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di Marco Meloni

 

Black mirror, letteralmente, significa una superfice che riflette, uno specchio che rimanda l’immagine, a volte più precisa, alle volte deformata, di ciò che le è davanti. Qualcosa di affascinante, di seducente, ma anche di molto pericoloso e, a volte, inquietante; uno specchio nero che riflette; anche solo nello scriverne, crea, infatti, una sorta di mistero e fascinazione.
Sin dai tempi di Platone ci si è interrogati su come la percezione del sé e degli oggetti che ci circondano sia, appunto, solo un riflesso di essi, che la mente, la memoria individuale e collettiva, possono plasmare. E di come essa, come sottolinea Franco Ferrarotti, sia la base dell’esperienza e dell’interazione umana nella continua ri-presentificazione di ciò che è stato: “La memoria conserva. Ma anche ricrea. Ricostruisce. È dotata di una dimensione dinamica. Sviluppa. Conserva l’immagine del passato, ma fa anche crescere e garantisce il futuro [….] Una certezza: nel momento in cui è pensato – e ricordato – il passato non è più passato. È nuovamente presente, è ri-presentificato (Ferrarotti, 1993).
Un’idea, quella di memoria come elemento di continuità temporale, che ritorna fortemente anche in Paul Ricoeur, che pone l’accento sul suo importante ruolo di collegamento fra uomo e collettività, e, all’interno del singolo, fra arcipelaghi di ricordi e situazioni che debbono essere contestualizzati e interconnessi: “La memoria assicura la continuità temporale della persona: è la continuità fra passato e presente che mi permette di risalire, senza soluzione di continuità, dal presente vissuto agli eventi più lontani della mia infanzia. Naturalmente posso saltare oltre intervalli più o meno lunghi e rapportarmi direttamente con un evento passato, per rappresentarmelo con vividezza più o meno marcata, ma resta il fatto che dobbiamo alla continuità temporale il sentimento di distanza più o meno grande tra il presente e gli eventi richiamati dal ricordo. [….] Forse bisognerebbe dire che i ricordi si distribuiscono e si organizzano in livelli di senso, in arcipelaghi, eventualmente separati da abissi. E che la memoria continua ad essere quella capacità di percorrere, risalire il tempo, senza che di principio nulla impedisca di proseguire senza soluzione di continuità tale movimento” (Ricoeur, 2004).
Regole sociali interiorizzate e fatte proprie, che trasformano il contesto in qualcosa di più simile alla nostra realtà interiore, a sua volta stabilita da un’alternanza di presente e passato del nostro io. In un gioco, appunto, di specchi e rimandi continui fra individuale e collettivo, fra orizzontale e verticale temporale. 
La serie inglese Black Mirror parte da queste riflessioni e cerca di rappresentare possibili scenari futuri dell’evoluzione sociale umana. Due stagioni, sei episodi totali più uno speciale di Natale. Ogni puntata è autonoma, non condivide con le altre personaggi, storie e nemmeno lo stesso mondo d’ambientazione. Filo conduttore forte è però la rappresentazione di un futuro prossimo in cui si modificano di volta in volta gli equilibri sottili che regolano il nostro rapporto con i media e la tecnologia. I media, social media in primis, visti come un ambiente sempre più simile a una prigione; una realtà succedanea, se non sostitutiva, di quella quotidiana. Come affermato da Marshall McLuhan, la tecnologia modifica la natura delle interazioni e il loro sviluppo. Lo plasma e ridefinisce. Riflettendolo in modo differente verso l’esterno come, appunto, uno specchio. E prendendo in nostri sensi come una base, un’estensione della loro attività per mantenere un controllo maggiore e più efficace sui nostri pensieri e azioni. “Archimede disse una volta: «Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo». Oggi ci avrebbe indicato i nostri mezzi di comunicazione elettronici dicendo «Mi appoggerò ai vostri occhi, alle vostre orecchie, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io». […] Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre” (McLuhan, 1990).

Ogni episodio di Black Mirror rappresenta, a suo modo, una critica alle possibili evoluzioni ed estremizzazioni di fenomeni già presenti e radicati nella nostra quotidianità. Ecco così Waldo, un pupazzo animato, arrivare secondo alle elezioni locali inglesi, finto quanto i suoi antagonisti, capace del populismo più spinto tipico di alcune forze presenti anche nel panorama politico italiano. Che non sono dei cartoni animati. O la crisi di una coppia, che può condividere le memorie personali come fossero file su una pendrive, e che scopre così sensazioni e desideri reciproci. E, ovviamente, bugie e tradimenti. Un mondo che sembra lontanissimo, ma basterebbe vedere le crisi generate dall’avvento di due linee blu su un messaggio di Whatsapp per capire che è più prossimo di quanto sembri. Isaac Asimov che incontra George Orwell e Aldous Huxley, in un continuo aggiornamento dei modelli classici della letteratura di fantascienza all’evoluzione della società 3.0. Charlie Brooker, creatore della serie, prospetta mondi talmente prossimi al nostro per vicinanza tecnologica che risulta particolarmente credibile nella sua rappresentazione. E per questo ancora più spaventosamente coinvolgente. 
L’episodio più ferocemente critico nei confronti di una spettacolarizzazione dell’esistenza delle persone, e, in un certo senso, più apocalittico nei confronti della tecnologia, è Fifteen Million Merits – 15 milioni di celebrità.
In un mondo ormai orientato al virtuale, come in un’attualizzazione del concetto di energia e forza lavoro marxista, si pedala per dare energia alla società. Pedalando, come in un videogioco, si ottengono crediti con cui comprare oggetti per il proprio sostentamento e per il proprio avatar. Come in Metropolis di Lang, gli individui sono totalmente spersonalizzati, ma è nel consumo che possono trovare una propria identità, almeno per l’alter ego virtuale, per il quale esistono milioni di personalizzazioni. Il corpo fisico perde qualità al contrario di quello virtuale, esaltato nella sua originalità da acquisire. Chiunque, per impossibilità di guadagnare e quindi di essere attivo nella società, non corrisponda a un certo standard è relegato in un infernale reality show dove gli obesi sono costantemente bersagliati. La pubblicità raggiunge un nuovo livello semantico della parola invasiva e la pornografia diviene un elemento di distrazione di massa, calmiere della tensione sociale generata dal volere costante di consumo.
Un costante desiderio di ascesa che non riguarda tutti, anzi pochi eletti, che tramite un reality possono diventare famosi, e quindi, anche nel loro corpo fisico oltre che virtuale, unici e distinguibili. Ma che, allo stesso tempo, intrappola nella visione e nella fruizione gli altri, inconsapevoli fruitori di qualcosa che perpetua un sistema di regole nel quale sono profondamente imprigionati.

Bing Manson è un ragazzo diverso dagli altri. Vive in un ambiente che non riconosce come proprio e si disinteressa rapidamente di ciò che ha attorno. Corre, guadagna molti soldi con la sua forma fisica perfetta, ma non spende le sue risorse in futili intrattenimenti. Quello che basta per alimentarsi, quello che permette di saltare le pubblicità più invasive di un mondo mediale che costringe a vedere i suoi contenuti e che inizia a far suonare gli allarmi se l’occhio si allontana dallo schermo. Non ama i reality, non ama prendere in giro i ciccioni, gli scarti della società, le persone che non possono produrre energie con lo sforzo fisico. Vorrebbe qualcosa che correndo non può ottenere. Qualcosa di vero che i soldi, i crediti virtuali, il porno che è proposto in ogni angolo della sua stanza-cella non possono comprare o vendere. Un sentimento, l’amore, il cuore che batte. Verità, naturale propensione verso l’altro, empatia.
Un giorno incontra Abi Carner. Bella, semplice, simile a lui per occhi e animo. La ama di nascosto, poi sempre più in maniera manifesta. La sente cantare, percepisce subito la sua bravura, capisce che lei ha un sogno vero, quello di diventare qualcuno attraverso il talent show di punta della televisione. E per questo spende tutti i suoi soldi per lei, per farla arrivare su quel palco, a cantare per il suo pubblico. Abi è un usignolo ma non è abbastanza sfacciata, non ha quel fattore X di cui si parla da anni anche nelle nostre televisioni nazionali. E quindi la proposta per raggiungere la fama deve passare per la strada del porno, della perdita dell’innocenza, della sua anima. Lei si vende e Bing perde il suo amore, la sua gioia, il suo tutto. Ora lo schermo si riempie non solo di menzogna, ma anche di quel volto un tempo suo che vive tutta la sconcezza delle situazioni oscene in cui si trova. Il mondo, quel mondo corrotto ha depravato un angelo, lo ha trasformato in una prostituta.
Ci vuole tempo ma lui riesce a guadagnare di nuovo i soldi per un nuovo biglietto del talent. Questa volta per lui. Per uccidersi in diretta, dopo aver detto a tutti quanto male vi sia in quel mondo finto e depravato che vive di illusione e bugie, su sogni di cartone che premiano solo i meno meritevoli e qualche fortunato. La sua scena madre potrebbe sconvolgere l’intera esistenza della società, portare a un nuovo equilibrio. E invece nulla accade. Se non il fatto che anche lui, il ribelle, l’antagonista, diventa un personaggio famoso, capace di usare il suo slogan per vendere prodotti e alimentare quella società che forse, dentro di sé, Bing Manson odia ancora ma di cui ora fa parte a pieno titolo.
Il sistema, ancora una volta, come in Matrix (1999), come sempre, ha saputo gestire l’imprevisto e trasformarlo in parte della sua struttura; un albero che trae forza dalle direzioni prese dai suoi rami, anche se diverse da come erano state immaginate inizialmente. La forza di prevedere l’imprevedibile, e di aver educato anche il dissenso a rendersi parte del mainstream. Questo è saper riflettere e deformare; questo, o anche questo, significa essere un black mirror.

 


 

LETTURE

  Franco Ferrarotti, La tentazione dell'oblio, Laterza, Bari-Roma, 1993.
  Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori, Milano, 1991.
  Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano, 1990.
  Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna,1985.
  Paul Ricoeur, Ricordare, Dimenticare, Perdonare, L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna, 2004.

 


 

VISIONI

  Andy Wachowski, Lana Wachowski, Matrix, WHV, 2014 (home video).