di Tito Vagni
Il 19 novembre 1992 Italia1 trasmetteva il primo episodio di Beverly Hills 90210, una serie che avrebbe cambiato il modo di raccontare i giovani. Lo si capisce nell’episodio pilota, quando la camera indugia sulla villetta della famiglia Walsh originaria del Minnesota, ma trasferita a Los Angeles. Un incipit da romanzo di formazione sui generis: il dislocamento, la necessità di adattarsi ad un ambiente nuovo di cui comprendere usi e costumi, le cerchie di amici, i problemi sentimentali, lo studio. Si trattava di una serie generazionale. Un mito bandiera, lo avrebbe definito Edgar Morin, perché in grado di rappresentare la condizione giovanile di quegli anni e, allo stesso tempo, di esserne la guida. Una panoramica sui giovani che solo la televisione avrebbe potuto fare in maniera così minuziosa, sebbene il cinema avesse provato a raccontarne la voglia di imporsi, di spezzare la calma alleanza con la generazione dei padri. Ma la storia dei media insegna che ogni medium sostituisce quello che lo precede per la sua capacità di cogliere e determinare lo spirito del tempo. Una dinamica descritta da Slavoj Žižek, che attribuisce ai media la capacità di “dare luogo” allo spirito del tempo.
“Abbiamo qui a che fare con un altro esempio del ben noto fenomeno delle vecchie forme artistiche che premono contro i loro stessi confini e sviluppano procedure che, almeno dal nostro punto di vista retroattivo, sembrano tendere verso una nuova tecnologia, capace di
fungere da «correlato oggettivo» più «naturale» e appropriato alle esperienze di vita che le vecchie forme tentavano di esprimere attraverso le loro sperimentazioni «eccessive». Un’intera serie di procedure narrative dei romanzi del diciannovesimo secolo preannuncia non solo le forme narrative classiche del cinema (l’intricato uso del «flashback» in Emily Brontë o delle «dissolvenze incrociate» e dei «primi piani» in Dickens), ma qualche volta anche il cinema contemporaneo (l’uso del «fuoricampo» in Madame Bovary) – come se una nuova percezione della vita fosse già presente, ma fosse ancora alla ricerca dei propri mezzi di articolazione, e alla fine li avesse trovati nel cinema. Ci troviamo così di fronte alla storicità di una sorta di futuro anteriore: solo quando ha preso piede il cinema e ha sviluppato le sue procedure è stato davvero possibile comprendere la logica narrativa dei grandi romanzi di Dickens o di Madame Bovary” (Žižek, 2001).
Di questa citazione colpisce il riferimento alla
“naturalezza” con la quale alcune forme espressive
secondo Žižek riescono a tradurre l’atmosfera di una
società. È la stessa idea che traspare dai lavori
prodotti da Alberto Abruzzese negli anni Settanta, che potrebbero
aiutarci a comprendere tale dinamica dei media. In un saggio dedicato
al rapporto tra Hollywood e la letteratura, Abruzzese si sofferma sui
romanzi d’appendice, in cui individua, nella ricorrente
figura del detective, lo strumento degli scrittori per disarticolare la
linearità del racconto, per ri-organizzarlo, attraverso una
tecnica che ha in nuce i prodromi del montaggio cinematografico (1979).
Tanto basta a dimostrargli che si può indicare il rapporto
genetico tra letteratura e cinema come salto tecnologico
progressivamente compiuto dalle forme di trasmissione letteraria,
già tutte trasferite nella logica dei media, verso forme
ancora più avanzate che non vengono trovate dal
cinema, ma nel cinema trovano un più
ampio spazio di strutturazione e produttività sociale.
La
serialità televisiva, rispetto al linguaggio
cinematografico, può seguire i protagonisti da vicino,
scrutarne i cambiamenti, vedere le idiosincrasie e dedicare loro del
tempo per registrarne i mutamento. I personaggi sono più
reali perché la mimesi della realtà è
la cifra più evidente della serializzazione. Grazie a questa
ragione tecnica, ed ad altre legate alla all’economia dei
media, la televisione dipinge un affresco completo e suggestivo delle
nuove generazione soffermandosi sulla loro dimensione quotidiana.
Ciò che colpisce nei primissimi minuti
dell’episodio pilota di Beverly Hills 90210 è
l’attenzione agli oggetti di consumo: automobili, vestiti,
cappelli, scarpe, borse, che vengono esaltate con dei rallenti
che catturano l’attenzione. Considerata nel suo complesso, la
scena ha l’obiettivo di irretire lo spettatore con lo
splendore della merce che gli si riversa dal teleschermo. Immagini che
fanno sognare, bramare quello stile di vita, quegli ambienti, quei
rituali. Ma quelle stesse immagini viste oggi generano un effetto
differente. L’aura vintage che ricopre
quell’habitus rende la serie noiosa e lenta. Gli oggetti
messi in mostra sono diventati rapidamente obsoleti e la patina di
melanconia che fodera le immagini rende difficile la fruizione della
serie a distanza di un ventennio. Eppure si resta a guardare. La
sentimentalità è la sola ragione: rispetto alla
visione originaria nulla genera più l’effetto
voluto, non c’è nulla che attragga. Resta solo
l’impressione che l’industria culturale nel suo
incedere si lasci alle spalle rovine, pezzi di un mondo di sogno che
preserva la sua aura solamente nella reverie, ma ad
occhi aperti lo spettacolo è desolante. È vero,
come scrive Walter Benjamin nei Passages (2002),
che “ogni generazione vive la moda della generazione appena
trascorsa come il più potente antiafrodisiaco che si possa
immaginare”, ma l’estetica hollywoodiana degli anni
Novanta è stata spazzata via dalla sua stessa spinta
propulsiva, che ha abituato il pubblico ad un velocità
sempre maggiore, ad accelerazioni estetiche che relegano sullo sfondo
tutto ciò che superano. Si ha allora l’impressione
che queste visioni non generino che ferite, nella memoria,
nell’immaginario, nel proprio io. Per questo il consumo di
televisione dovrebbe restare effimero, come è sempre
avvenuto.
La fruizione televisiva – come in precedenza con la radio – è da sempre orientata dai palinsesti e dall’impossibilità di personalizzare interamente la fruizione. Alcune evoluzioni tecniche come il multicanale, il telecomando e il videoregistratore hanno mitigato la potenza dei broadcaster conferendo al pubblico la possibilità di personalizzare il consumo di televisione. In particolare, la possibilità di registrare i programmi televisivi ha avviato due pratiche tipiche dei nostri tempi: il timeshifting e il libraring; termini apparentemente inaccessibili che indicano semplicemente la possibilità di emanciparsi dalla visione in diretta di un programma e quella di costruire un archivio domestico di trasmissioni televisive, fruibili in ogni momento. La televisione, con l’ausilio del videoregistratore, assume la funzione di monitor che prima non aveva mai avuto, pur avendo inscritto nella propria tecnologia la possibilità di esserlo. La televisione come monitor anticipa quindi alcune delle caratteristiche essenziali del computer nell’era di internet, mettendo al centro l’utente spettatore che personalizza il consumo televisivo sulla base delle proprie necessità. Con il videoregistratore i prodotti televisivi perdono un’altra loro caratteristica determinante, la natura effimera. I programmi televisivi fino agli anni Ottanta sono stati delle stelle cadenti di cui si ammirava, incantati, il transito, senza avere la possibilità di appropriarsene. Oggetti effimeri, destinati a scomparire rapidamente dallo schermo e a rivivere solamente nell’immaginario dei pubblici alla visione. Le repliche di film, serie e spettacoli erano solamente palliativi applicati alla sofferenza di aver perso la possibilità di vedere i propri programmi del cuore. Quella televisione era ancora legata alla ricordanza, a quella pratica in cui la memoria seleziona solamente alcune scene che lascia sprofondare nel proprio io, facendole divenire carne vivente. Tutto il resto è destinato all’oblio. Beverly Hills 90210 è stata una serie pensata per una televisione dell’istante, è stata la quintessenza della moda, intesa come incessante processo di riconfigurazione. Dialoghi, ambientazioni, costumi dovevano impressionare hic et nunc, per poi dileguarsi per sempre. Gli studiosi dei consumi chiamano questo processo “obsolescenza dinamica”: l’industria produce in continuazione oggetti che innovano, migliorano o potenziano quelli già esistenti, con l’obiettivo di dare forma circolare al consumo. Anche alle serie americane si può applicare lo stesso principio: ogni scena, o persino ogni inquadratura, è destinata ad imporsi su quella che la precede e a farla dimenticare per essere immediatamente dimenticata a sua volta. Lo spettatore ha un ruolo attivo nella comunicazione con lo schermo: il suo sguardo si fonde con alcune immagini assorbite come frammenti della propria esistenza. È una presenza dal valore inestimabile, più rilevante della mera possibilità che la digitalizzazione ha conferito agli utenti, lasciandoli scegliere tempi e modi della fruizione.
La serialità televisiva
esplode prima che la televisione diventi un semplice schermo,
liberandosi dei suoi apparati, dei vincoli di fruizione per divenire
uno strumento neutro. Le nuove generazioni di utenti la scarnificano,
la privano di significato e la riducono a mero utensile a cui collegare
ogni tipo di dispositivo. Ma la serialità televisiva non
può che condurre a questo. La sua caratteristica struttura
modulare spinge lo spettatore a sbrandellarla e a consumarla senza
regole, al risveglio o a notte fonda, assecondando i propri istinti. Il
piacere della visione non può seguire i tempi della tv
generalista e la serialità televisiva asseconda questa
tendenza.
Grazie a questa nuova condizione di
accesso integrale, si possono continuamente vedere e rivedere vecchie
serie del passato. Tornando oggi su quelle immagini, le trame che un
tempo erano accattivanti, i personaggi rappresentativi, i dialoghi
affascinanti sembrano svuotati, privi di appeal. La televisione,
seppure morente, ha la caratteristica di modellare il nostro sguardo,
di educarlo, di abituarlo a delle estetiche precise. Tornare indietro
con la visione è una esperienza che terrorizza,
perché mostra come i nostri corpi siano imprigionati dalla
potenza delle macchine dell’audiovisivo. Una serie televisiva
di culto come Beverly Hills 90210 diviene a
distanza di poco tempo un oggetto obsoleto, che può
acquisire valore come documento storico o per la sua estetica vintage,
ma poco ha da dire del presente. La digitalizzazione
dell’audiovisivo può produrre effetti di coda
lunga, ottimi dal punto di vista del mercato, ma non altrettanto per la
fruizione. L’occhio dello spettatore è
sincronizzato sul presente, la vista del suo passato risulta
incomprensibile perché il cambio di linguaggio è
talmente evidente da non consentire alcuna mediazione.
La prima stagione di Beverly Hills 90210 è
dunque ingiallita: la merce esposta ha perso di splendore, le storie
che in passato sembravano intricate sono state superata dalla cronaca
del presente, i colori sgargianti sembrano impallidire rispetto agli
effetti luminosi delle produzioni attuali. La televisione invecchia,
perché concepita come prodotto effimero, l’occhio
si rigenera continuamente sotto i colpi di un audiovisivo sempre
più sofisticato. L’occhio raccoglie ogni mutamento
e lo assimila, e tale interiorizzazione è ciò che
ogni epoca definisce con il termine “naturale”.
È in questo modo che si genera il canone, lo strumento che
separa il bello dal brutto e determina i consumi culturali del
pubblico. Attraverso la digitalizzazione lo spettatore/utente
può riportare alla luce ciò che in passato
sarebbe rimasto nell’immaginario, vivendo come mito fuori dal
flusso del tempo, riattivato solo attraverso la memoria. Quando
riappare sullo schermo – che durante la giornata ospita
prodotti contemporanei pensati e realizzati per uno spettatore diverso
– quell’immagine si sottopone alla dinamica
temporale e perde il suo carattere mitico per divenire un oggetto di
banale materialità. Si pensi a Greta Garbo, “la
divina”: sempre uguale a se stessa al punto da destare
scalpore nel momento di un sorriso che si affermava come evento, e
già parte della storia del cinema. Perché Roland
Barthes in Miti d’Oggi (2005) rammenta
solo quel viso che “costituiva una specie di stato assoluto
della carne che non si poteva raggiungere né
abbandonare”, un viso “intonacato”,
“non disegnato ma scolpito in una materia liscia e
friabile”? Il semiologo francese sostiene che il viso della
Garbo è un “concetto” che è
oramai entrato a far parte della storia del cinema grazie alla maschera
in cui è scolpito; viso e maschera sono inscindibili
perché l’uno è l’immagine del
fluire del tempo, l’altro il motivo del suo arresto.
Perché al pari della Garbo non si dovrebbe preservare una
serie mitica, togliendola dalla possibilità dello sguardo?
Perché
non far rivivere Beverly Hills 90210 solamente
nelle menti di chi l’ha vista al tempo giusto?
Perché dissacrare un prodotto culturale che ha rappresentato
e propiziato le vite di tanti adolescenti? Che finiscano le
trasmissioni, che Beverly Hills 90210 scompaia
dalla scena per evitarle l’oscenità di un ricordo
senza valore. Chi volesse ancora averne traccia può cercare
nelle serie che l’hanno seguita (solo per restare
nell’ambito dei teen drama si potrebbero
citare Dawson’s Creek e Gossip
Girl) e in quelle che continuano a succedersi, la loro
produzione appare oggi inarrestabile.
LETTURE
— Alberto Abruzzese, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, 1979.
— Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2005.
— Walter Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino, 2002.
— Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma, 2002.
— Slavoj Žižek , Il godimento come fattore politico, Raffello Cortina Editore, Milano, 2001.