di Giulia Iannuzzi
Un uomo biondo, vestito di nero, siede su un trono di pelle
scura, l'espressione è sicura di sé e sottilmente
ambigua; una donna, sorniona, è appoggiata allo schienale,
corsetto e maniche di pelle nera; dietro di loro un sipario di velluto
rosso ondulato. La camera si posiziona in basso, vediamo il mezzo busto
dell'uomo seduto, il piano americano di lei, le due figure si stagliano
contro la parete e il soffitto grigio-nero; dal nostro punto di vista,
quasi ai loro piedi, l'angolo del soffitto coincide precisamente con il
punto di fuga dell'immagine, che si colloca tra la testa dell'uomo e il
braccio della donna.
L'inquadratura dura un istante, eppure,
nel suo essere dettagliatamente studiata, rappresenta un'ottima sintesi
del mondo vampiresco di True Blood: ritrae il
vampiro Eric Northman (interpretato dallo svedese Alexander
Skarsgård) e la sua associata Pam (Kristin Bauer) all'interno
del locale che gestiscono, Fangtasia. Una serie di scelte suggerisce un
ritratto dei vampiri dark, gotico-urbano, svolto sul modello di una
contro-cultura o di una comunità sessuale alternativa
– il rosso e il nero dominano il cromatismo dell'ambiente
privo di finestre, i vestiti di lei richiamano uno stile sadomaso.
Eppure altri indizi indicano la natura di messa in scena
di quanto vediamo: le due persone sembrano in posa, il tendone di
velluto alle loro spalle (un omaggio a Twin Peaks?)
è chiaramente un sipario teatrale, e inquadrature precedenti
ci hanno già mostrato che il duo si trova effettivamente su
un palco rialzato all'interno del locale. L'immagine che questi due
vampiri stanno dando di sé è accuratamente
calcolata e sostanzialmente fittizia, uno stereotipo di vampiro moderno
riprodotto a beneficio degli spettatori – i turisti umani che
frequentano il locale in cerca di qualche brivido.
Il
principio di questa messa in scena è parallelo, sul piano
del mondo finzionale, a quanto sta avvenendo sul piano della
rappresentazione cinematografico-televisiva: True Blood,
serie prodotta dalla HBO tra 2008 e 2014, sotto la direzione creativa
di Alan Ball fino alla quinta delle sue sette stagioni, ci propone un
riuso spudorato dell'immaginario – anche il più
stereotipo – legato ai vampiri, al contempo richiamando la
nostra attenzione sulle modalità auto-consapevoli, ironiche,
culturalmente engagé con cui
l'operazione viene svolta (si pensi – nella nostra
inquadratura esemplare – alla teatralizzazione
estetizzante come epifenomeno di ciò). Il risultato
è una serie che offre al suo spettatore almeno due tipologie
di gratificazione: quello più immediato e generalista del
sesso, del sangue, del mostruoso, e quello, ulteriore,
del gioco ironico e citazionistico, e – come vedremo meglio
– dell'horror come veicolo per la discussione di
problematiche storiche e sociali di ampia portata.
Stiamo
guardando Escape from Dragon House, quarto episodio
della prima stagione. Lo scenario è quello di un mondo in
cui una multinazionale giapponese ha sintetizzato un surrogato del
sangue umano e i vampiri – che dispongono così
della possibilità di convivere pacificamente con gli umani
– hanno deciso di rivelare la loro esistenza e di
intraprendere un difficile cammino di integrazione nella
società. La prima stagione è costruita attorno a
una trama gialla in cui Bon Temps – piccola cittadina
fittizia in Louisiana – è funestata da alcuni
omicidi seriali. La protagonista, la giovane telepate Sookie Stackhouse
(una perfetta Anna Paquin, già giovanissima vincitrice di un
Oscar con Lezioni di piano nel 1994, e Rogue in
alcuni episodi della saga X-Men tra 2000 e 2014),
indaga sugli omicidi, nel tentativo di scagionare dai sospetti suo
fratello Jason. Sookie intreccia al contempo una relazione con il
vampiro Bill Compton (l'inglese Stephen Moyer – frutto di un
casting raffinato, forse memore di Ultraviolet,
1998). Nella scena descritta sopra i due si trovano a Fangtasia, dove
sono andati nella speranza che Sookie riesca a captare
qualche indizio. La puntata si è aperta –
riprendendo il cliffhanger della precedente
– sul ritrovamento da parte di Sookie del cadavere di Dawn,
l'ultima vittima del serial killer; entrambe le ragazze erano cameriere
al Merlotte's, il pub del giovane e misterioso Sam Merlotte (Sam
Trammell), segretamente innamorato di Sookie.
L'episodio intreccia esemplarmente le sotto-trame costruite
attorno a vari personaggi. Le avventure del fratello di Sookie, Jason
(interpretato dall'australiano Ryan Kwanten), costituiscono ad esempio
un contro-canto ironico a quelle di lei: aitante quanto lento di mente,
Jason è sospettato degli omicidi perché
è andato a letto con tutte le vittime; dopo aver ingerito
un'indebita quantità di sangue di vampiro – che
per gli umani ha proprietà invigorenti e talvolta psicotrope
– viene affetto da una forma estrema di priapismo, ironico
contrappasso ai suoi sregolati costumi sessuali. Tara Thornton (Rutina
Wesley), migliore amica di Sookie, lo aiuterà procurandogli
un alibi e accompagnandolo da un medico.
Nella cittadina di
Bon Temps (una Twin Peaks moderna, con il suo
carico di torbidi segreti), e in particolare attorno al Merlotte's, si
dipanano le vicende di protagonisti e comprimari, in un mondo in cui il
presupposto fantastico – la sfera del soprannaturale in cui
rientrano vampiri ma anche lupi mannari e altre creature –
è declinato entro un'estrapolazione logico-verisimile. Nel
caldo umido e soffocante del profondo sud americano i personaggi fanno
sesso e si trovano invischiati in torbide vicende di droga e violenza;
mentre le rivendicazioni dei vampiri richiamano in modo esplicito e
ammiccante le battaglie civili degli afro-americani e delle minoranze
sessuali. Lo sfondo della Louisiana non è affatto neutro:
nel nostro quarto episodio, ad esempio, Sookie e Sam discutono della
dottrina della segregazione razziale – “separate
but equal” – applicata al caso dei vampiri; tra i
materiali inclusi nella sigla alcuni fotogrammi di un filmato d'epoca
mostrano dei poliziotti reprimere dei manifestanti. A più
riprese nella serie vengono suggerite analogie anche tra i vampiri e i
movimenti LGBTQ e alle loro battaglie: in un'inquadratura della sigla
un cartello “God hates fangs” scimmiotta
“God hates fags” della Westboro Baptist Church,
sostituendo all'insulto verso i gay i canini dei vampiri; si dice a
più riprese che i vampiri “came out of the
coffin”, riprendendo l'espressione idiomatica “to
come out of the closet”; abbiamo accennato a come in Escape
from Dragon House il locale Fangtasia sia costruito sulla
falsariga di un luogo di ritrovo di un sottobosco contro-culturale
urbano, tanto che la scena si conclude con una retata della polizia.
Non mancano spazi importanti dedicati a comprimari velatamente o
dichiaratamente gay e queer, come la già citata Pam o il
cugino di Tara, Lafayette (nella magnifica interpretazione di Nelsan
Ellis).
Lungo le varie stagioni largo spazio è
dedicato alle problematiche dell'integrazione dei vampiri nella
società, a partire dal dissidio tra coloro che promuovono
tale integrazione (significativa la campagna in favore di un Vampire
Rights Amendment) e coloro che la osteggiano in nome di una proclamata
superiorità dei vampiri, per toccare anche il problema
dell'immagine pubblica della comunità dei vampiri, e dello
scarto tra posizione ufficiale e ufficiosa delle sue élite
dirigenziali. La lettura del vampiro come metafora di minoranze
storicamente esistenti va riallacciata peraltro a una lunga tradizione
di mostri che danno corpo al diverso, al difforme,
all'alterità, e il tema è andato incontro a una
particolare fortuna negli studi accademici (Due esempi recenti: Intersectionality
Bites: Metaphors of Race and Sexuality in HBO's True Blood di
Peter Campbell incluso in Monster Culture in the 21st
Century: A Reader; e Mainstream
Monsters: The Otherness of Humans in Twilight, the Vampire Diaries and
True Blood di Emma Somogyi e Mark David Ryan in The
Twilight Saga: Exploring the Global Phenomenon).
A questo proposito può essere notata anche la
proliferazione del vampiro nelle narrazioni rivolte a un pubblico di
ragazzi e ragazze: il vampiro ben si presta a reagire a contatto con
l'adolescente come outsider o borderline,
a simboleggiarne il difficile percorso di dominio degli istinti, o a
incarnare, accanto al lupo mannaro, il dissidio tra
mentalità del branco e responsabilità delle
scelte individuali.
Alle significazioni cui il soprannaturale
rimanda in termini etnici e di genere si può affiancare
anche una caratterizzazione di ceto economico: si pensi, in True
Blood, alle possibilità economiche di Bill
– ex-tenutario di una piantagione durante la sua vita umana
prima della guerra civile – e a quelle di Eric –
ricco proprietario di Fangtasia, che nel suo locale – come
abbiamo visto – fa della sua stessa immagine un prodotto,
incarnando alla lettera un'imprenditoria capitalista pienamente
realizzata. Una connotazione di classe è suggerita anche per
i lupi mannari, rappresentanti di una sotto-cultura simile a quella dei
bikers, che appaiono per lo più di umile estrazione
(eccezione che conferma la regola: Alcide – Joe Manganiello
– con cui Sookie si accoppia nella sesta stagione), mentre le
pantere mannare nella terza stagione rappresentano compattamente il
tipo del redneck povero, ignorante
e tendente all'endogamia.
Nella quarta puntata della prima
stagione una scena sottolinea lo scarto di ceto tra Sookie e Bill in
termini di gusto culturale: allontanandosi da Fangtasia in macchina, lo
stereo suona Escape from Dragon House dei Dengue
Fever, Sookie chiede a Bill di spegnere e domanda, con aria di
sufficienza, in che lingua sia la canzone. Il particolare mette in luce
la lontananza di Sookie dalle preferenze musicali di Bill, laddove
queste ultime fanno mostra di contaminazioni interculturali moderne e camp.
Su questo particolare richiama l'attenzione anche la scelta
del titolo della puntata, che riprende esattamente quello della canzone
– Escape from Dragon House, come di
consueto nella serie (la centralità delle scelte musicali in
True Blood è direttamente proporzionale
alla qualità produttiva generale e meriterebbe un saggio a
sé). Il vampiro come significante di successo economico
nella società dei consumi, come incarnazione di un sogno di
ascesa sociale ha una serie di interessanti compagni nella produzione
più recente. Si potrebbero citare – coprendo spazi
diversi nello spettro dei media e delle scelte di gusto – la
chiara connotazione di classe della famiglia Cullen e l'arrampicata
sociale della protagonista nella saga di Twilight (romanzi,
2005-2008, e film, 2008-2012), l'enfasi di stampo
aristocratico-notabiliare posta sulla famiglia e le
possibilità economiche dei Salvatore in The
Vampire Diaries (2009-), e il più raffinato caso
dei vampiri di Jim Jarmush in Solo gli amanti sopravvivono
(2014). D'altronde sembra lecito che alla ricchezza materiale sia
riservato uno spazio nella connotazione di una figura – il
vampiro – che sembra incarnare i nostri moderni sogni di
onnipotenza, a partire dal primo e sempiterno: sconfiggere la morte. Il
vampiro può esistere in eterno, è dotato di
superiori facoltà fisiche (in True Blood
i sensi dei vampiri sono più acuti, i vampiri sono
super-veloci e super-forti, alcuni di loro possono volare), mentali
(possiedono la facoltà di condizionare la mente e la
volontà degli umani) e sessuali, e sono spesso facoltosi e
potenti (un fatto rimarcato con decisione nella saga romanzesca e
ripreso in molti casi anche nella serie).
Così
il vampiro finisce per essere proposto come un umano postumo
(oltre la morte) per molti versi migliorato. La compresenza nel vampiro
di queste caratteristiche genera in qualche caso un'ulteriore funzione
del tropo vampiresco, quella di un dispositivo di memoria storica: la
longevità del vampiro lo può aver reso testimone
diretto di eventi storici preclusi all'esperienza dei mortali, creando
interferenze interessanti. Bill offre la sua testimonianza di prima
mano della guerra civile in cerca di un'accettazione da parte della
comunità cittadina di Bon Temps (in Sparks Fly Out,
quinto episodio della prima stagione): alle derive ideologizzanti e
revisionistiche dei nostalgici Descendants of the Glorious Dead, il
vampiro contrappone una visione dell'autentico orrore della guerra.
Per
riannodare i fili di tutti questi sensi metaforici e ulteriori del
tropo vampiresco, il merito maggiore di True Blood,
ciò che ha reso la serie un prodotto
“adulto” e di culto, sta forse nella composizione
complessa e contraddittoria dei possibili significati del vampiro e del
soprannaturale, che declina a suo modo quella capacità di
rappresentare una dimensione morale e ideologica non manichea
– in ciò sostanzialmente realistica,
nel senso letterale di aderente alla contraddittoria
complessità del reale – che ha fatto la
fortuna di altre grandi serie contemporanee.
Più
oltre, le letture che vedono in questi vampiri una mera metafora di
genere, etnia o ceto funzionano poco non solo perché questi
vari significati si trovano inscindibilmente intrecciati, ma anche
perché tutti incontrano un limite in altri caratteri tipici
del vampiro. La serie trae molta della sua verve,
oltre che la sua cifra più schiettamente horror e splatter,
dalla messa in scena della natura predatoria e violenta del vampiro, il
cui istinto a nutrirsi di prede umane si riconferma, di caso in caso,
spietato o represso a fatica.
Si annida forse in questi aspetti del vampiro come predatore
fisico e sensuale, anche il principale rischio che la serie corre di
proporre una visione post-femminista dei rapporti di genere tra uomini
e donne, in particolare attraverso la figura e le vicende della
protagonista. Sookie è una ragazza indipendente e orgogliosa
della propria indipendenza (di pensiero, di scelta ed economica), ma le
sue avventure sono determinate sostanzialmente dalle relazioni
romantiche e sessuali che intreccia di volta in volta con questo o quel
compagno. Le sue doti telepatiche e la sua natura soprannaturale
(disvelata poco a poco nel corso delle stagioni) oltre che la sua
avvenenza fisica, la rendono un oggetto del desiderio conteso da
più parti, per cui il suo ruolo attivo si esplica, in buona
sostanza, in termini di risposta a tentativi di concupirla o
sfruttarla, in reazione cioè, a ciò che le accade
o che la minaccia per iniziativa altrui.
In questo aspetto la
serie di Ball ha rappresentato una solo moderata evoluzione rispetto
alla saga di romanzi di Charlaine Harris, di cui nasce come
trasposizione. Il rapporto tra serie televisiva e romanzi è
illuminante, più in generale, per la diversa economia
narrativa che governa i due prodotti e che può contribuire a
spiegare, con un buon esempio, la fortuna della serialità
televisiva nell'ecosistema delle narrazioni mediatiche contemporanee.
La Southern Vampire Mysteries Series di Harris (13
romanzi usciti tra 2001 e 2013, in Italia intercettata da Delos Books
quindi ripresa da Fazi) ha rappresentato una traccia seguita da Ball
con una certa puntualità fino ai primi quattro volumi. Dai
romanzi sono chiaramente derivati alcuni dei protagonisti, le trame
orizzontali delle prime stagioni, e i tratti principali dello scenario
finzionale, compreso l'amore per un sud gotico di lunga tradizione, che
ha in Anne Rice il suo nume tutelare più vicino (per questo
aspetto nella Rice di The Witching Hour, 1990,
oltre che in quella dei noti romanzi vampireschi). La trasposizione
televisiva ha saputo però operare una rielaborazione
radicale in fase di sceneggiatura, per tramutare le avventure di Sookie
in una vicenda autenticamente corale, e complicare, con l'aggiunta e
approfondimento di nuove tematiche, lo spirito di dark-sexy
romance di cui si accontentano i romanzi.
Pensiamo
alla già accennata presenza di sotto-trame che vedono
protagonista il fratello Jason (nei romanzi una presenza estremamente
marginale), Tara (qui la serie aggiunge anche una connotazione etnica
importante), Lafayette (nei romanzi una comparsa che entra ed esce di
scena rapidamente), Jessica (una fortunata aggiunta originale della
serie, ben interpretata da Deborah Ann Woll) per fare solo qualche
esempio. Dalla narrazione romanzesca che trova in Sookie l'unica
protagonista, ma anche portatrice di un unico punto di vista sugli
eventi e narratrice omodiegetica, approdiamo nella serie a una
narrazione decisamente plurale e molto più articolata. Escape
from Dragon House ne è esemplare, con il montaggio
alternato che intreccia le vicende parallele e contemporanee di Sookie
prima al Merlotte's quindi con Bill a Fangtasia, di Jason e Tara al
commissariato e quindi in ospedale, di Sam al suo locale, sfruttando la
presenza di più fili per alternare sotto-generi o atmosfere
dominanti diverse (la tensione a Fangtasia contrappuntata dalla
ridicola sproporzione dell'erezione di Jason), nonché per
tenere alta la suspense, rimandando lo scioglimento di ciascuna
situazione.
Le scelte narrative e figurative della serie portano
l'impronta di Casa HBO. Network televisivo via cavo e satellitare
statunitense, la Home Box Office può essere annoverata tra i
protagonisti della nuova golden age televisiva
americana: la formula del servizio a pagamento ha svincolato il network
dai limiti della censura e appropriatezza che si impongono alle reti in
chiaro, e permesso la produzione e trasmissione di prodotti di fiction
caratterizzati da contenuti espliciti e da una sofisticazione culturale
prima sconosciuti al mondo delle serie generaliste. Serie come Sex
and the City (1998-2004), The Sopranos
(1999-2007), Six Feet Under (2001-2005), The
Wire (2002-2008), fino alle recenti Boardwalk Empire
(2010-2014) e Game of Thrones (2011-) hanno
indubbiamente segnato il passo della storia recente della fiction
televisiva, e spronato i concorrenti (pensiamo alla qualità
media delle serie prodotte in ambito generalista, ma anche all'offerta
specifica di concorrenti via cavo come Showtime).
Libera
dunque dalle normali costrizioni della televisione commerciale, con un
target di abbonati su cui il network mantiene un certo riserbo, ma che
si colloca verosimilmente in una fascia demografica dalle
possibilità economiche e dall'istruzione medio-alta, la HBO
ha consapevolmente costruito il proprio marchio attorno a concetti di
qualità, innovazione e distinzione
culturale, all'insegna del significativo slogan “It's Not TV.
It's HBO”, motto ufficiale del network tra 1996 e 2009. La
produzione in proprio di serie televisive, in particolare a partire dai
secondi anni Novanta, alla ricerca di una sempre maggior fidelizzazione
dei sottoscrittori, ha finito per fare tutt'uno con un discorso di
nobilitazione estetico-artistica del prodotto televisivo – si
pensi all'accento sull'autorialità dei
creatori, alla bourdieuniana disposizione alla
fruizione estetica garantita dall'assenza di pubblicità,
alla consapevole ricerca di un posizionamento all'estremo
più sofisticato e distinto entro una
scala di gusti televisivi sempre più divaricati –
facendo della HBO un interessante caso di brand
d'élite all'interno del generalista medium televisivo (si
veda su questi temi il saggio di Christopher Anderson Producing
an Aristocracy of Culture in American Television, in The
Essential HBO Reader).
Di tutto ciò True
Blood offre un'ottima incarnazione: il tema già
modaiolo dei vampiri (il successo della saga di Twilight
in libreria – per fare solo un esempio – comincia
nel 2005; cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero25)
è offerto in una rielaborazione adulta,
segnata dall'autorialità forte di Ball –
già Oscar alla sceneggiatura per American Beauty
(1999) e consacrato da Six Feet Under; funge da
cartina al tornasole del ruolo di Ball il drastico cambiamento (e
caduta di qualità) delle ultime due stagioni dopo il suo
abbandono. Il risultato è una serie televisiva d'autore
che ha saputo magistralmente – e furbescamente –
offrire “popcorn for smart people”
(“intrattenimento per persone intelligenti”, nelle
parole dello stesso Ball riportate nella presentazione della serie sul
sito del network). E, proprio come l'operazione di branding
della HBO nel suo complesso, il lancio e il successo di True
Blood hanno puntato su un fascino elitario e di nicchia,
tenendo in secondo piano l'accurata operazione commerciale che ha
guidato e sostenuto, anche in questo caso, la serie in
qualità di prodotto.
Consideriamo
ad esempio il contributo dato alla serie e al suo lancio da Digital
Kitchen. L'agenzia creativa, già artefice delle notevoli
sigle d'apertura di Dexter (2006-2013) e Six
Feet Under, ha firmato la sequenza dei titoli di testa, un
peculiare caso di sigla in cui non compare nessuno dei protagonisti e
luoghi della serie, dedita invece a introdurre le atmosfere di un
accaldato, sensuale, violento sud americano, giustapponendo
ambiguamente immagini che illustrano e prefigurano i grandi temi della
serie – sesso, morte e decadenza fisica, religione e
fanatismo, pericolo, sulle allusive note di Bad Things
di Jace Everett (della ricca complessità visiva e
concettuale della sigla si sono occupati diversi studiosi, si vedano ad
esempio Vampire Porn di Daniel K. Immel in A
Taste of True Blood: The Fangbanger's Guide, i cenni sparsi
nel già citato True Blood: Investigating Vampires
and Southern Gothic, e, più in generale sul senso
delle sigle nell'economia televisiva contemporanea, Tagli nel
flusso. I titoli di testa nella serialità televisiva
di Stefano Perna in Post-serialità).
Digital Kitchen disegna il font che rende riconoscibile il titolo
(nonché la peculiare texture organica e
sanguinolenta su cui il font si staglia al termine dei titoli), e
orchestra la campagna di marketing che raddoppia l'audience tra la
prima e la seconda stagione (dai 2,3 milioni di spettatori della premiere
della prima stagione ai 6 milioni della premiere
della seconda stagione secondo dati diffusi da Digital Kitchen sul suo
sito; 1,44 milioni e 3,7 milioni secondo dati citati da Brigid Cherry
nel già menzionato volume collettaneo da lei curato, True
Blood). Nella strategia promozionale di Digital Kitchen,
facilitata dalle sinergie di HBO con il resto del gruppo Time Warner di
cui fa parte, sono comprese la creazione e diffusione di 35 video
virali e quattro siti web, una campagna stampa svolta su 29
pubblicazioni, e – forse l'aspetto più
interessante – una campagna in co-brand con 8 partner (tra
cui Mini e Gillette) in cui una serie di prodotti –
un'assicurazione, un’automobile, un rasoio, etc. –
è stata pubblicizzata con messaggi rivolti ai vampiri,
proponendo implicitamente uno dei presupposti narrativi della serie
– i vampiri (non) vivono tra noi – con relativo
effetto di straniamento e sorpresa (“haking
reality”, nell'ambiziosa formula dell'agenzia). La canzone Oh
Sookie e il video del rapper Snoop Dogg fanno parte della
campagna ideata tra la seconda e la terza stagione. Adoperare contenuti
culturali per favorire il successo commerciale dei prodotti
è d'altronde l'esplicita missione dell'agenzia, che sul suo
sito si presenta appunto come “a creative and digital agency
that harnesses culture to attract audiences”.
Una
serie in grado di offrire intrattenimento intelligente, di alta
qualità, sostenuta da una strategia promozionale ottimamente
congegnata, ha conquistato – non ci stupirà
– un seguito di fan accaniti, che ha dato vita a una nutrita
produzione di fan fiction (nonché a
“tifoserie” in particolare in favore dei personaggi
di Bill ed Eric). Non mancano numerosi studi provenienti dal mondo
accademico, che si collocano variamente tra curiosità
critica e ottica apologetica, rischiando talvolta di perdere di vista
il contributo che gli aspetti più schiettamente commerciali
visti sopra hanno dato al successo del loro oggetto di studio (si
collocano variamente sull'asse analisi-elogio i contributi raccolti in True
Blood curato da Brigid Cherry e A Taste of True
Blood curato da Leah Wilson).
Così il
vampiro realizza sui piccoli schermi i nostri umani sogni, supera la
nostra morte, rimescola le nostre identità, differenze,
conflitti, e rinfocola la nostra paura di essere scalzati dal vertice
della catena alimentare. Mentre buona parte del fascino vampiresco
deriva dal potenziale insito nella compresenza di motivi diversi e
diverse stratificazioni storiche, le letture critiche di True
Blood attendono ancora un pieno assestamento prospettico, che
superi le interpretazioni più piattamente metaforiche del
soprannaturale, e che renda giustizia anche alle strategie produttive e
commerciali dietro al successo della serie, riconoscendone pienamente
il ruolo e i meriti.
ASCOLTI
— Jace Everett, Bad Things, Epic, 2005.
— Dengue Fever, Escape from Dragon House, Brg, 2005.
— Snoop Dogg, Oh Sookie, Digital Kitchen-Snoop Dogg Bush, 2010.
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— Catherine Hardwicke, Chris Weitz, David Slade, Bill Condon, Twilight Forever - La Saga Completa, Eagle Pictures, 2013 (home video).
— Jim Jarmush, Solo gli amanti sopravvivono, Eagle Pictures, 2014 (home video).
— James Manos, Jr., Dexter: Killer Collection, Paramount Pictures, 2014 (home video).
— Sam Mendes, American Beauty, Universal Pictures, 2012 (home video).
— David Simon, The Wire, HBO, 2002-2008.
— Darren Star, Sex and the City, Stagioni 1-6, Paramount, 2014 (home video).
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