo “compagno
immortale” – e, così facendo, spingere
noi a ricordare la Elsa Lanchester de La moglie di
Frankenstein (1935) di James Whale nonostante nel tempo
del racconto di Penny Dreadful
quest’ultima sia ben lungi dall’esistere.
Può rinascere e far rinascere, prendere vita e darla, dal
punto di partenza liquido di una metafora a scatole
cinesi, che riflette su di sé e sullo stesso, illimitato
concetto di creazione.
LETTURE
— Alberto Abruzzese, La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, Sossella Editore, Roma, 2007.
— Sergio Brancato (a cura di), Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series. Dinamiche di trasformazione della fiction televisiva, Liguori Editore, Napoli, 2011.
— Joseph Sheridan LeFanu, Carmilla, Newton Compton Editori, Roma, 1993.
— Mary Shelley, Frankenstein, Editoriale Corno, Milano, 1966.
— Percy Shelley, Opere, Einaudi, Torino, 1995.
— Bram Stoker, Dracula, Newton Compton Editori, Roma, 1993.
VISIONI
— Francis Ford Coppola, Bram Stoker’s Dracula, Universal Pictures, 2013 (home video).
— Friedrich Wilhelm Murnau, Nosferatu il vampiro, Casini, 2008 (home video).
— Stephen Norrington, La leggenda degli uomini straordinari, 20th Century Fox Home Entertainment, 2015 (home video).
— James Whale, La moglie di Frankenstein, Record Service, 2015 (home video).