di Emiliano Chirchiano
È difficile contraddire Ricky Gervais quando
afferma che “Louis C.K. è il miglior stand-up
comedian del mondo”. Louie, la serie
omonima e autobiografica da lui diretta e interpretata, trasmessa dal
piccolo network FX, rappresenta un punto di svolta epocale
nell’evoluzione della sit-com.
Louie,
come e meglio di Seinfeld (l’unica serie
che in qualche modo gli si avvicina per sensibilità
narrativa) ha fatto per il genere comedy
ciò che negli anni Duemila hanno fatto i Sopranos
per il genere drama. Ha ridefinito completamente la
geografia del genere, ridisegnandone i confini, abbattendo consuetudini
e aspettative.
Louis C.K. (acronimo che in inglese
suona come Szekely, il suo cognome, che tradisce le sue origini
mitteleuropee), come un one-man band, firma
sceneggiatura, regia, montaggio e musiche di una serie di cui
è anche attore protagonista. Lo fa senza filtri, con la
curiosità e l’entusiasmo che contraddistingue la
sperimentazione del principiante. Così è facile
trovarsi in situazione surreali e subito dopo in momenti autenticamente
drammatici che prendono il largo dai tropi familiari del genere comedy.
Le nuance della sua comicità, per
intenderci, si aggirano tra il Woody Allen degli esordi e Massimo
Troisi.
La terza stagione di Louie volge alla conclusione con
il triplo episodio intitolato Late Show. Partendo
dal – profetico – presupposto del pensionamento di
David Letterman, Louis ci introduce alla sua visione delle dinamiche
che regolano lo showbiz televisivo. Lo fa col suo
tipico sguardo surreale, tra manager paradossalmente adolescenti e
intermezzi comici, ma soprattutto accompagnato da un coach
d’eccezione che lo prepara allo scontro finale con Jerry
Seinfeld per la conquista dell’ambitissima poltrona del Late
Night Show.
Anche se a prima vista può
non sembrare evidente, Louis C.K. in questo episodio non fa altro che
confezionare un lungo quanto sentito omaggio al Rocky
di Sylvester Stallone. Come Rocky, Louie
è un talento sul viale del tramonto, uno di quelli che non
ha mai realizzato a pieno le sue potenzialità, che si trova
di fronte all’opportunità della vita: condurre il Late
Night Show al posto di David Letterman. Nel percorso in cui
supererà le sue paure fino ad affrontare lo scontro finale
(la cosiddetta “puntata zero” del talk show)
sarà accompagnato da uno straordinario David Lynch,
nell’inusuale ruolo di coach. La scelta
di Lynch non è stata semplice né scontata: dopo
una lunga sequela di no (da Ben Gazzara “morto un minuto
prima che potessi contattarlo” come dichiara ironicamente lo
stesso C.K. in un’intervista concessa al New York
Times, a Woody Allen, da Al Pacino a Martin Scorsese) la
scelta di Lynch appare quasi un ripiego casuale. Dopo aver visto
l’episodio, però, ci sembra l’unica
scelta possibile.
Non è fondamentale, però, riconoscere
tutti i paralleli col film di Stallone; questo triplo episodio,
infatti, rappresenta molto più di un semplice omaggio. Louis
C.K. ne recupera la struttura narrativa per raccontare una storia
universale che mette a confronto due paure, ugualmente paralizzanti:
quella di perdere, ovvio, ma anche quella di vincere. Entrambe
dirompenti per gli equilibri consolidati.
Non
riveleremo– facendo esercizio della sempre più
diffusa pratica di spoiling – come
andrà a finire la puntata, anche se il paragone con il
pluripremiato film del 1975 può dare qualche involontaria
anticipazione. Quel che resta, dalla visione di questo triplo episodio,
è la testimonianza di aver assistito a qualcosa di
inaspettato in una serie televisiva inquadrata nel genere comedy,
orientata, quindi, alla risata e all’intrattenimento.
Nel
panorama mediale post-televisivo è facile trovare sovvertite
le regole del gioco narrativo. Il genere è un dispositivo
che dovrebbe funzionare, innanzitutto, da informante per lo spettatore,
preparandolo alla fruizione del testo e restringendo la
complessità del panorama televisivo ad unità
discrete facilmente individuabili. Il dialogo tra generi,
però, è una caratteristica oggi sempre
più diffusa, rendendo sempre più arduo il compito
di chi vuole assegnare etichette di comodo. Il concetto stesso di
genere, in un contesto come quello attuale che vede ridotta
l’importanza della televisione generalista, presuppone una
costante ibridazione e ri-combinazione all’interno delle
narrazioni (cfr. Grignaffini, 2004).
Perfettamente calata nel suo ruolo di zeitgeist,
Louie è una serie cangiante, mutevole, che cambia da
episodio a episodio fondendo, senza soluzione di continuità,
pathos, commedia e cinismo. Dialoghi surreali e situazioni grottesche
si alternano a picchi di comicità e intermezzi musicali
meticolosamente disposti nei momenti cardine della puntata, rendendo
l’insieme inaspettatamente equilibrato.
L’alternarsi surreale di battute su peti e masturbazione con
profonde e amare riflessioni sulla morte, l’amore e la
solitudine compongono un caleidoscopio emozionale che sembra, in
sintesi, mostrarci quanto la vita possa fare malinconicamente schifo
ma, allo stesso tempo, essere piacevole e divertente. Uno stile che ci
ricorda, più di ogni altro, James Joyce.
Lo
scrittore irlandese, con il suo iper-realismo, ha reso
l’esperienza della coscienza così fedelmente da
far sembrare le altre raffigurazioni curiosamente artificiali, come
dipinti medioevali antecedenti all’invenzione della
prospettiva. Le sue opere hanno rifondato il genere del romanzo,
mettendo in risalto la psicologia umana colta all’interno
delle realtà quotidiane.
Louis C.K., come Joyce,
rappresenta la realtà osservandola tramite una lente
distorta, sfocata, incrinata – come accade per tutte le
narrazioni, siano esse scientifiche o letterarie – mettendo
in luce la sua personalissima visione del mondo. Joyce ha incentrato le
sue narrazioni in un luogo preciso e riconoscibile, Dublino; allo
stesso modo in Louis C.K. è inconfondibilmente legato alla
città metropolitana per eccellenza: New York City.
Lo
stand-up comedian newyorkese non è stato
il primo ad adagiare la propria comicità su un sotto-testo
filosofico. Prima di lui, nell’ambito della tradizione degli
stand-upper americani, ricordiamo Bill Hicks e soprattutto George
Carlin.
Entrambi semi-sconosciuti al pubblico
italiano, ci sono stati raccontati – in forma mediata
– da alcuni comici nostrani che ne hanno ricalcato lo stile
(e qualche volta, anche le battute) come ad esempio Daniele Luttazzi,
che ne ha spesso tradotto le opere nei suoi
spettacoli teatrali.
La loro satira caustica e corrosiva, il
loro acume irriverente si è avventato contro le certezze
della middle class americana. Insieme hanno
ampliato i limiti del linguaggio televisivo allargandolo ad argomenti
precedentemente considerati tabù come religione e sesso.
Szekely
è stato, a nostro modo di vedere, il primo a riuscire a
sublimare questo complesso tipo di fare umorismo all’interno
della serialità televisiva, e a rivoluzionare –
forse inconsapevolmente – l’intero genere comedy.
Da Louie in poi.
LETTURE
— Giorgio Grignaffini, I generi televisivi, Carocci, Milano, 2004.
— James Joyce, Ulisse, Einaudi, Torino, 2013.
VISIONI
— George Carlin, George Carlin: Best Stuff, Anchor Bay Entertainment, 2010 (home video).
— Bill Hicks, Totally, Channel 4dvd, 2002 (home video).
— Jerry Seinfeld, Larry David, Seinfeld: The Complete Series, Sony Pictures Home Entertainment, 2012 (home video).
— Sylvester Stallone, Rocky, MGM, 2014 (home video).