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di Sergio Brancato

 

Lo scioglimento della trama, ovvero la conclusione cui una storia deve giungere al termine del proprio percorso di senso, rimanda alla necessità di produrre un universo ordinato. È questo l’obiettivo cui tende la pratica del narrare, come ben sanno gli studiosi che da diversi versanti scientifici – dalla paleoantropologia alle neuroscienze passando per la sociologia – puntano la loro attenzione sull’attitudine della specie a realizzare racconti, individuando in tale comportamento qualcosa a metà strada fra la sfera della tecnica e quella degli istinti (cfr. Gottschall, 2014). A partire dall’origine ancestrale del mito, dunque di ciò che per alcune prospettive teoriche costituisce un salto antropologico legato ai processi evolutivi, la narrazione è volta a edificare dispositivi culturali atti a mettere in ordine la natura sostanzialmente caotica del mondo. La finzione del narrare, in altri termini, costituisce la prospettiva di una possibile realtà condivisa attraverso le pratiche della comunicazione (cfr. Campbell, 1958; Dupont, 1993; Harari, 2014).
Quando la modernità industriale si incardina intorno ai media di massa – da se stessa generati, e che a sua volta la generano e la rigenerano – le forme del narrare incamerano l’ideologia della fabbrica e la rilanciano in direzioni innovative quanto impreviste, sebbene sempre dentro la dimensione semantica del racconto. Il romanzo borghese, autentica macchina della produzione del senso moderno, da un lato partecipa alla definizione dei processi di individualizzazione (dunque sostiene la messa a punto dei soggetti sociali emergenti e dei loro “inquieti” comportamenti), dall’altro disegna l’ideologia del conflitto che investe la relazione tra individuo e massa nell’avvento dello spirito del tempo metropolitano. Per acquisire i significati della modernità, quindi, l’analisi del romanzo è fondamentale: avendo l’accortezza di investigarne non solo (come di norma fanno le storie della letteratura o le sociologie che ad esse si subordinano) il piano dei contenuti ma anche – e forse soprattutto – quello della forma e dei suoi meccanismi di funzionamento.
Tra i dispositivi che fondano l’esperienza storica del romanzo borghese rientrano tutti gli aspetti relativi alla sua natura seriale, che non investe unicamente il feuilleton – ovvero quella particolare struttura narrativa a puntate, legata all’emergere della stampa periodica di informazione e caratterizzata dalla dilatazione del tempo di consumo su archi tensivi ciclici – ma tutta un’idea di produzione letteraria ormai entrata nella sfera d’azione del mercato dei consumi culturali, dei suoi apparati e dei suoi pubblici. La serialità è il cuore dei processi costitutivi della cultura di massa, come sosteneva Alberto Abruzzese nei primi anni Ottanta del secolo scorso, fondando – anche se oggi sembra siano in pochi a saperlo oppure a volerlo rammentare – gli studi italiani su tali argomenti (cfr. Abruzzese, 1984). E dunque, per ragionare sulla trasformazione dei racconti audiovisivi – che nella cultura del romanzo reperiscono la loro originale fondazione (cfr. Ejzenstejn, 2003) – non si può non partire dalla negoziazione sui termini della realtà sociale che si verifica nei territori della scrittura di massa.

Lo scioglimento della trama, perciò, è quel particolare dispositivo che risponde alla necessità di chiudere il testo nella sua sostanziale episodicità, funzionale al quadro delle relazioni tra individuo e immaginario. Ma questa chiusura non è mai definitiva. Nessun racconto, in altri termini, può considerarsi “chiuso” poiché inserito in una complessa rete di scambi simbolici che ne moltiplicano il piano di esistenza. Il mondo ordinato che chiude la narrazione romanzesca è pertanto destinato a disordinarsi nuovamente nell’azione desiderante del consumo, che riscrive costantemente la materia della storia riorientandone gli esiti. La scrittura seriale non è dunque soltanto l’organizzazione di un lavoro intellettuale che si prolunga nel tempo, così aderendo in forme peculiari alla vita quotidiana, intercettando la sensibilità dei fruitori e incamerandone le istanze: è anche l’attualizzazione di un’idea del narrare in cui la fine (il fine) del testo si realizza in uno spazio di costruzione collettiva del senso.
La morale che, per consolidata convenzione, chiude la fiaba costituisce l’incontro tra l’individuo e la comunità di appartenenza su un piano normativo in grado di conciliare i conflitti sociali in atto. Dentro le “macchinazioni” dell’industria culturale, il finale di una storia recupera assetti praticabili dell’esistenza nei deficit connettivi della società di massa: la trama si scioglie decostruendo i conflitti e riassegnando il fruitore a una identità condivisibile, a un senso di appartenenza. Lo riallinea con il mondo. Le tensioni costitutive del testo vengono calmierate nell’affermazione ideologica di un significato: quello che l’esperienza umana abbia un senso, dunque che sia possibile all’individuo moderno – portatore di un disagio legato all’alienazione della vita metropolitana – ridefinire in termini moderni il problema della morte.
Sebbene alcuni studiosi abbiano tentato una rassicurante schematizzazione dei finali delle serie, in particolare di quelle televisive (Cfr. Mittel, 2015), il problema della fine della storia non è risolvibile nel quadro teorico di una sociologia di radice amministrativa. Ogni schema (come ogni tassonomia) è destinato alla verifica incerta dei mutamenti di sistema, che nel campo mediologico sono estremamente rapidi. In particolare, il campo della narrazione post-seriale – ovvero di quelle forme di racconto che riverberano il radicale passaggio in atto dalle comunicazioni di massa agli scenari mutevoli del web – il finale diviene il punto nevralgico in cui si annodano le direttrici critiche di strategie che non hanno ormai più luogo all’interno della dimensione organizzativa dell’industria culturale e nell’orizzonte dei suoi valori (cfr. Brancato, 2014).
Le narrazioni seriali classiche, quelle che prendono corpo nel corso del secolo XIX, non ponevano al centro della planimetria del testo le modalità della sua chiusura. La serie era intesa come lineare svolgimento di una relazione tra figure e ambienti, alimentata dalla messa in atto di conflitti morali inerenti l’individuo ed i processi di socializzazione. La struttura, in tal senso, non è molto distante dalla morfologia del mito, sebbene il contesto comunicazionale – dunque la produzione e la percezione collettiva del testo – corrisponda a coordinate semantiche di differente natura culturale: le storie possono anche conservare i medesimi calchi strutturali, ma gli uomini cui si rivolgono rispondono in maniera differente poiché gli individui moderni intrecciano differenti relazioni tra le parole e le cose, quindi con la stessa idea di conoscenza.

In molte narrazioni seriali, pertanto, il finale non costituisce problema e spesso non viene nemmeno realizzato: in moltissimi casi, le serie semplicemente si esauriscono, le loro trame svaniscono nel nulla, stagliate sulla vaghezza dell’orizzonte come i cowboy nei film di John Ford: non a caso, un genere mitologico legato alla formalizzazione attribuitagli da un regista mitico. È solo molto tardi che – specie in ambito televisivo – ci si pone il problema di uscire dalla indefinitezza del mito. Ciò accade quando i testi seriali si legano a racconti che non possono non contemplare una chiusura, uno scioglimento. Nei casi de Il fuggitivo o de Il prigioniero, due importanti quanto innovative serie degli anni Sessanta, i personaggi devono trovare soluzione alla rete di conflitti in cui sono immersi: nel primo esempio, trovando il vero colpevole dell’omicidio che è stato erroneamente attribuito al protagonista, trasformandolo in un latitante in lotta sulla faglia tra due fronti antitetici (la legge che lo perseguita ingiustamente e il crimine che lo minaccia); nel secondo, scoprire il senso del complotto che ha portato il protagonista a essere imprigionato in un simulacro paradossale della società dei consumi di massa e del controllo cibernetico. Le domande che innescano il processo di serializzazione narrativa devono, in questi casi, reperire una risposta in grado di contenere l’architettura del racconto, rispettando il contratto siglato tra produzione e consumo, cioè quello di procedere per episodi distinti (serialità verticale) dentro il mainstream della linea narrativa basica, dotata in sé di caratteri lineari (serialità orizzontale). L’ideologia che fonda un microcosmo narrativo deve sempre risultare coerente.
In tale prospettiva, come si è appena affermato, sono in gioco i due fondamentali livelli operativi della serialità: la struttura della narrazione orizzontale e la struttura della narrazione verticale. Per fare un esempio, sul versante dei comics il modello di serialità della DC – la casa editrice di Superman, Batman e così via – è prettamente verticale, cioè episodico, sospeso in una temporalità in cui la memoria di ciò che avviene è destinata a perdersi, trasfigurandosi in una mitologia di massa in cui l’eroe appare votato alla ripetizione coreografica della propria azione, all’infinito ritorno dell’identico. Per contro la Marvel, maggiore concorrente della DC, la “casa delle idee” che dagli anni Sessanta ne ha oscurato il primato, ha riscritto il funzionamento dell’immaginario supereroico attraverso l’assunzione di una continuity, ovvero di un tempo storico coincidente con il vissuto dei lettori. Ciò ha garantito a personaggi come Spiderman o i Fantastici Quattro di prosperare nel tempo della televisione e dei suoi sempre più sofisticati meccanismi di serializzazione. Meccanismi in cui al potere attrattivo del microcosmo finzionale, tipico di ogni modello di racconto, si associa una attitudine alla complessità psicologica dei personaggi – fin lì retaggio delle forme “alte” della letteratura – che ridisegna l’ordine dei rapporti tra individuo e opera. Le figure della serialità assurgono alla possibilità di narrare storie sempre più destinate a un pubblico – un insieme complesso di pubblici – che si allontana dai modelli originari della cultura di massa, votati all’irreggimentazione dell’individuo metropolitano, e si evolve lungo le direttrici di una frammentazione culturale sempre più avanzata.
Quando la narratività televisiva comincia a porsi il problema di superare le tradizionali logiche dello standard che fin lì l’avevano inevitabilmente governata, modellandone forme e funzioni, ciò cui si assiste non è solo l’effetto di un mutamento mediatico, ma una vera e propria trasformazione del sistema culturale. Nella rinegoziazione formale dei racconti seriali non c’è solo il transito verso la post-televisione, ma un autentico salto verso nuove dimensioni dell’abitare, dunque del percepire e del narrare la realtà sociale. Un nuovo individualismo prende corpo, dando vita a modelli di racconto caratterizzati dall’ibridazione dei generi, dall’ironia produttiva del consumo, da inedite forme di serializzazione dei testi.

Il passaggio dalle vecchie tv-series alla narrazione post-seriale, dunque, ci permette di riflettere sui mutamenti tecno-culturali dei media in relazione ai processi complessivi della trasformazione sociale. In virtù della crisi della televisione generalista, causata dalla moltiplicazione delle piattaforme mediali, i racconti audiovisivi hanno affrontato una radicale rifondazione dei propri statuti estetici e produttivi, passando dalla ricerca dello standard (il grande tema della ripetizione connessa alle dinamiche di massificazione) a quello di una nuova qualità creativa, in grado di recepire e restituire le istanze generali di differenziazione. Sul filo di un precario e difficoltoso equilibrio, a partire dal 1990 e dal salto che si genera nella scrittura seriale/autoriale di Twin Peaks a opera di David Lynch e Steve Bochco, le narrazioni telefilmiche si spostano verso territori formali e contenutistici del tutto nuovi, addentrandosi in terre fin lì incognite per i media audiovisivi di massa (cfr. Brancato, 2011). L’emergere di una nuova accezione di fiction seriale non è soltanto frutto delle trasformazioni tecnologiche che investono il sistema dei media alla fine del Novecento. Ma, certo, il fatto di non essere costretti a una medietà in grado di contenere l’accezione di pubblico di massa favorisce la diversificazione e lo slittamento progressivo delle tv-series verso la vetta qualitativa delle grandi narrazioni collettive (cfr. Bandirali, Terrone, 2012). Diventa possibile, nel nuovo contesto post-televisivo, affrontare tematiche dapprima letteralmente impensabili. Con Sex and the City, ad esempio, è possibile assistere alla scrittura del retroscena intimo di una comunità di amiche, che esibiscono una disinvoltura fin lì interdetta nella conversazione riguardante l’affettività e la sessualità. La lingua del telefilm si evolve oltre le soglie convenzionali della censura. Nata per un canale via cavo assai mobile nel quadro produttivo del decennio, la HBO, questa serie è rapidamente debordata sui palinsesti generalisti, contaminandone la dimensione espressiva e registrano un effetto non irrilevante nello spostamento dei confini del linguaggio televisivo (cfr. Brancato, 2010).
Le nuove narrazioni post-televisive illuminano zone ancora oscure nella rappresentazione della vita quotidiana, spingendosi oltre i confini tematici del film, ma soprattutto articolando il racconto al di là della struttura aristotelica in tre atti. Tra i molti esempi a disposizione, spicca quello de The Sopranos, creato sempre per la HBO da David Chase, che negli anni Ottanta aveva scritto per il cinema un soggetto su di una famiglia mafiosa. Quell’idea restò nel cassetto per anni prima di approdare alla serialità televisiva nel 1999, puntando sulla forte identificabilità del cast e delle location, ma soprattutto su di una crudezza espressiva che non aveva precedenti nelle vecchie età della televisione (cfr. Sepinwall, 2014).
Durata sei stagioni, la serie di Chase riscosse polemiche e successo in egual misura, sfidando costantemente l’idea del limite entro cui tenersi nella messa in scena della società americana e della sua complessità. L’intreccio è noto: Tony Soprano, capo di una famiglia mafiosa del New Jersey, gestisce attività legali e illegali vivendo un quotidiano fondato sull’ambiguità dei propri modelli di comportamento. L’esercizio violento del potere lo logora, sino a provocargli degli attacchi di panico che lo spingono a ricorrere, in segreto, alle cure di una psicanalista, anch’essa italoamericana. La donna tenta di fargli comprendere la natura irrisolta dei rapporti tra Tony e i genitori, in specie la madre, figura archetipica e castrante. Tutta la vicenda si fonda sulla riluttanza di Tony a fare i conti con se stesso, a leggersi in quanto persona – dinamica, questa, che ovviamente il personaggio condivide con lo spettatore.
Il nesso tra costruzione dei personaggi e struttura narrativa è ne I Soprano, forse per la prima volta in tal misura, del tutto fondante. Come sostiene Nicola Lusuardi, la serie di Chase è “il momento nel quale la forma seriale prende compiutamente possesso del proprio oggetto narrativo primario. Diventa consapevole cioè che la struttura di un racconto che problematizza il cambiamento mettendone in scena l’eterna tensione è la struttura che la drammaturgia attendeva per riuscire a focalizzare il conflitto e l’emozione – dunque la catarsi – sull’ethos dell’uomo occidentale” (Lusuardi, 2008). La lotta di Tony – come accade anche a Michael Corleone in quello straordinario film sulle forme basiche del potere che è la trilogia de Il Padrino – contro il proprio fato incamera non solo la potenza genetica del mito, ma anche l’indeterminatezza della crisi della modernità, che forse solo nelle testualità post-seriali riesce a divenire narrazione socialmente condivisibile. Laddove la struttura del film – e, in parte, del romanzo (cfr. Ejzenstejn, 2003) – aveva funzionato nell’affermazione di un pensiero forte sul mondo, la post-serialità concede alle nuove soggettività storiche di fissare la condizione di un individuo costantemente sospeso tra presente e futuro, nel quadro di una irrisolutezza che è l’unica possibile esperienza dell’esserci.

Intitolata Made in America, la puntata 21 della sesta stagione dei Soprano va in onda in America il 10 giugno del 2007. Non era stata annunciata se non poco tempo prima, e sancisce la volontà da parte della produzione di chiudere la serie. Se I Soprano era stata caratterizzata dal fatto di essere la prima serie televisiva scritta senza tener conto della tradizionale grammatica del climax, fondata sulla presenza delle interruzioni pubblicitarie, l’idea di procedere a un finale definitivo non è per contro nuova. Quel che è certo, è che nessuno aveva mai pensato prima a un compimento così esteticamente efficace e funzionale alle tematiche trattate dal racconto (cfr. Bovalino, Furfaro, 2012). Per molti versi, il finale della serie coincide con lo spostamento filosofico novecentesco della percezione sociale della morte.
La scena di chiusura de I Soprano, lunga circa quattro minuti e mezzo, è nota: sempre più ingarbugliato nella trama/matassa della propria vita, incapace di fare i conti con l’incompiutezza tra desiderio e destino che ne fa un uomo profondamente infelice, Tony arriva al ristorante in cui ha appuntamento con la propria famiglia. È l’incipit perfetto di un’ultima cena, in cui lo spazio ristretto della convivialità intorno al cibo include il disagio biografico dei personaggi ma anche il senso di una minaccia indefinita che viene dall’esterno (cfr. Muscio, 2005). Giunto in anticipo, Tony siede, sfoglia il menù e poi infila una monetina nel piccolo juke-box posto sul tavolo. Sceglie Don't Stop Believin’ dei Journey, una canzone sulla disperazione urbana in cui spicca un verso – Oh, the movie never ends (Oh, il film non finisce mai) che sembra intrecciarsi intimamente alla situazione rappresentata, portando la colonna sonora su un piano paratestuale. Annunciata, come tutti gli altri clienti, dal campanello posto sulla porta del ristorante, entra la moglie Carmela. Poi, seguito dallo sguardo sospettoso di Tony, fa in suo ingresso un uomo che siede al banco e sembra, a sua volta, osservarlo. Infine arriva il figlio A.J., che siede con i genitori e ricorda a Tony una frase che questi una volta gli aveva detto, “ricorda i momenti belli”.
Sottilmente, fra tensione trattenuta e frasi lasciate cadere lì come per caso, la scena costruisce il proprio senso, divenendo una sorta di chiave di volta atta a tenere insieme la complessa architettura del testo seriale. La distanza tra questo e i precedenti modelli della scrittura audiovisiva è davvero enorme, ma nulla prepara lo spettatore al finale. La canzone dei Journey continua, scandita ciclicamente dal campanello che indica l’ingresso o l’uscita di qualcuno. Mentre all’esterno la figlia Meadow, autentica progenie di Tony, giunta in ritardo, fa fatica a parcheggiare l’auto, entrano due afroamericani, seguiti dal capofamiglia con contenuta attenzione. Poi l’uomo seduto al banco si alza e si dirige verso il bagno, scambiando un’occhiata con Tony. Meadow, all’esterno, ha finalmente parcheggiato e si dirige veloce verso l’ingresso. La sua ansia accresce il sentimento dell’attesa, poiché a questo punto è evidente che qualcosa stia per accadere. All’interno, la campanella suona ancora una volta, attirando in macchina lo sguardo di Tony.
E qui accade l’inatteso, la geniale intuizione narrativa degli sceneggiatori: lo schermo diventa di colpo nero e silenzioso, un improvviso vuoto che cala sulla narrazione. Trascorrono dieci secondi, poi partono i titoli di coda. Il racconto è chiuso, la serie è finita. Tony è morto? L’uomo misterioso è tornato dalla toilette e l’ha ucciso? O sono stati i due afroamericani? O qualcuno che è stato sottratto allo sguardo e alla consapevolezza dello spettatore? O si tratta semplicemente di un taglio netto che spezza la storia svelando l’inganno implicito nelle tradizionali disposizioni drammaturgiche della fine? Le domande, e le implicazioni a esse sottese, sono molte.
L’attesa per questa annunciata chiusura ha prodotto una vasta audience, quantificabile in circa 12 milioni di spettatori, che per una tv via cavo costituì all’epoca un record. Il dibattito e le polemiche sulla natura del finale, sul modo oscuro in cui si pone il problema di sciogliere la trama, non tengono tuttavia conto del fatto che tutta la serie si fonda su di una estetica dell’incompletezza. Tony non riesce a reggere il confronto con il proprio passato poiché non può più condividere l’ideologia ferale del padre e della madre, ovvero il fatto di essere solo una maglia nella catena organica della famiglia. La sua insoddisfazione non potrà essere placata da nessun esercizio di potere, poiché il mondo in cui è cresciuto rivela la propria obsolescenza, chiaramente restituita nel look e nel linguaggio dei personaggi comprimari, tutti al limite della parodia. Tutti tesi a sfidare il senso sfuggente del presente. L’idea che il buio – come peraltro anticipato da una battuta dello stesso Tony a inizio stagione – possa restituire una rappresentazione della morte del personaggio, tanto più efficace in quanto contrapposta ai toni spesso splatter delle altre morti della serie, non completa (e chiude) la trama del racconto ma la sua dimensione ideologica, talmente avanzata da essere fraintesa e ridotta alla sopravvivenza di un genere, la gangster story, mentre invece si proietta con cruda coerenza verso le narrazioni del futuro.

 


 

LETTURE

  Alberto Abruzzese (a cura di), Ai confini della serialità, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1984.
  Luca Bandirali , Enrico Terrone, Filosofia delle serie tv. Dalla scena del crimine al trono di spade, Mimesis, Milano 2012.
  Bovalino G.N., Furfaro C., I Soprano. L’estetica quotidiana del male, in Fabio La Rocca, Andrea Malagamba, Vincenzo Susca (a cura di), 2010.
  Sergio Brancato, La forma fluida del mondo. Sociologia delle narrazioni audiovisive tra film e telefilm, Ipermedium, Napoli, 2010.
  Sergio Brancato (a cura di), Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series, Liguori, Napoli, 2011.
  Sergio Brancato, Fantasmi della modernità. Oggetti, luoghi e figure dell’industria culturale, Ipermedium, Napoli, 2014.
  Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano, 1958.
  Florence Dupont, Omero e Dallas. Narrazione e convivialità dal canto epico alla soap-opera, Donzelli, Roma, 1993.
  Sergej Michajlovič Ejzenstejn, Dickens, Griffith e noi, in Id., La forma cinematografica, Einaudi, Torino, 2003.
  Jonathan Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.
  Yuval Noah Harari, Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani, 2014.
  Fabio La Rocca, Andrea Malagamba, Vincenzo Susca (a cura di), Eroi del quotidiano. Figure della serialità televisiva, Bevivino, Milano 2010.
  Nicola Lusuardi, La differenza seriale. Quello che il cinema non sarà mai capace di raccontare, in Script,
  Dino Audino, Roma.n. 46/47, anno XVI, inverno 2008 – primavera 2009.
  Jason Mittel, Complex Tv: The Poetics of Contemporary Television Storytelling, New York University Press, NY, Usa, 2015.
  Franco Monteleone (a cura di), Cult Series. Le grandi narrazioni televisive nell’America di fine secolo, Dino Audino, Roma, 2005.
  Giuliana Muscio, The Sopranos, in Franco Monteleone (a cura di), 2005.
  Alan Sepinwall, “All due respect”. I Soprano cambia tutto, in Id., Telerivoluzione, Rizzoli, Milano 2014.