VISIONI / TEATRO DI GUERRA
di Mario Martone / CG Entertainment, 2015
I sette contro Sarajevo
di Andrea Sanseverino
Quando Thomas Hobbes stende l’introduzione che precede i capitoli della sua opera più conosciuta, indica nella guerra civile, e non nella guerra in generale, la morte di “quel gran LEVIATANO chiamato COMUNITÀ o STATO (in latino CIVITAS), il quale non è altro che un uomo artificiale, sebbene di statura e forza maggiore di quello naturale, alla cui protezione e difesa fu designato” (Hobbes, 1997). Una guerra contro un nemico esterno, un barbaro, avrebbe l’effetto di unire il popolo, assopendo, anche se in maniera momentanea, i contrasti. La guerra civile, locuzione che sottende di fatto un ossimoro, dissolve i confini visibili, creandone altri di natura più complessa, perfino indecifrabile: con essa si consuma l’esperienza forse più drammatica che il genere umano conosca, la lotta tra fratelli, come lo furono Etèocle e Polinice, il cui scontro è raccontato ne I sette contro Tebe, la tragedia di Eschilo che i protagonisti di Teatro di guerra di Mario Martone vorrebbero allestire a Sarajevo, trasponendo la vicenda proprio ai tempi dell’assedio della città. A partire dal 5 aprile 1992, infatti, mentre in Italia si stanno svolgendo le ultime elezioni politiche della Prima Repubblica, segnate dalla crescita dell’astensione e dall’affermazione di un partito secessionista per vocazione, ha inizio uno dei capitoli più tragici ed emblematici della guerra che insanguinò la morente federazione jugoslava. A partire da quella data, la città che solo otto anni prima è stata sede delle Olimpiadi invernali, un evento che, restando in tema di Grecia antica, prevede l’incontro di popoli disposti a darsi battaglia solo ed esclusivamente nell’agone sportiva, è sotto il tiro dei bosniaci di origine serba, attestati sulle colline circostanti, i quali tentano di soffocare gli indipendentisti che volevano separarsi dal potere di Belgrado. Quando a Dayton, una base militare nell’Ohio, i leader di Croazia, Serbia e Bosnia Erzegovina firmarono l’accordo di pace (poi ratificato a Parigi il 14 dicembre 1995), fu stimato che il conflitto “nella sola Bosnia […] abbia provocato 200.000 morti, oltre 3 milioni fra profughi e rifugiati e un numero incalcolabile di feriti” (Bianchini, 1999). Ciò che fu vissuto negli anni Novanta nella sempre irrequieta regione balcanica costituiva una delle tante declinazioni di quella sanguinosa vicenda della guerra civile che non ha risparmiato nei secoli la nostra stessa penisola, dalla storia di Roma antica alle faide tra compagini malavitose, passando per i contrasti fra le varie fazioni nell’età delle signorie e i tragici episodi che seguirono l’8 settembre 1943. La sua attualità non può non essere visibile all’attenzione e alla sensibilità di Mario Martone, che già aveva allestito la tragedia di Eschilo a teatro nel 1996, dirigendola insieme ad Andrea Renzi, al quale, nel film, è assegnato il ruolo di Leo, il regista che raccatta amici attori per la città, facendo i conti con gli onnipresenti problemi cui va incontro chi vuol allestire uno spettacolo. Non è impresa delle più semplici, infatti, reperire un luogo adatto in cui dar vita a estenuanti esercizi d’affiatamento e che, nel caso dei protagonisti, va rivoltato come un guanto per adattarlo alla verosimiglianza di una location in cui inserire un’esperienza, quella vissuta da civili e da eserciti (regolari e non), che l’Europa occidentale quasi non ricordava più. La troupe trova riparo in un teatro nel seno dei Quartieri Spagnoli, mentre la zona è attraversata dal consueto conflitto per la gestione del territorio. È una delle cicatrici cittadine che Martone mostra insieme ad altre, diversamente tangibili, come la spaventosa voragine che lacerò Secondigliano, conseguenza di uno scoppio di gas avvenuto il 16 gennaio 1996, in quella periferia nord che nel decennio successivo sarà teatro di guerra di sanguinari scontri fra concittadini. Le difficoltà logistiche, come quelle personali, dei volenterosi attori, tuttavia, sembrano poca cosa nei confronti dei disagi che logorano gli assediati della città bosniaca, di cui Leo ha toccante testimonianza attraverso le lettere inviate dal suo amico musulmano che spartisce la stessa sorte degli altri, sui quali grava innanzitutto la minaccia dello spietato cecchino, “la figura principale nell’immaginario di guerra, quella che incarna in maniera esemplare il carnefice. L’uomo invisibile e freddo che spara da un tetto o dalla finestra di un appartamento in alto. Selvaggio ma professionale, avvezzo alle sofisticate tecnologie che danno al tiro la precisione di un destino ineluttabile: il cecchino e la minaccia oscura che segna i passi di quegli uomini stanchi con una tanica d’acqua in mano, di quelle donne condannate in eterno a correre curve di lenzuola sporche e strappate. È il nemico di chi è debole, ama colpire l’asilo, la scuola, l’ospedale. L’essere privo di volto lo rende invincibile, il colpo secco a distanza lo fa vile. Il giudizio morale su di lui è senza appello” (Rastello, 1998).
Tenuto conto dei riferimenti storici, locali e internazionali, Mario Martone racconta con la macchina da presa il teatro nel suo farsi (come nel suo disfarsi), mostrandoci concretamente quello che rende vicine due espressioni artistiche rese gemelle dalla imprescindibile collettività del processo creativo (e realizzativo), perché, aveva detto lo stesso regista: “Fare teatro o cinema […] è molto diverso da dipingere o scrivere poesie: sono arti di relazione, quindi, perché tu possa esprimerti a teatro o al cinema, devi esprimerti nelle relazioni […] e inevitabilmente non si può non parlare di «noi», di gruppo” (A.A. V.V., 1997). Con Teatro di guerra Martone regala alla cinematografia napoletana una preziosa opera in quegli anni che hanno segnato una significativa stagione: al suo nome, infatti, si aggiungono quelli di Antonietta De Lillo, Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Stefano Incerti, non dimenticando, come rilevò a suo tempo Goffredo Fofi, il contributo, attraverso un fittissimo scambio di esperienze, di molti altri pur talentuosi in altri settori, dalla scrittura alla musica, dalla pittura alla fotografia, oltre al teatro, riaprendo, nel loro insieme, “un dialogo che nel passato era stato più difficile tra una cultura «borghese» e una «sottoproletaria», tra un presunto «alto» e un presunto «basso»” (ibidem). Nello specifico, rispetto sia ai lavori degli altri registi appena ricordati, sia nei riguardi degli altri suoi film, con questa pellicola del 1998, Martone sembra aver pagato al proprio modo di fare cinema il debito di un certo modo di aver fatto teatro, dato che, in un’intervista, concessa qualche anno prima della realizzazione del film, aveva ricordato così i propri esordi: “Cominciai [a fare] teatro. Questo avveniva in due modi: attraverso la citazione e l’uso dell’immaginario cinematografico (spezzoni in super8, proiezione di diapositive, ricostruzione di scene di film, saccheggio di colonne sonore), oppure – in modo forse più interessante – attraverso l’applicazione del montaggio al linguaggio teatrale, intendo per montaggio un sistema di giunture dove si incrociavano e reagivano insieme parola, corpo, suono, immagine e spazio” (Sesti, 1994).
“No, mai! Finch'io duro, non dilegui questa folla santa di dèi! No vedere Tebe preda di gente sbandata, soldatesche avvolte da vampe assassine!” (Eschilo, 2015 ), aveva scritto il poeta e la Tebe di Antigone, inerme al destino che le porta via i suoi fratelli, è quella Sarajevo, punto di partenza e d’approdo di quel secolo breve raccontato da Eric J. Hobsbawm, quella stessa città che vede irrimediabilmente perduti i propri tesori custodi nella Biblioteca nazionale ed universitaria della Bosnia ed Erzegovina, oltraggiata da quelle Cupe vampe, cantate dai CSI, incendio cui fa riferimento anche Teatro di guerra in un dialogo fra Leo e una bibliotecaria slava (Lidia Koslovich), alla quale il giovane recapita un frammento superstite dell’antica struttura; ma, allo stesso tempo, è Napoli, figlia della greca Neapolis, la realtà nella quale antiche storie si rinnovano in mutati contesti, nella quale un altro cineasta della rinascita partenopea, Antonio Capuano, aveva innestato il seme di un altro capolavoro di Eschilo, l’Orestea, aprendo il film con un monologo in cui Oreste (Domenico Balsamo) confessa a un magistrato: “Abbiamo rappresentato la società della barbarie preistorica nel cuore dell’epoca della modernità; la vita tua contro la vita mia; la nostra contro la vostra; un treno pazzo, signor giudice, che non lo ferma nessuno, fino a che non esce lui stesso dai binari e scoppia”.
ASCOLTI
— Consorzio Suonatori Indipendenti, Linea Gotica, Black Out, 1996.
LETTURE
— A.A. V.V., Loro di Napoli. Il nuovo cinema napoletano 1986-1997, Edizioni della Battaglia, Palermo, 1997.
— Stefano Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze, 1999.
— Eschilo, I sette contro Tebe, in Eschilo, Prometeo incatenato-I persiani-I sette contro Tebe-Le supplici, Garzanti, Milano, 2015.
— Eschilo, Orestea, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2014.
— Thomas Hobbes, Leviatano, La Nuova Italia, Firenze, 1997.
— Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2014.
— Mario Sesti, Nuovo Cinema Italiano, Theoria, Roma–Napoli, 1994.
— Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino, 1998.
VISIONI
— Antonio Capuano, Luna Rossa, DNA, 2013.