Si racconta che, all’apice del suo impero economico, Cecil Rhodes abbia affermato una volta, guardando le stelle in cielo, che se avesse potuto avrebbe annesso al suo impero interi pianeti. L’ingordigia di Rhodes, che a quell’epoca aveva già comprato mezza Africa e avrebbe poi dato il suo nome a un’intera nazione (la Rhodesia, che con la decolonizzazione diventerà Zimbabwe), non è molto dissimile da quella di cui soffrono i bibliofili. Dopo aver riempito le loro case di libri scovati negli angoli più remoti di polverose librerie, spesso dando fondo a buona parte delle proprie ricchezze, i bibliofili sognano la possibilità di acquistare anche quei libri che i limiti fisici relegano per sempre al di là delle loro brame collezionistiche, come i pianeti per Rhodes. Già qualche secolo fa c’era chi si divertiva o approfittava di quella smania. È ben nota la “Lista della Biblioteca dell’Abbazia di san Vittore” che François Rabelais inserì nel suo Gargantua e Pantagruel. Meno noti sono i tanti cataloghi di libri inesistenti compilati a partire dal Seicento, che diffondono per l’Europa dei letterati i miti di titoli destinati a sfuggire anche alla ricerca più certosina (cfr. Martino, 2010).
In un’epoca in cui inventare storie era considerata un’occupazione disdicevole, molti grandi autori ricorsero all’espediente di attribuire la trama del racconto a un manoscritto fortuitamente ritrovato, narrazione di un episodio storico realmente avvenuto che lo scrittore decide di trasporre in linguaggio più moderno. Così, alcuni dei più grandi capolavori della letteratura occidentale, dall’Orlando furioso al Don Chisciotte, da Ivanhoe ai Promessi Sposi, sostengono di trarre ispirazioni da fonti precedenti, ovviamente inesistenti. Umberto Eco si prenderà gioco di questo espediente narrativo nel suo romanzo d’esodio, Il nome della rosa: “Naturalmente, un manoscritto” è il titolo della prefazione del fortunato romanzo, nel quale Eco inventa una storia nella storia, quella della ricerca – che lo impegna da Praga a Buenos Aires passando per Parigi – di un “manoscritto del XIV secolo” attribuito a “Dom Adson de Melk” e tradotto in francese nel 1842 da una versione del Seicento. Libri su libri su libri, tanto che quindi quella narrata ne Il nome della rosa non sarebbe che la quarta versione di una storia già raccontata in almeno altri tre testi! Un vero e proprio “multiverso” immaginario, inesistente se non nella fantasia dello scrittore, che rappresenta un omaggio alla fortuna che, a partire dalla fine del XIX secolo, hanno vissuto gli pseudobiblia, i libri immaginari e inesistenti, per usare la formula coniata dallo scrittore di fantascienza L. Sprague de Camp nel 1947. Bibliofilo tra i più celebri, Eco non poteva non cedere al fascino del gioco di scatole cinesi offerto dai “pseudobiblia”: se ogni storia inventata costruisce, di per sé, un mondo immaginario, insistente nel nostro universo fisico, ma esistente nella mente di chi lo crea e di chi lo fruisce (il lettore), è inevitabile che in questo universo “altro” esistano anche libri scritti da esseri di quell’universo, inesistenti nel nostro mondo, che però possono raccontare storie di altri mondi immaginari, e così via in un regressus ad infinitum.
Un testo inesistente è del resto alla base dell’intreccio stesso del romanzo di Eco: il secondo libro della Poetica di Aristotele, la cui unica copia è posseduta nella sezione proibita (“finis Africae”) della biblioteca dell’Abbazia. Libro proibito e maledetto, perché contiene un elogio della commedia e del riso che, nell’epoca cupa del medioevo cristiano, non può avere alcuno spazio. In realtà il secondo libro della Poetica non è un testo inventato, ma realmente esistito, anche se andato perduto. La classificazione tracciata da Paolo Albani e Paolo della Bella alla voce “pseudobiblia o bibliografie immaginarie” nel loro libro Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale include comunque anche questi casi, dal momento che sono definiti “pseudobiblia”:
“1) Libri che sono esistiti, ma che oggi non esistono più (per dispersione, distruzione, perdita, ecc.). 2) Libri che non sono mai esistiti, ma che potrebbero esistere (per ricostruzione apocrifa, giochi di citazione ecc.). 3) Libri che esistono, ma è come se non esistessero (per irreperibilità, estrema rarità, censure, ecc.). 4) Libri che esisteranno, ma che ora non esistono (work in progress, lavori in nuce, ecc.)” (Albani, della Bella, 1999).
Classificazione per la verità un po’ traballante, dal momento che le opere della terza categoria possono essere fatte rientrare nella prima (può anche essere che esista nel mondo una copia sconosciuta del secondo libro della Poetica, ma per noi è come se non esistesse), e tralascia le opere incompiute, che non rientrano nella quarta categoria (potevano esistere, ma non esistono). Qui vogliamo invece proporre un altro tipo di classificazione, che limita l’ambito dei “pseudobiblia” alle sole opere immaginarie, sub-creazioni, come avrebbe detto J.R.R. Tolkien, inventate da autori di romanzi, e che nella classificazione di Albani e della Bella sono ristretti nella seconda categoria.
Li suddividiamo in:
Pseudobiblia di primo livello:
opere
immaginarie all’interno del nostro mondo primario;
Pseudobiblia
di secondo livello:
opere immaginarie all’interno di mondi
secondari (“sub-creazioni”);
Pseudobiblia
di terzo livello:
opere immaginarie all’interno di mondi
secondari che raccontano di altri mondi immaginari.
L’archetipo di tutti gli “pseudobiblia” di primo livello è senz’altro il Necronomicon di Howard Phillips Lovecraft. Il mondo in cui il “solitario di Providence” ambienta i racconti che fanno parte dei cosiddetti “Miti di Cthulhu” è senza dubbio il nostro, anche se infestato da presenze inquietanti e ancestrali che lo governano. In uno di questi racconti, Il cane, del 1922, il libro viene citato per la prima volta e attribuito a “l’arabo pazzo Abdul Alhazred”. Si tratta di un libro proibito che descrive indicibili riti demoniaci e creature del regno dei morti e che, nel successivo La cerimonia del 1923, Lovecraft inserisce insieme a un altro gruppo di libri dello stesso tenore, questi però reali, contribuendo a confondere il lettore sull’effettiva esistenza del Necronomicon:
“Indicatami una sedia, un tavolo ed una pila di libri, il vecchio lasciò la stanza; quando mi sedetti a leggere, mi accorsi che i libri erano venerabili e ammuffiti, e che comprendevano il bizzarro Marvels of Science del vecchio Morryster, il terribile Saducismus Triumphatus di Joseph Glanvil, pubblicato nel 1681, lo sconvolgente Daemonolatreia di Remigius, stampato nel 1595 a Lione, e il peggiore di tutti, l’innominabile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred, nella proibita traduzione in latino di Olaus Wormius; un libro che non avevo mai visto, ma di cui avevo udito sussurrare cose mostruose” (Lovecraft, 2009).
Man mano, quindi, il Necronomicon comincia ad assumere una sua propria vita. Da semplice artifizio narrativo, diventa oggetto la cui esistenza appare plausibile, tanto che, scrivono Albani e della Bella – e l’asserzione è resa credibile da una veloce ricerca su Internet – ancora oggi molte persone chiedono di consultare il testo nelle biblioteche. In quel racconto, il protagonista recupera una copia nella biblioteca della Miskatonic University di Arkham, città e università inesistenti. Ma, dopo che il gioco letterario gli è sfuggito di mano e ha assunto vita propria, Lovecraft decide, su sollecitazione dei molti suoi corrispondenti che vogliono saperne di più, di scrivere addirittura una Storia del Necronomicon, un paio di pagine appena, che però basteranno ad accendere l’immaginazione dei suoi milioni di lettori. Copie del libro in latino sono custodite, assicura l’autore, al British Museum, alla Bibliothèque National di Parigi, alla Widener Library di Harvard e all’università di Buenos Aires, oltre alla già citata biblioteca della Miskatonic University. Ma altre copie sarebbero possedute da collezionisti privati (cfr. Basile, 2002). In calce a questa sua Storia del Necronomicon, Lovecraft suggerisce che il libro maledetto sia lo stesso che ispirò Robert W. Chambers a scrivere le storie raccolte nel celebre Il Re in giallo, pubblicato nel 1895 (e che a sua volta avrebbe ispirato Nick Pizzolatto per creare True Detective cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero52).
Un gioco di rimandi letterari veri o fittizi, dunque, che contribuirà a confondere ancora di più i lettori e a convincerne tantissimi del fatto che il libro maledetto sia in realtà esistito davvero. Che Lovecraft abbia tratto ispirazione da Chambers, lo rivela comunque il suo saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura, nel quale scrive: “The King in Yellow, una serie di brevi storie vagamente connesse che hanno come sfondo un misterioso libro censurato la cui lettura procura spavento, pazzia ed orrore, raggiunge delle punte straordinarie di Orrore Cosmico” (Lovecraft, 2009).
L’elemento magico o esoterico rende sicuramente memorabili molti “pseudobiblia” di primo livello, come quelli di Lovecraft, Chambers o Eco. Ma c’è anche un altro modo molto interessante di impiegare i libri immaginari all’interno di una narrazione ambientata nel nostro mondo. È quella che realizza con straordinaria maestria David Mitchell nel suo L’atlante delle nuvole. In esso, il piano narrativo primario – quello raccontato dall’autore – si confonde continuamente con altri piani narrativi, prodotti da autori fittizi. Il Diario del Pacifico di Adam Ewing, per esempio, è un libro inesistente che uno dei protagonisti del romanzo, Robert Frobisher, trova nella libreria del suo mentore, il compositore Vyvyan Ayrs. Ma al suo interno viene raccontata la stessa storia che abbiamo letto nel capitolo immediatamente precedente, e che abbiamo fino ad allora considerato come narrazione primaria, mentre ora diventa narrazione secondaria all’interno di un altro livello narrativo, di un’altra storia. Frobisher poi troverà la seconda parte mancante del Diario, e tramite lui il lettore, qualche centinaio di pagine più avanti, può così concluderne la lettura. Ma poi scopriamo che anche la storia immediatamente successiva, quella che coinvolge la reporter Luisa Rey negli anni Settanta, è in realtà un manoscritto inedito che un altro dei protagonisti, l’editore Timothy Cavendish, sta leggendo nel suo viaggio in treno. Si chiama Mezze vite – il primo caso di Luisa Rey, che è anche il titolo del capitolo di L’atlante delle nuvole che ne racconta la vicenda. Il lettore a questo punto si domanda se i racconti che compongono il romanzo di Mitchell debbano essere considerati o meno reali, e qui giunge il corto circuito fatidico: poiché ovviamente non lo sono, perché sono inventati da Mitchell, il fatto di essere a loro volta “sub-creazioni” di personaggi creati da Mitchell li rende finzioni di secondo livello, che fanno saltare il tavolo della sospensione d’incredulità alla base di ogni romanzo e producono una rottura degli schemi convenzionali. Gli “pseudobiblia” post-moderni di Mitchell hanno quindi un particolare effetto straniante, che tra l’altro li porta a diventare, da “pseudobiblia” di primo livello, a opere di terzo livello, in grado cioè di produrre a loro volta storie immaginarie. Quando poi, arrivato al cuore della lettura di L’atlante delle nuvole, il lettore scopre che anche la vicenda ambientata ai giorni nostri, l’unica che finora ha considerato reale, è in realtà narrata attraverso una fiction televisiva in un futuro lontano qualche secolo da noi, dal titolo La tremenda ordalia di Timothy Cavendish, la confusione tra piano tra realtà, fiction e sub-fiction diventa totale.
Il dominio della letteratura fantastica nella produzione di “pseudobiblia” è evidente quando andiamo a considerare quelli di secondo livello. Libri inesistenti all’interno di mondi inesistenti sono diffusissimi nei romanzi di fantascienza come in quelli fantasy. L’esempio più noto per il primo caso è l’Enciclopedia galattica nella saga della Fondazione di Isaac Asimov. I suoi estratti sono citati in apertura di più o meno ogni capitolo della saga, e all’inizio di ogni libro una nota in calce descrive la provenienza dell’estratto: “Tutte le citazioni qui riportate sono riprese – per gentile concessione dell’editore – dall’Enciclopedia Galattica, 116° edizione, pubblicata nel 1020 E.F. dalle Edizioni Enciclopedia Galattica, Terminus” (Asimov, 1995). Asimov la immaginava come una versione futuristica dell’Enciclopedia Britannica, l’enciclopedia monumentale per eccellenza. Lewis Pirenne, l’enciclopedista capo, la descrive in un modo che oggi, nell’epoca di Wikipedia, appare quanto meno ingenuo, ma perfettamente in linea con le versioni tradizionali delle enciclopedie fino a vent’anni fa: “Entro cinque anni sarebbe stato pubblicato il primo volume del più monumentale lavoro che la Galassia avesse mai realizzato. In seguito, avrebbero pubblicato un volume dopo l’altro, a intervalli regolari di dieci anni, con precisione cronometrica. E insieme a questi ci sarebbero stati i supplementi, gli articoli speciali sugli avvenimenti di interesse generale…” (ibidem). Pirenne è il capo di un gruppo di scienziati e intellettuali trapiantati sul pianeta periferico di Terminus al solo scopo di redigere, per l’Impero in piena decadenza, un compendio di tutto lo scibile galattico. Il gruppo si chiama “Fondazione”, niente di più semplice, come appunto una fondazione culturale o scientifica, ed è stato voluto dal padre della psicostoria, Hari Seldon, convinto dell’imminente collasso della civiltà conseguente alla caduta dell’Impero galattico, affinché le conoscenze di diecimila anni di storia non vadano perdute nel corso dei mille anni di barbarie previsti. L’ispirazione è tratta dall’attività dei monaci amanuensi che, in pieno medioevo, salvarono la cultura dell’età antica, “civiltà di punti isolati, di oasi di cultura in mezzo ai deserti delle foreste e dei campi ritornati incolti”, come li definì Jacques Le Goff, “chiarori nella notte” del medioevo (Le Goff, 1999). La Fondazione degli enciclopedisti è astratta e lontana dalla politica come la civiltà monastica medievale, finché, al termine della storia, l’ologramma di Hari Seldon non rivela loro che il progetto dell’Enciclopedia era solo uno specchietto per le allodole, e che il compito della Fondazione è tutt’altro, molto più politico e meno intellettuale. Il progetto dell’Enciclopedia galattica come immaginato da Lewis Pirenne viene così abbandonato (più tardi nel corso della saga si farà un breve riferimento al fatto che una versione molto più stringata dell’Enciclopedia galattica è stata effettivamente realizzata, mentre le bozze del primo volume della versione monumentale sono conservate in un museo). “Pseudobiblion” per eccellenza, data la sua vastità, l’Enciclopedia galattica non ha mai cessato di esercitare il suo fascino su milioni di lettori di Asimov. Agli albori di Internet, un fan americano, Mike Carlin, ne ha realizzata una versione in cui, in stile enciclopedico, riporta tutti i personaggi, i mondi e le vicende storiche della saga della Fondazione (è ancora visibile nella versione originale, molto vintage, su terminuscity.tripod.com/timeline/). Più o meno nello stesso periodo, sul sito Asimovonline.com, Johnny Pez scrive la voce “Terminus” tratta dall’Enciclopedia galattica. Ma l’idea è stata certamente ispirazione per progetti molto più significativi sul piano storico, dal Whole Earth Catalogue di Stewart Brand, nato nel 1968, che diede vita al movimento dell’ecologismo e della controcultura, a Wikipedia.
L’aspirazione a trasformare in realtà gli “pseudobiblia” è particolarmente persistente. Ci hanno provato i fan di Lovecraft con il Necronomicon, quelli di Asimov, come abbiamo visto, ma non solo. In ambito fantasy la creatrice più prolifica di “pseudobiblia” è stata J.K. Rowling nella sua saga di Harry Potter. Harry e i suoi compagni di scuola di Hogwarts comprano ogni anno i libri di magia per i loro corsi. Alcuni di questi libri assumono un ruolo interessante nella saga: dal Libro mostro dei mostri per il corso di Creature magiche, che tenta continuamente di divorare il suo lettore, al libro Pozioni avanzate di proprietà del misterioso “Principe Mezzosangue” che Harry trova in un armadio della scuola e che contiene numerose annotazioni a margine, utilizzando le quali Harry diventa ben presto il migliore studente del corso, finché l’uso uno di quegli incantesimi non rischia quasi di uccidere il suo rivale Draco Malfoy. Libri che la secchiona del gruppo, Hermione Granger, consulta continuamente nella Biblioteca di Hogwarts per le sue ricerche. È l’unica ad aver letto la Storia di Hogwarts, che le permette di conoscere alcuni segreti del castello. È nel reparto proibito della Biblioteca che Hermione e i suoi amici, sfruttando l’invisibilità di un mantello magico, riescono a leggere un libro maledetto che parla loro della pietra filosofale. Ancora, nel libro proibitissimo Segreti dell’arte più oscura, che Hermione definisce “un libro terribile, veramente orrendo” che “trabocca di magia malvagia” (Rowling, 2006), sorta di versione potteriana del Necronomicon, si apprende dell’arte di dividere l’anima in sette parti. Anche in questo caso abbiamo non solo “pseudobiblia” di secondo livello, ma anche di terzo: è il caso di Gli animali fantastici: dove trovarli di Newt Scamandro, testo citato spesso nella saga e che nel 2001 la Rowling decide di scrivere lei stessa, divertendosi a creare un prodotto editoriale molto originale e curato in tutti i dettagli, dalla copertina usurata alle illustrazioni, alle annotazioni di pugno di Harry all’interno del testo (un prodotto molto simile a quello realizzato da J.J. Abrams con S., cfr. in questo numero). Quello stesso anno, con la stessa tecnica, l’autrice trasforma in realtà anche un altro “pseudobiblion”, Il Quidditch attraverso i secoli di Kennilworthy Whisp, storia dello sport magico per eccellenza (un misto tra calcio e baseball giocato volando su manici di scopa). I due libri, il cui ricavato è stato per l’80% devoluto in beneficenza, hanno venduto milioni di copie. Non solo: la Warner Bros., detentrice dei diritti cinematografici della saga, disperata perché la Rowling non ha voluto saperne di pubblicare altre storie dopo il settimo volume (già diviso al cinema in due parti per raddoppiare i guadagni), ha deciso di realizzare una versione cinematografica di Gli animali fantastici: dove trovarli, che uscirà il prossimo anno. Caso forse unico di “pseudobiblion” che diventa non solo prodotto reale, ma addirittura film.
Arriviamo infine alla terza e ultima categoria, quella degli “pseudobiblia” di terzo livello. Sono quelli che, come ne L’atlante delle nuvole di Mitchell, danno vita ad altre storie e altri mondi ugualmente fittizi. Quando J.R.R. Tolkien inizia a scrivere il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, si pone nella veste del filologo – qual egli è nel mondo primario, quello in cui viviamo – che analizza con la pedanteria dello studioso di Oxford un testo letterario delle epoche precedenti, Il Libro Rosso dei Confini Occidentali. Tolkien, che ben conosce l’uso dell’artifizio narrativo del “manoscritto ritrovato” per narrare storie di fantasia, vi fa ricorso anche nel suo caso, pur andando molto più in profondità, nella creazione di questo suo “pseudobiblion” che costituisce la pseudo-fonte primaria del Signore degli Anelli, rispetto ai classici di riferimento. L’autore del Libro Rosso è, in un primo momento, Bilbo Baggins, per cui la prima parte di quanto narrato in quel libro, spiega Tolkien, è stato pubblicato nel primo romanzo ambientato nella Terra di Mezzo, Lo Hobbit. Dalla seconda parte, redatta dal nipote di Bilbo, Frodo, e completata dal suo fedele giardiniere e aiutante Sam Gamgee, Tolkien avrebbe tratto la storia narrata nel Signore degli Anelli. Come spiega nel Prologo, il nome Libro Rosso dei Confini Occidentali deriva dal fatto che “fu a lungo conservat[o] a Sottotorri dai Belpiccolo, Custodi dei Confini Occidentali” ed era rilegato “in pelle rossa” (Tolkien, 2004). Tolkien sostiene inoltre che l’originale del manoscritto non ci è pervenuto, per cui la copia che lui usa è una “copia dettagliata e precisa del Libro del Conte che si trova a Minas Tirith”, a sua volta “copia, fatta su richiesta di Re Elessar, del Libro Rosso dei Periannath” (Ivi). Per cui, come già con i manoscritti di Eco nel Nome della Rosa, anche qui siamo di fronte a una quarta o quinta versione della storia originale e assistiamo alla ricostruzione di una pseudo-storia editoriale dello “pseudobiblion”. Ciò che rende ancora più interessante l’uso che Tolkien fa del Libro Rosso è che, attraverso l’invenzione di questo “pseudobiblion”, l’autore cerca di spiegare l’esistenza di un’evidente discrepanza tra quanto raccontato nella prima edizione de Lo Hobbit e quanto narrato in quelle successive, in merito alla scoperta da parte di Bilbo dell’Anello eponimo. Infatti, ne Lo Hobbit, Tolkien raccontava che Bilbo aveva vinto l’Anello dopo un gioco di indovinelli con il suo precedente possessore, l’infido Gollum; storia non più plausibile quando, con Il Signore degli Anelli, quello che nel precedente romanzo sembrava solo un innocuo anello magico diventa l’oggetto del contendere delle grandi potenze, strumento attraverso il quale il signore del male, Sauron, può assoggettare il mondo al suo volere. Tolkien è allora costretto, all’indomani dell’uscita del Signore degli Anelli, a riscrivere tutto il capitolo dello Hobbit in cui si narra l’incontro di Bilbo con Gollum, cambiando versione. Nel Prologo, Tolkien “giustifica” questa necessaria revisione attribuendola a una revisione del Libro Rosso: “Questo è ciò che Bilbo scrisse nelle sue memorie, e sembra non aver mai più, nemmeno dopo il Consiglio di Elrond, modificato il testo che è così riportato dall’edizione originale del Libro Rosso e da molte copie e riassunti. Solo le copie più tardive contengono ambedue le versioni, ispirate agli appunti di Frodo e di Samvise, i quali, malgrado fossero venuti a conoscenza della verità, si mostrarono sempre restii a cancellare e distruggere qualcosa scritta di proprio pugno dal loro compatriota” (ibidem).
Uscendo dalla logica letteraria del manoscritto ritrovato, troviamo altri esempi celebri di “pseudobiblia” di terzo livello. Michael Ende nel 1979 scrive La storia infinita, nel quale utilizza con straordinaria maestria la rottura della “quinta parete” che divide il narratore dal lettore. Il protagonista, Bastian, si imbatte nella libreria antiquaria del signor Coriandoli in un libro, La storia infinita, che il libraio sta leggendo con avidità. Irresistibilmente attratto da quel titolo, che gli fa balenare nella mente le promesse di storie incredibili e, appunto, senza fine, decide di rubarlo approfittando di un momento di distrazione del libraio. La storia infinita (lo “pseudobiblion”) si rivela la storia di un mondo fantastico, Fantàsia, in cui Bastian si ritrova improvvisamente a passare da spettatore a protagonista, prima attraverso il suo doppio, l’alter-ego fittizio Atreiu, e poi direttamente. Il capolavoro di Ende entra al cuore della capacità mitopoietica della fantasia e dimostra come, attraverso un romanzo, sia possibile creare nuovi mondi immaginari, “veri” quanto il nostro perché inscindibilmente legati al mondo primario. Una lezione che Ende recupera certamente da Tolkien, che proprio sul legame tra mondo primario e secondario aveva basato la sua famosa dissertazione all’Università di St. Andrews del 1939 On Fairy-Stories (Tolkien, 2000). Gli editori del romanzo si divertiranno poi, almeno per le edizioni più pregiate, a realizzare prodotti che imitino il libro immaginato da Ende, “rilegato in seta color rubino cupo, che luccica tutta quando la si muove. Sulla copertina ci sono due serpenti, uno chiaro e uno scuro, che si mordono la coda a vicenda. Dentro è stampato in due colori e ogni capitolo comincia con una grande e bella iniziale” (Ende, 2002). L’edizione Corbaccio più recente riporta per esempio la stampa in inchiostro a due colori – rosso e verde – e dei pregevoli capilettera per ogni capitolo disegnati da Antonio Basoli.
Vale la pena chiudere questo excursus citando un altro caso particolare di “pseudobiblia” di terzo livello, che invece di dar vita a un mondo “altro”, racconta – e quindi crea – una versione differente del nostro stesso mondo. È il caso del romanzo La cavalletta non si alzerà più di Hawthorne Abendsen, “pseudobiblion” inventato da Philip K. Dick nel suo celebre La svastica sul sole (anche noto con il titolo – rispondente all’originale – L’uomo nell’alto castello). Mentre il romanzo di Dick è ambientato in un universo in cui le potenze dell’Asse hanno vinto la Seconda guerra mondiale, La cavalletta non si alzerà più racconta di un mondo in cui Germania e Giappone sono stati sconfitti: è la storia del mondo in cui viviamo, che diventa scomoda nella realtà parallela di Dick, al punto che l’obiettivo di uno dei protagonisti è scovare e ucciderne l’autore. Al termine del romanzo scopriamo che Hawthorne ha scritto La cavalletta servendosi dell’I-Ching, il Libro dei mutamenti confuciano, come una sorta di oracolo per conoscere la verità. Quando Juliana, che è riuscita a trovare Hawthorne, pone all’I-Ching la domanda “perché hai scritto La cavalletta non si alzerà più? Cosa dovrebbe insegnarci?”, ottiene in risposta l’esagramma Chung Fu, la Verità Interiore. Juliana capisce cosa significa e Hawthorne la precede: “«Significa che il mio libro è vero, non è così?». «Sì», rispose lei. Con rabbia, lui disse: «La Germania e il Giappone hanno perso la guerra?». «Sì». Allora Hawthorne richiuse i due volumi e si alzò in piedi, senza dire altro” (Dick, 1997). Dick, come sempre nei suoi romanzi, gioca sul labile confine tra realtà e immaginazione, mettendo in dubbio il mondo in cui vivono i protagonisti così da mettere in dubbio anche il nostro, che diventa semplice fiction nell’universo parallelo e ucronico della Svastica sul sole. Uno spunto, quello di Dick, ripreso poi recentemente da Lavier Tidhar nel suo romanzo Wanted (in originale, Osama), che racconta di un universo parallelo dove non esiste il terrorismo islamico e dove Osama bin Laden è solo il personaggio di una serie di romanzi di uno scrittore misterioso, ricercato però da strani individui che per qualche ragione vogliono capire chi sia davvero Osama bin Laden. “Pseudobiblia”, quindi, che possono creare universi alternativi, distopici – come nel caso di Dick – o più o meno utopici – come nel caso di Tidhar – dove, pur con tanti problemi e tecnologie che qui esistono e lì no (Internet, per esempio), perlomeno non c’è stato l’11 settembre e il fondamentalismo islamico non esiste.
Libri inesistenti che danno vita a veri e propri multiversi dove possiamo vivere altre vite, viaggiare in altri mondi, conoscere altre storie, e che portano a chiederci se anche noi non siamo solo personaggi di un libro che altri stanno leggendo, o forse ancora finendo di scrivere.
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