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di Raffaella Monia Calia

 

“A 'uerra, Marì, nun a vince chi è chiù fort', 'a vince chi è chiù brav' a aspettà... e chest' nisciuno 'o sap' fà megl' e nuie femmene” (“La guerra, Maria, non la vince chi è più forte ma chi è più bravo ad aspettare. E questo nessuno lo sa fare meglio di noi femmine”; 1x11), dice Donna Imma Savastano, ‘a leonessa, superba “matrona del male e dell’amore”, la “moglie del boss”.

Ma chissà se Donna Imma avrà il tempo di aspettare. 
E intanto, ragazzi con le braccia alzate, all’esterno di una chiesa, intonano un inno…“sempre con noi, sarai sempre con noi”. Sono le nuove e giovani leve dei Savastano, nel giorno del funerale di Danielino e questo è Cento modi per uccidere, l’undicesimo e penultimo episodio di Gomorra - la serie. La ripercorriamo prima di offrire una lettura della fiction.
La macchina da presa si sposta poi in chiesa, dove la prima panca è occupata dalla mamma del giovane anti-eroe, accanto siedono Imma Savastano, consorte del grande capo con il figlio Genny ed il fedelissimo Ciro. Il parroco intona la sua omelia accusando tutti di essere colpevoli, ma, soprattutto, coloro che hanno istigato un ingenuo sedicenne a battere la strada della malavita. Ciro Di Marzio, intanto, cerca di appurare notizie riguardo a Bruno, l’amico di Daniele, che è a conoscenza della verità sull’omicidio dell’amico, e che ora vive a Marsiglia. La casa di Bruno è costantemente sorvegliata da uno scagnozzo di Ciro. 
Intanto le riprese si spostano altrove, l’interno di un auto e un capo riverso sul volante, il fratello di Daniele, Massimo, autista di Salvatore Conte, è morto!

 

Cambio di scena. Genny ha convocato una riunione tra la vecchia guardia e le nuove leve del clan, con l’intenzione di punire Salvatore Conte, reo di aver ammazzato un affiliato dei Savastano. I grandi non credono che il problema sia Conte, e uno alla volta abbandonano la riunione, lasciando Genny e i giovani. Era stato Zecchinetta, uno dei fedelissimi di Don Pietro, ad alzare il tono della voce durante il decisivo incontro, andandosene poi bruscamente seguito da altri quattro componenti “senior” del gruppo. Ciro, rimasto con Genny e i giovani scagnozzi, dichiara che nessuno mai si sarebbe permesso di parlare così di Don Pietro e insinua il dubbio di una probabile già avvenuta alleanza tra Zecchinetta e i Conte. Genny cede al tranello di Ciro, ordinando alle giovani leve di far parlare Zecchinetta per poi ucciderlo.

Strade di Scampia, cielo grigio chiaro, inquadratura effettuata dalle spalle di una statua sacra. I bambini giocano per strada, tra cui il figlio di Zecchinetta, si avvicinano i giovani che chiedono “dov’è babbo?” mentre vengono distratti e attratti dalle pistole vere. Altri due salgono in casa, torturano Zecchinetta e poi lo finiscono. 
Scena successiva: Salvatore Conte parla ai suoi e afferma che la piazza è di tutti. A destra e a sinistra della stanza si intravedono un crocifisso e una statua di Gesù. Conte prospetta l’ipotesi di ammazzare Genny Savastano, proponendola come unica soluzione. All’incontro sono presenti anche alcuni membri del clan Savastano che hanno già tradito il loro capo. La morte di Zecchinetta è la cartina di tornasole dell’incapacità di Genny di gestire il clan: si circonda di giovani esaltati che non rispettano né la volontà del giovane Savastano, né le fondamentali regole della malavita organizzata, in cui giocano a riconoscersi. Genny, esortato da Ciro, si reca in carcere per chiedere consiglio al padre, Don Pietro. 
Intanto i giovani scorrazzano di notte, organizzando atti vandalici contro i vecchi del clan. Bruciano i panni stesi, sparano contro i balconi, offendono anche verbalmente, con frasi del tipo Omm’ é mmerda e Nun sì nnisciun’. 
Intanto è mattina, breve inquadratura sul mare di Napoli, Tonino spiderman, il giovane che aveva osato sfidare lo zio, corre in motorino in k-way giallo, intonando una canzone neomelodica, viene raggiunto e ammazzato senza pietà dallo zio, lo stesso zio che aveva osato sfidare qualche giorno primo.
Interno di casa. Donna Imma indossa grandi orecchini, cerchi in oro che fanno pendant con le grosse cornici dei suoi quadri di casa. Genny sale le scale “Cià mà, papà non ci sta più con la testa”. Imma si mette le mani sul volto, poi si alza di scatto e con passo deciso raggiunge il figlio: Sta cosa di tuo padre nun l’adda sapè nisciun. Hai capito Gennà, nisciuno. Per una volta stammi a sentire. E poi consiglia a Genny di dire ai suoi amici che Don Pietro vuole la pace, il perdono e l’ammissione dei propri errori. Da buona manager del crimine programma di mettere a garanzia ognuno un proprio parente, nelle mani dell’altro, “solo così si può essere sicuri che non si facciano scherzi”. I fedelissimi di Don Pietro non credono alle parole di Genny, “Papà mi ha parlato col cuore in mano”, “basta sangue, la cosa più importante è il rispetto”, e la “catena di morte deve finire subito”. Un solo clan dovrà comandare e quel clan: “siamo tutti quanti noi”.

 

Cambio di scena. L’interno di un’altra casa. Una donna ha una busta gialla tra le mani. La donna è la madre di Bruno e la busta l’ha spedita proprio lui: contiene un cellulare con una conversazione memorizzata. La mamma di Bruno chiama Donna Imma. La donna risponde al citofono, Donna Imma e Maria sono arrivate. “Chi è”, risponde Maria “Donna Imma”. Luce bianchissima inonda il viso della moglie del boss. Salgono. La donna apre la porta. “Prego” con fare reverenziale. “È un messaggio, Bruno se l’è trovato in Segreteria”. Manu, la fidanzata di Daniele, aveva telefonato a Bruno mentre il telefono era scarico. Manu, infatti, stava aspettando Bruno (che non conosceva) ma era stata raggiunta prima da Ciro, si proprio da Ciro Di Marzio, il colpevole dell’efferato omicidio. Nella registrazione si sente Manu: Bruno, so Manu. Stong ancora asp’ttann , immediatamente le urla disperate della ragazza. Si è accorta che l’uomo con cui è salita in macchina non è Bruno. Ciro la minaccia e la tortura per farsi dire dov’è Daniele. Donna Imma ascolta in silenzio, il battito e il respiro aumentano. Il contenuto della telefonata è irrimediabilmente la prova del tradimento di Ciro Di Marzio.
Intanto i “grandi” si riuniscono da soli. Non si fidano più di Genny e sono decisi a parlare con Conte. Ciro interviene asserendo che lui ha fatto di tutto per tenere il clan unito, ma Mo amma fa ‘a scissione. Vanno via tutti. “Che succede?”. “Ci sta un problema con Donna Imma”, risponde il fedelissimo di Ciro. Rosario era appostato sotto la casa di Bruno e ha riferito a Ciro che Imma potrebbe averlo scoperto. 
Interno di casa del boss. Enormi candelabri neri e dorati, si intonano alle pareti damascate. Donna Imma dà una copia della registrazione a Maria, la istruisce sul da farsi, ovvero deve consegnare la copia all’avvocato, e le comunica che vuole andargli a parlare: “Io ci vado a parlare. Io devo salvare la vita di mio figlio… Io vedo un uomo morto”. Ed è qui che pronuncia l’altra frase di culto “La guerra non la vince chi è più forte ma chi è più bravo ad aspettare. E questo nessuno lo sa fare meglio di noi femmine”. Poi si prepara. Forse si prepara alla morte. Camicia nera di seta a maniche lunghe, indossa i suoi gioielli più belli e telefona a Ciro, scusandosi per il disturbo, visto che è domenica. Ciro le risponde che non c’è nessun problema. Chiama la figlia che stava giocando con le amichette. 

La scena successiva è girata in un bar. Lei indossa un lungo cappotto leopardato grigio ed è bella più del solito. Gli fa ascoltare la registrazione. Campo e controcampo. Nessuno parla. Finito l’ascolto Donna Imma si pronuncia “Hai ucciso una ragazzina di quindici anni … hai tradito a tutti quanti”. Non c’è possibilità di perdono. Donna Imma propone a Ciro che nessuno deve venire a saperlo, nemmeno Genny, “… ma devi fare quello che ti dico io, devi chiamare Conte. Poi te ne devi andare”. Ciro dovrà organizzare un’imboscata e poi sparire per sempre con la famiglia. Ribatte sprezzante “Chi ti dice che io non ti ammazzo ora?”. E qui si consuma una delle scene di odio a più alto pathos della serie. Donna Imma a questo punto afferma che se lei dovesse morire Genny scoprirà il tradimento e per lui e la sua famiglia non ci sarà più pace, sottolineando l’infamità di Ciro e la sua assenza di sentimenti. Ciro risponde “Non è vero, io per sopravvivere mi sono attaccato a un sentimento, a uno solo: a voi vi ho sempre odiata”. E Imma “Fa quello che ho detto se ti vuoi salvare la vita”. E poi esce. Attraversa la strada, l’asfalto è bagnato. Cappotto lungo e felina eleganza. Ciro esce, è inquadrato vicinissimo da dietro, a mezzo busto, immagine sfocata e giacca nera gessata tono su tono. Ciro aveva già capito e si era già organizzato. Passano due moto accanto a lui. Poi di nuovo Donna Imma. Cielo plumbeo, passa una moto e fa fuoco. 
E no! Il tempo di aspettare Donna Imma non lo avrà. Immediatamente un’altra moto. Ancora fuoco. “E caddi come corpo morto cade”. Si accascia dolcemente al suolo, sullo sfondo le scale arrugginite delle vele, quasi fosse un ingorgo escheriano, mentre Ciro avanza con la sua lenta andatura. Inquadratura dall’alto. Le Vele. E un corpo morto a terra. È la quinta morte della serie. O meglio ancora: è la morte di tutta la serie Gomorra. Donna Imma non c’è più, giustiziata per mano di uno, anzi “del” figlio adottivo di Don Pietro. 

Scena immediatamente successiva, Maria, sesta morte dell’episodio numero undici, viene trascinata in una discarica abusiva, corpo senza vita che viene coperto da cellophane. L’uomo è Rosario, fidatissimo di Ciro, estrae il cd e lo distrugge. Lo butta, chiude il baule dell’automobile e va via.

 

Cambio di scena. Automobile nera, è Ciro, occhiali da sole neri, nuvole sul parabrezza. Suona il telefonino: “Pronto”… “Bene” … “Molto Bene”… “Sei stato bravo”, Va bbuon accussì. Lo raggiunge un SUV, e poi subito un’altra automobile. Ciro e il suo amico scendono contemporaneamente. Si avvicinano, Salvatore Conte è seduto dietro, l’autista abbassa il finestrino posteriore, e Ciro dice: “Vogliamo un incontro”. Il cielo è sempre nuvoloso, le pozze della strada colme di acqua piovana. Conte ribatte “E Gennaro Savastano che dice?”. E Ciro: C’adda ric’rNient’. I Savastano rappresentano il passato. Cala il sipario sulla tomba di Imma Savastano, nata nel 1970 e morta nel 2013. 
Audace e spregiudicata, paziente e inamovibile, Donna Imma, di natura quasi ferina, nella sua caratterizzazione archetipica può essere associata ad una Ecate contemporanea in grado di accompagnare i vivi nel regno dei morti, senza alcuna pietà o ripensamento. 
La casa in cui vive è lastricata d’oro, statue della dea Kalì abbondano nel soggiorno, divani mastodontici e damascati fanno da contraltare all’asciuttezza del suo carattere: una donna decisa, senza troppi fronzoli, fedelissima al marito e perciò donna d’onore di camorra: “Se mio marito dice che si deve fare così, così si fa”. Unica presenza femminile protagonista. 
La scena, come abbiamo visto, si apre con il funerale di Danielino, ammazzato nella puntata precedente da Conte, altro momento di altissima drammaticità, alleggerito ed estremizzato da una delle frasi cult (Vien’t a pigliare il perdono) pronunciata da Conte quando finge di voler assolvere Danielino, mentre, invece, lo attira a sé ingannandolo e poi lo ammazza senza pietà alcuna.
L’episodio Cento modi per uccidere segna uno spartiacque narrativo, sia all’interno della stessa fiction Gomorra, sia nella modalità di racconto tipica della serialità: da un lato conferma il coraggio e l’originalità nella struttura del serial, una scansione narrativa che non esita a eliminare dallo scacchiere personaggi importanti, uno su tutti Donna Imma Savastano, la moglie del boss, amata dal pubblico e acclamata dalla critica; scelta, questa, che impone l’iniezione di nuove storie al femminile di simile caratura. Infatti nella seconda serie faranno il loro ingresso Patrizia (Cristiana Dell’Anna di Un posto al sole), e Annalisa, detta “Scianel” interpretata dall’attrice Cristina Donadio; dall’altro segna la “fine” dell’era Savastano e l’inizio della “stagione scissionista” estetizzata all’ennesima potenza proprio nel corso dell’undicesimo episodio.

Nella seconda serie, stando alle anticipazioni, oltre all’ingresso delle due nuove protagoniste al femminile, sarà presente un nuovo regista, Claudio Giovannini, che affiancherà Francesca Comencini, Stefano Sollima, Claudio Cupellini e le sceneggiatrici Ludovica Rampoldi e Maddalena Ravaglia. 
Gomorra - la serie, però, mostra dei tratti inediti, che la distinguono dal panorama della serialità televisiva italiana. Innanzitutto ha il merito di avere sdoganato tipiche espressioni napoletane, oltre i confini campani, regalando una certa cittadinanza, si potrebbe dire nazional-popolare, ad alcune forme gergali fortemente romanzate come la citata “Vien’t a piglià o’ perdono”. Insomma, ha creato delle vere e proprie frasi cult, che hanno alleggerito la serie, sicuramente una delle fiction più spietate degli ultimi anni, soprattutto se si osserva l’assenza del classico buono, invece presente nelle narrazioni tipiche della crime-fiction (spesso incarnato dalle forze dell’ordine), contrapposto al Male (in questo caso i clan camorristici). 
Ma non è presente nemmeno “l’affare della droga” se non come racconto di sottofondo, così come se ne intuisce solo l’uso tra gli adepti al clan, mostrandosi in rarissime occasioni. La storia è svuotata del suo scheletro narrativo, l’asse portante su cui si basano gli eventi, mostrando, invece, fortemente, le relazioni tra i personaggi sul piano umano più che professionale.

 

In Gomorra il buono è un buono debole non istituzionalizzato (pensiamo alla ragazza che viene spietatamente ammazzata come pure a Danielino, a Massimo e Bruno), il buono in Gomorra è una mamma delle Vele che sfida Genny, il quale in pochi minuti, invece, riesce a sottrargli il figlio, per farsi accompagnare alla recita dove avverrà la sparatoria finale della prima serie, nel corso della dodicesima puntata. 
In Gomorra, infatti, non esiste la polizia, se non sotto forma di una lontana sirena, o delle guardie del carcere che accompagnano Pietro Savastano, a detrimento, però (e fortunatamente) di tutta una fiction buonista italiana e di scarsa qualità che ha sempre previsto la persistenza di alcuni classici idealtipi narrativi.
Ed è interessante vedere con quali modalità Gomorra sia stata trasmessa su Rai Tre. In questo caso è stato il servizio pubblico a fungere da dispositivo del bene, anticipando alla messa in onda degli episodi, interventi di personaggi significativi nella lotta alla camorra, mettendo in dialogo la televisione con una fiction particolarmente neo-neorealista, anche al fine di mettersi al riparo da altre ed ulteriori accuse e di demistificare una certa critica. Quella che ha accusato Gomorra di inquinare l’immagine di Napoli, confondendola con uno scenario di violenza sistematica e generalizzante, e di poter rappresentare un modello negativo per le giovani generazioni, che spesso si riconoscono nella serialità televisiva. Una fiction, basata su una mafia-story, insomma, che lambisce i territori della non-fiction, per il crudo realismo con cui riesce a rappresentare molti accadimenti di cronaca, ancor prima reinterpretati dal libro Gomorra, e che sconfina in quelli della crime-fiction per la sistematica rappresentazione di situazioni criminali che la contraddistingue. Perché si sa, in questo contenitore, ogni racconto è una rielaborazione di pezzi del reale e una sua rappresentazione più prossima. Quella di Gomorra - la serie è sicuramente una narrazione tossica, di momenti di vita autentica, come si svolgono in certe parti dell’area Nord di Napoli, che potrebbero essere ovunque, a Milano, New York o a Ciudad Del Mexico. 

Frammenti di quotidianità criminale, che aprono davanti agli occhi del mondo squarci di vita camorristica, col loro corredo di personaggi, ruoli e generi. Come è noto, la critica si è abbastanza divisa. Molte le valutazioni positive, ma parecchie anche quelle negative. Fatto sta che la serie ha fatto il pieno di ascolti, sia su Sky (circa 640mila spettatori per i primi due episodi) e sia su Rai Tre (1.617mila spettatori per la prima serata di messa in onda) rappresentando una operazione mediale di carattere trasversale, che ha tenuto incollate al televisore famiglie intere, vecchie e giovani generazioni, attirando anche gli scettici, nel corso della messa in onda via via di altri episodi. 
Accolta dalla critica internazionale con grande clamore, pensiamo al Der Spiegel, “Dimenticate i Sopranos” arrivano “I Savastanos”, paragonata addirittura a The Wire dal Guardian o alla Brooklyn di Quei bravi ragazzi, osannata da Jasper Rees sul Daily Telegraph, quale “effervescente antidoto” al romanticismo italiano, la serie Gomorra ha raccolto consenso ed attenzione record, prima di avventurarsi nelle riprese per la seconda stagione.

 

Gli episodi 11 e 12 sono stati visti su Sky Atlantic HD e Sky Cinema1HD da 850mila spettatori medi. Considerato che si tratta di una pay-tv, Gomorra è la serie firmata Sky più vista in assoluto. Per non parlare delle migliaia di tweet che ha raccolto dal suo debutto. 
La serie è assai emblematica delle nuove forme assunte dal racconto televisivo di respiro internazionale e si distacca nettamente dal modello di mafia-fiction” italiano dove “la commistione fra poliziesco, mafia-story e melodramma è una occorrenza relativamente inconsueta nella fiction italiana, pure molto adusa a praticare (per verità con alterna maestria e riuscita) ibridazioni fra generi diversi”. (Buonanno, 2014). 
Pensiamo, ad esempio a La Piovra (Rai Uno, 1984-2001) un ascendente celebre anche di Squadra Antimafia dove sono presenti tali ibridazioni. In tal senso Gomorra rappresenta una serie italiana inedita nel suo genere, che non contiene in sé tutti gli elementi tipici della crime-fiction, esasperando alcuni tratti tipici della mafia-story (azione, spedizioni punitive e tante morti) e rendendo più soft la vena melodrammatica. Un tratto che lungi dall’esprimersi in maniera evidente, con una storia dai connotati definiti, permea tutta la serie, mettendo in scena accadimenti che costringono lo spettatore a commuoversi (pensiamo, ad esempio, alla esecuzione di Manu, trasposizione sul piccolo schermo di un evento di cronaca realmente accaduto, ovvero la morte di Gelsomina Verde).

Sicuramente Gomorra è un prodotto eccellente della serialità televisiva. Innanzitutto, per la scrittura, a opera di un gruppo di sceneggiatori, partiti dal libro di Roberto Saviano, a cui rimandavano le bozze per un ulteriore lavoro di rielaborazione in chiave “realistica”.
“Una scrittura tentacolare, avvolgente, quasi ipnotica, lenta nel suo incedere”, come la definisce Manuel Lai sul sito www.melty.it/gomorra-la-serie-5-motivi-che-la-rendono-un-capolavoro si fonde ai temi musicali dei Mokadelic che ti entrano in testa come mantra. 
La serie dei tre registi Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini mostra una regia eccelsa, con ampio uso di inquadrature dall’alto e da finestrini e di telecamera a spalla. Una fotografia nitida ma dai toni oscuri e colori vividi favorisce un lavoro di montaggio di estrema maestria. La scelta, poi, di eliminare immagini stereotipate da “Bella Napoli” ha fatto il resto. Niente “lungomare liberato”, ma solo vele, vicoli squallidi e umidicci, interni barocchi e ridondanti, per un effetto, alla fine, molto cinematografico. 
Gomorra è ispirata a fatti di cronaca, è potentemente realistica e raggiunge vertici di straordinaria crudezza espressiva e struggente coralità, quasi fosse un’opera shakespeariana, o un componimento epico. 
A differenza di molte fiction italiane, vanta un cast di attori professionisti, sino ad allora poco conosciuti, ma attualmente persino osannati, come Salvatore Esposito che interpreta Genny Savastano, Marco D’Amore che ha dovuto perdere venti chili per poter interpretare Ciro Di Marzio (“devono parlare gli spigoli del tuo volto” gli era stato detto). Per non parlare di Maria Pia Calzone (Donna Imma), Fortunato Cerlino (Don Pietro), punte di diamante della serie e di Marco Palvetti, interprete magistrale del mi(s)tico Salvatore Conte. 
E potremmo continuare così per tutti gli altri personaggi, attori per la maggiore campani, di provenienza teatrale, che hanno fornito un potente coefficiente di realismo al loro alter-ego. Nella serie il mondo criminale viene raccontato servendosi di miti, simboli-smi, metafore espressive e visive, rimandi mistici e religiosi. 

Certo, trattasi sempre di fiction italiana, sebbene con un approccio alla scrittura e una sceneggiatura molto americane, e in quanto tale incorpora in sé “le prerogative, potenzialità e limiti del genere fiction televisivo e le aspettative sociali che lo circondano. La sua finalità è distensiva, il compito quello di cogliere e rielaborare la materia minimalista di cui è fatto il vissuto individuale e familiare così come i conflitti, le tensioni, i grandi temi dell’attualità sociale e della vita pubblica” (Giomi, 2012). 
“Le narrazioni della serialità aurorale, infatti, mettono in scena la vita di tutti i giorni, le sue piccolezze e la sua immediatezza (...) la nuova serialità vive in perfetta sincronia (talvolta finanche in anticipo) i tempi della trasformazione sociale ed è questo il motivo per cui riesce ad intercettare così bene segmenti di pubblico tanto diversi” (E. Caramiello). Se nella fiction e nel cinema americano è l’individuo al centro dell’opera narrativa, e le sue caratteristiche sociali, come il sesso e lo status socio-economico, sono spesso utilizzate per identificare la persona, Gomorra, è, invece, un’opera potentemente sociologica, in quanto definisce la “potenza” e “il potere” dei suoi personaggi a partire dalle loro relazioni sociali e personali. Forse è plausibile affermare che quest’idea farebbe la felicità di Georg Simmel, come sostiene Francesca Montemaggi nel suo blog francescamontemaggi.wordpress.com.

 

Il protagonismo femminile nella serie, declinato dal punto di vista qualitativo e non quantitativo (poche donne, ma di forte levatura) conferisce al serial ulteriore charme. Una su tutte Donna Imma, ‘a leonessa, personaggio in cui si miscelano sapientemente quell’honor e shame dell’antropologia mediterranea, e che vanta, tra le sue antecedenti letterarie, donna Concetta de Il paese della cuccagna di Matilde Serao e Amalia Iovine la contrabbandiera di Napoli Milionaria. Riguardo al cinema non possiamo dimenticarci della mirabile rappresentazione di Rosetta Cutolo, ne Il camorrista di GabrieleTornatore.
O ancora Pupetta Maresca, forse la prima capoclan del secondo dopoguerra, raccontata ne La Sfida di Francesco Rosi. L’antecedente di tutte le donne di camorra, che, addirittura, nel 1955 ammazzò Totonno e’ Pumigliano, sospettato di essere l’assassino del marito (all’epoca la Maresca era incinta), oltre alle meno note donne dei Giuliano, Licciardi e Maresca (Marmo in Gribaudi, 2010). Invece, volgendo lo sguardo alla fiction ricordiamo Rosy Abate di Squadra Antimafia, trasmessa da Canale 5, o, come afferma Milly Buonanno in un’intervista:
“Credo si possa parlare di una tendenza internazionale emersa negli ultimi anni. Penso alla serie francese Mafiosa, al serial latino-americano La reina do sur, a serie americane, Weeds, australiane, Underbelly: Razor, danesi, Penoza, egualmente incentrate su figure di gangsters women” (www.formiche.net/2014/06/04/gomorra-ecco-le-donne-audaci-spregiudicate-della-tv-italiana).
Il ruolo delle donne, nell’economia del mondo illegale, è stato sempre significativo e persino socialmente riconosciuto, tanto da essere caratterizzato da un termine specifico, maesta (“maestra”, Gribaudi, 2010). Numerose le testimonianze negli Atti dei Tribunali, che risalgono al 1887, a certificazione di un precedente protagonismo femminile molto presente nella dimensione campana e soprattutto partenopea. 

Nonostante tale storicità, è nel corso degli ultimi venti anni che le donne capesse “coprono i vuoti nelle posizioni di comando” (Zaccaria in Sgueglia, 2010). “Alcuni dati interessanti forniti da un pioneristico database sulle figure femminili della camorra, ci parlano del 58,8% (tra i casi (…) presi in considerazione) di donne che accedono alle organizzazioni camorristiche tramite legami di tipo familiare e/o affettivo con esponenti di rilievo dei clan, nonché di un 86,2% delle “capesse” che sono mogli, ex-mogli, compagne, amanti, sorelle, figlie dei capi (…) rispetto alle altre mafie del sud Italia, le reti criminali napoletane della camorra lasciano molto più spazio all’ingresso di forze femminili e spesso concedono loro pure l’opportunità di scalare autonomamente le gerarchie di potere interno, fermo restando che l’ingresso esterno è più facilmente concesso ai ruoli direttamente subordinati (gregariato e spaccio) (Sgueglia, 2012). 
Ciò che nota Gabriella Gribaudi è la centralità dei ruoli femminili nelle organizzazioni criminali partenopee, “hanno una vita privata che, secondo i canoni della modernità, dovremmo definire libera e indipendente: convivenze, giovani amanti…” (Gribaudi, 2010). Per quanto superficialmente si possa pensare a una “modernizzazione delle reti criminali”, Gribaudi ci mostra come sia invece la presenza di ben tre generazioni di donne impegnate in carriere criminose che hanno reso possibile la sedimentazione di pratiche e tradizioni femminili. 
È indubbio, però, che Napoli mostri “specifiche caratteristiche degli strati popolari della città, eredi di una cultura urbana con una scarsissima segregazione tra i mondi maschili e femminili che si ripercuote anche nella cultura e nelle pratiche delle organizzazioni criminali con la partecipazione attiva delle donne” (Gribaudi, 2010). In pratica, un’apparente autonomia femminile è solo il frutto del riproporsi di un vecchio schema tribale di tipo matrilineare, già significativamente trasformatosi nel corso dell’Ottocento e negli anni a venire. Un “sistema” nel quale le donne, in virtù della loro responsabilità materna, o della difficoltà economica, non hanno sempre operato scelte “socialmente approvabili”, andando ad ingrossare, spesse volte, le fila della criminalità organizzata, scegliendo mariti dalle condotte devianti e/o partecipando attivamente con ruoli di gregarie, usuraie e pusher. 
La rappresentazione di Donna Imma ha travalicato in Gomorra - la serie i “confini finora disegnati della fiction italiana mainstream” (cfr. Buonanno, 2014) forzando all’estremo la sopportazione femminile, esasperando l’attesa sino agli spasmi della violenta e inaspettata morte della madre e moglie, stressando al massimo il racconto seriale stesso, con il rischio che la morte di Donna Imma può rappresentare per la tenuta del plot. 
Un cantico drammatico e appassionato del crimine napoletano, in cui tutti si possono riconoscere, i buoni e i cattivi, forse alla ricerca di quella perduta dimensione comunitaria arcaica, di quel territorio antropologico o semplicemente, attraverso un attrezzo sublimativo, utile a riempire il vuoto esistenziale delle nostre vite (cfr. Caramiello E.) fosse anche al prezzo di partecipare alla messa in scena di questo brutale show della napolitudine
Ci sono “cento modi per uccidere”, il senso di solitudine, e un’infinità di farmaci, di ogni tipo, per curare il senso di vuoto e desolazione, che troppo spesso ci fa compagnia. Uno di questi è, probabilmente, quello di liberarci da alcuni pregiudizi intellettuali e lasciarci catturare dal gusto, persino naif, della fruizione, di appassionarci al ritmo ed ai personaggi del racconto, di fare la parte che ci compete, come spettatori, prima ancora che analisti, insomma di osservatori-osservati, in questo strano spettacolo della vita, di cui l’intera serie, è, tutto sommato, soltanto un episodio. Crediamo neppure si tratti di quello più avvincente.

 


 

LETTURE

  Milly Buonanno (a cura di), Il prisma dei generi:Immagini di donne in TV, FrancoAngeli, Milano, 2014.
  Milly Buonanno, Donne al comando fra action e melodramma. Il Caso di Squadra Antimafia, in (a cura di) Milly Buonanno, 2014, cit.
  Luigi Caramiello, Frontiere culturali. Nuovi percorsi di sociologia e comunicazione, Guida Editore, Napoli, 2012.
  Elettra Caramiello, Il canone della fiction. Momenti e personaggi della sua serialità televisiva, in Luigi Caramiello, 2012, cit.<
  Elisa Giomi, Donne Armate: sessismo e democrazia nelle fiction poliziesche, in, (a cura di) Anna Simone, cit.
  Gabriella Gribaudi, Donne di camorra e identità di genere, in AA.VV., Donne di mafia, Meridiana. Rivista di Storia e di Scienze Sociali n° 67, Viella, Roma, 2010.
  Clare Longrigg, L’altra metà della mafia. L’anima femminile di Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra,  Feltrinelli, Milano, 1997.
  Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano, 2014.
  Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico l’uso strumentale delle donne nel neoliberismo, Mimesis Edizioni, 2012, Milano.
  Leandro Sgueglia, Madri, mogli, figlie, lesbiche, “capesse” e “pusher”.
Segnali di post-patriarcato nella camorra, in, (a cura di) Anna Simone, cit.