VISIONI / THE IMITATION GAME
di Morten Tyldum / Black Bear Pictures, Bristol Automotive, 2014
Segreti di Sua Maestà o di Pulcinella?
di Adolfo Fattori
Ispirato al libro Alan Turing. Storia di un enigma di Andrew Hodges, The Imitation Game racconta una storia di segreti. Ferocemente difesi, (in)decorosamente nascosti, discretamente elusi, alla fine tutti svelati.
Il segreto di “Enigma”, l’impenetrabile sistema di codifica e decodifica con cui i comandi della Kriegsmarine, la marina da guerra nazista comunicavano gli ordini durante la guerra. Segreto svelato grazie al contributo fondamentale di uno dei più grandi geni matematici del Novecento, Alan Turing. Il segreto su questa impresa, che il governo britannico ha mantenuto per trent’anni.
Il segreto privato di Turing, omosessuale, quindi un criminale per lo stesso Paese che lo aveva arruolato per sconfiggere un nemico con cui – evidentemente – aveva almeno un tratto in comune: l’omofobia inflessibile, spietata. Fino al suicidio (incoraggiato, per alcuni) del matematico che per non finire in galera aveva accettato la proposta della legge inglese di sottoporsi alla castrazione chimica, affrontando insopportabili sofferenze.
Il film che racconta questa storia manipola in parte le cose, spinge sulla dimensione narrativa, melodrammatica, nella migliore tradizione di quel cinema biografico di origine americana – ma spesso esportata – che si concentra su un personaggio storico per amplificare, forzare la mano su alcuni aspetti della sua vicenda personale, di quelle storiche del periodo, dell’ambiente circostante.
D’altra parte, è una delle strategie necessarie alla finzione narrativa, quella di “mentire” quando si racconta: si inventano mondi e universi interi… e in tono minore, si “forzano” le realtà storiche e biografiche. L’importante è raggiungere l’obiettivo: disegnare una personalità “idealtipica”, collocarla in una realtà storico/sociale/affettiva specifica, e mostrarne i conflitti interiori e con il mondo esterno.
Se per alcuni è stata una “occasione persa” per mettere in scena la complessità della personalità dello scienziato e l’intreccio delle vicende in cui fu coinvolto e protagonista, rimane il fatto che almeno serve a mettere in rilievo – certo, nella logica di un certo cinema che semplifica gli sfondi e amplifica le superfici in funzione del sentimento e dell’emozione – uno degli uomini più importanti del Novecento, seppur meno conosciuti e riconosciuti. Colui che dopo aver contribuito in termini giganteschi, anche se nel segreto di un capannone, a elaborare uno strumento per sconfiggere il nazismo, ha posto le basi perché si sviluppasse quello che oggi chiamiamo computer, ma che nasce, guarda un po’, come “macchina di Turing”.
In breve: Alan Turing, genio matematico e studioso del linguaggio viene convocato ed arruolato, insieme a un gruppetto di altri studiosi, per trovare il modo di decifrare i messaggi che il comando della Kriegsmarine trasmetteva alle sue navi grazie al sistema “Enigma”, considerata virtualmente inviolabile.
Alan è un personaggio bizzarro: appare arrogante, dimentico delle buone maniere, quasi sprezzante, nel suo modo di fare. A pensarci col senno di poi (di oggi) rivela quelli che sembrano tratti autistici: risponde in maniera strettamente referenziale, sembra incapace di cogliere le metafore in uso nel linguaggio comune, è incapace di ironia e umorismo… “Le persone non dicono mai quello che vogliono dire, dicono sempre altro. Eppure si aspettano che tu le capisca ma io non li capisco…”.
È però un genio del calcolo e del ragionamento matematico. E viene arruolato. Nasconde – quasi ignora, sembra, a vedere il film – la sua omosessualità. Messo in guardia, si sposa con una donna che ne è al corrente e non gli dà peso. Ma dopo la guerra, a “dovere” compiuto, viene scoperto. Per non andare in carcere, accetta la castrazione chimica, che lo distrugge fisicamente e psicologicamente. Fino al suicidio, affrontato mangiando una mela imbevuta di cianuro, in omaggio – forse – all’unico vero, grande amore della sua vita. Un amore immaginario: la Biancaneve delle favole.
La pellicola, organizzata come un lungo flashback in cui Turing racconta in una squallida stanza per interrogatori la sua intera storia al poliziotto che, chiamato per un furto in casa dello scienziato, scopre qualcosa che lo spinge ad indagare più a fondo, e lo conduce alla stazione di polizia per interrogarlo, si nutre di un montaggio serrato, che va avanti e indietro nel tempo, fra la giovinezza di Alan, la sua età adulta, il lavoro segreto per l’esercito inglese.
Spiazzanti e per certi versi rivelatrici le affermazioni, in apertura, con cui Turing apre il suo racconto al poliziotto, la scena che scorre in casa di Alan mentre la sua voce off recita:
“Non farò pause, non mi ripeterò. E lei non mi interromperà. Se mi fa una domanda, la ignorerò. Lei crede di sedere lì dove siede, e che io siedo dove siedo, perché ha il controllo di ciò che sta per succedere. È in errore. Ho io il controllo, perché so cose che lei non sa”.
Altero, orgoglioso, indipendente. Non offensivo, semplicemente referenziale. Ho io il controllo, perché so cose che lei non sa. Tutto ciò che riguarda il ruolo – suo e dei suoi colleghi – durante la guerra. E forse non solo. Forse anche tutto ciò che la sua mente matematica articola, e che è incomprensibile per la maggior parte degli altri esseri umani. Ciò che spinge il detective ad indagare più in profondità, solo per sbattere, frustrato, contro il segreto di stato. Segreto – eccone un altro – che verrà sollevato solo negli anni Settanta del secolo scorso, e che farà conoscere alla comunità scientifica più ampia, oltre che all’opinione pubblica, il peso gigantesco della guerra occulta condotta da Alan Turing e dai suoi compagni.
Fin quando, molto di recente, nel 2013, accettando graziosamente la richiesta di un gruppo internazionale di scienziati, fra cui Stephen Hawking, la regina Elisabetta troverà il tempo per concedere il perdono postumo a Turing assolvendolo per la sua omosessualità – cosa che in Gran Bretagna non era più reato dal – lontano per un verso, recente per un altro – 1967, quando il vento del Sessantotto cominciava a fischiare, proveniente dall’America.
Ecco, al di là della denuncia della mancanza di riconoscenza del suo governo verso il suo contributo alla guerra, uno dei meriti del film di Morten Tyldum è quello di aver fatto riemergere il ricordo di uno degli “autori” del mondo in cui viviamo. Come Nikola Telsa (anche lui misconosciuto) per l’uso dell’elettricità, Turing per gli studi su quella che oggi conosciamo come Intelligenza Artificiale, un’entità che impari dall’esperienza, e che, magari possa anche provare emozioni. Entità ancora teorica, se è per questo, che rimane – per restare al cinema – allo stato di interrogativo in 2001 Odissea nello spazio (Cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 23), e sembra già risolta in Blade Runner con l’introduzione del “test di Voight-Kampff” che serve a distinguere gli androidi dagli esseri umani (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 15).
Ci sono voluti quarant’anni circa, insomma, dopo la rimozione del segreto di stato sul contributo di Alan Turing alla vittoria alleata contro Hitler perché venisse risolto l’imbarazzante non-segreto dell’omosessualità dello scienziato, in una Gran Bretagna evidentemente ancora pudibonda e morbosamente attaccata a un’immagine di sé paludata e bacchettona. Un ultimo atto, compiuto in ritardo, per il riconoscimento ormai inutile, almeno per lui, della sua grandezza. Riconoscimento tardivo anche da parte della comunità scientifica, se è per questo, visto che difficilmente nella prima letteratura sulla cibernetica e la scienza dei robot e dei computer si trovano citazioni – e quindi omaggi e riconoscimenti – agli studi e alle pionieristiche riflessioni dello scienziato inglese, il primo a immaginare la possibilità di realizzare una “macchina per pensare”. Studi che ispirarono senz’altro John von Neumann, l’ungaro-americano che collaborò al “Progetto Manhattan” e poi si dedicò alla cibernetica, l’unico, insieme a Turing, che davvero può essere considerato il padre dei computer attuali. Ancora dal film, una delle leggere forzature che vogliono rendere il senso del suo contributo alla fondazione di una scienza delle “macchine simulanti” (Perrella, Strino, 1980):
“Può una macchina pensare come un essere umano? Molti dicono di no. Il problema è che è una domanda stupida. È ovvio che le macchine non possono pensare come le persone. Una macchina è diversa da una persona e pensa in modo diverso. La domanda interessante è poiché qualcosa pensa diversamente da noi vuol forse dire che non sta pensando? Noi ammettiamo che gli esseri umani abbiano divergenze gli uni dagli altri. Lei ama le fragole, io odio pattinare, lei piange ai film tristi, io invece sono allergico al polline. Qual è il punto di avere gusti diversi, diverse preferenze se non mostrare che i cervelli lavorano diversamente e che pensiamo diversamente. E se diciamo questo delle persone non possiamo dire lo stesso di cervelli fatti di rame e acciaio e cavi?”
Se vogliamo, la premessa, e la traduzione nel discorso per il cinema di quello che Turing scrive in Computing Machinery and Intelligence, il suo fondamentale scritto del 1950 (in cui introduce il “gioco dell’imitazione” che fa da titolo al film) sulla verifica della possibilità di costruire macchine pensanti:
“Mi propongo di considerare la domanda «Le macchine possono pensare?». Si dovrebbe cominciare col definire il significato dei termini «macchina» and «pensare». Le definizioni potrebbero essere formulate in modo da riflettere al massimo grado l’uso normale di queste parole, ma in ciò vi sono dei pericoli […] Invece di tentare di dare una definizione del genere, sostituirò quella domanda con un’altra, che è strettamente connessa alla prima ed è espressa con parole relativamente non ambigue.
La nuova forma del problema può essere descritta ricorrendo a un gioco che chiameremo «il gioco dell’imitazione». Vi sono tre giocatori: un uomo (A), una donna (B), e un interrogante (C) che può essere dell’uno o dell’altro sesso. L’interrogante sta in una stanza da solo, separato dagli altri due. Scopo del gioco per l’intewrrogante è quello di determinare quale delle altre due persone sia l’uomo e quale la donna […]
Scopo di A nel gioco è quello di ingannare C e d’indurlo a sbagliare l’identificazione. […]
Scopo del gioco per il terzo giocatore (B) è quello di aiutare l’interrogante […]
Ora chiediamoci: «Che cosa succederà se in questo gioco una macchina prenderà il posto di A?» L’interrogante sbaglierà altrettanto spesso in questo caso di quando il gioco è effettuato da un uomo e da una donna? Queste domande sostituiscono la nostra domanda originale, «Le macchine possono pensare?»” (Hofstadter, Dennett, 1985).
In sintesi, per provare se una macchina può pensare, Turing propone di sostituirla, nel suo gioco, a un giocatore umano, e verificare se si comporterebbe – assegnatole lo stesso compito che aveva il giocatore – nello stesso modo. Rispettando la consegna, e imparando dall’esperienza per continuare a rispettarla. In questo caso, penserebbe. Non necessariamente come un umano, ma penserebbe.
E su questa base, nascerà la “scienza dei calcolatori” di cui, finalmente, dopo molti anni, almeno nella letteratura specializzata, si comincerà a dare il merito al matematico inglese. Così Douglas Hofstadter, nel suo monumentale e godibilissimo Gödel, Escher, Bach, pubblicato nel 1979, e poi insieme a Daniel Dennett in L’Io della mente, uscito nel 1981, e ancora Dennett da solo in Coscienza, pubblicato originariamente nel 1991, fino a trovarne traccia indiretta in testi meno recenti, situati agli albori di questi studi, come nel Saggio introduttivo di Maurizio Nasti a Introduzione alla cibernetica (uscito nel 1956) dello psichiatra e neurologo inglese, William Ross Ashby, pioniere della cibernetica e fondatore di quella che verrà poi chiamata “teoria generale dei sistemi”: Ashby ignora il lavoro del connazionale e contemporaneo Turing, ma Nasti non può fare a meno di ricordarlo e rendergli merito…
Oggi i nostri computer, rispetto a quelli delle origini, sono di una potenza titanica, allora immaginabile solo dalle menti più visionarie. Non è più in discussione la loro potenza e velocità di calcolo. Al massimo rimane un dubbio: se prima o poi potranno rispondere alla domanda che si poneva Philip K. Dick nei suoi romanzi: Cosa ci rende umani, e cosa ci distingue dalle macchine? Ammesso che ci sia in futuro ancora una differenza.
Un dato è certo. Come scrive Daniel Dennett in Coscienza,
“Due dei più importanti inventori dei calcolatori furono il matematico inglese Alan Turing e il fisico e matematico ungaro-americano John von Neumann. Benché Turing abbia avuto una grande esperienza pratica diretta progettando e costruendo le macchine elettroniche appositamente studiate per decifrare i codici segreti che aiutarono gli alleati a vincere la seconda guerra mondiale, è al suo lavoro teorico esclusivamente astratto, e cioè allo sviluppo del concetto di macchina di Turing Universale, che dobbiamo l’avvio dell’era dei calcolatori” (Dennett, 1993).
LETTURE
— Daniel C. Dennett, Coscienza, Rizzoli, Milano, 1993.
— Andrew Hodges, Alan Turing. Storia di un enigma, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.
— Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach Un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano, 1984.
— Douglas R. Hofstadter, Daniel C. Dennett, L’Io della mente, Adelphi, Milano, 1985.
— Giuseppe Perrella, Raffaele Strino, Le macchine simulanti, Theorema, Roma, 1980.
— William Ross Ashby, Introduzione alla cibernetica, Einaudi, Torino, 1971.
— Alan Turing, Computing Machinery and Intelligence, “Mind” n. 49, 1950.
VISIONI
— Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello spazio, Warner Home Video, 2014 (home video).
— Ridley Scott, Blade Runner, Warner Home Video, 2008 (home video).