LETTURE / DIVORATI


di David Cronenberg / Bompiani, Milano, 2014 / € 18,50, pp. 343


 

L'uomo è indigesto

 

di Adolfo Fattori

 

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“L’uomo è antiquato”, sosteneva il filosofo conservatore Günther Anders, intitolando così, nel 1980 (1992), uno dei suoi saggi più famosi e attuali, battezzando come “terza rivoluzione industriale” quella che secondo lui – dopo la prima, che ha riguardato le macchine, e la seconda che ha inventato i consumi – ha portato ad una radicale minaccia alla salute dell’ambiente in cui viviamo, a causa, senz’altro della dipendenza sempre maggiore dalle tecnologie, e, potremmo aggiungere, alla integrazione sempre più forte fra organico e artificiale (cfr. Fattori, 2013). Una fra le prime – magari inconsapevoli – riflessioni che avrebbero molto più tardi, nei nostri anni, portato all’ipotesi che il tempo dell’Umano nel mondo sia al termine (Abruzzese, 2011; Fattori, 2012), e che ci si stia affacciando all’avvento di una condizione che potremmo definire del postumano, una dimensione ancora tutta da esplorare nelle sue articolazioni. Forse David Cronenberg, scrivendo il suo primo romanzo, Divorati, pensava anche a questo, mettendo nel calderone dello scenario che architetta tecnologie audiovisive, pratiche chirurgiche estreme, connettività, nevrosi, post-filosofie, che hanno tutte, come nei suoi film, al loro centro il corpo – i suoi difetti, le sue ambizioni, le sue condanne, le sue trasformazioni e contaminazioni.

Al fianco del tedesco Anders ci sembra traspaia la presenza del pensatore, canadese come Cronenberg, Marshall McLuhan (che già pare gli avesse ispirato il personaggio del professore Brian O'Blivion nel film Videodrome [2002], girato dal regista nel 1983: cfr. Auger, 2011), e in particolare il primo McLuhan, quello di La sposa meccanica (1984), pubblicato nel 1951, per la critica con forti venature “apocalittiche” che lo studioso conduce alla cultura di massa e ai mass media (cfr. Brancato, 2014).

La storia che ci racconta il regista ha quasi l’andamento di una doppia quadriglia: da un lato c’è una coppia di fotogiornalisti nordamericani freelance, Naomi e Nathan. Dall’altra, due intellettuali francesi, Aristide e Célestine Arosteguy. Oltre loro quattro, altri personaggi, anch’essi uniti sotterraneamente a coppie da sottili legami. I due fotografi, professionisti già riconosciuti ma ancora a caccia della definitiva affermazione in un settore lavorativo, quello delle grandi agenzie di comunicazione, che non può dare stabilità – che d’altra parte confliggerebbe con il loro desiderio di autonomia, sono in viaggio, Nathan in Ungheria, Naomi in Francia.

Nathan sta seguendo il lavoro al limite della legalità e dell’etica di un chirurgo ungherese, Zoltán Molnár, in bilico fra ricerca chirurgica avanzata e sottili, striscianti ossessioni erotiche venate di sadismo; Naomi, la vicenda dei due notissimi francesi, una coppia di philosophes scandalosi e – perciò? – estremamente trendy, famosi per le loro teorizzazioni radicali sulla relazione fra corpo, consumi, capitalismo e per la sbandierata e teorizzata promiscuità con i loro allievi, in fondo incapaci di accettare il percorso verso la propria senescenza, e al tempo del racconto assurti alle cronache perché pare che lui, Aristide Arosteguy, abbia ucciso e poi divorato lei, Célestine, o almeno alcune parti del suo corpo – cosa ampiamente e non si sa quanto a sua insaputa documentata sul Web.

Mentre la polizia indaga – il caso è chiaramente esplosivo – Naomi si mette a caccia di Aristide, che sembra svanito nel nulla, e, attraverso un allievo di questi affetto da una bizzarra e rara deformazione del pene, Hervé Blomqvist, e di una sua amica giapponese aspirante giornalista, Yukie, scopre che probabilmente si è rifugiato in Giappone, dove riesce a rintracciarlo, rimanendo naturalmente coinvolta dal suo strano fascino.

Intanto Nathan si accorge di aver contratto da Dunja, la malata di cancro operata spericolatamente da Molnár con l’introduzione nei seni di minuscole palline radioattive, e con cui il fotografo ha fatto sesso, una rara malattia venerea, la cui cura è stata scoperta da un anziano ricercatore canadese, ormai ritiratosi, il dottor Roiphe, e vola in Canada (dopo, peraltro, aver rivisto Naomi, e averla – forse – contagiata).

I nodi – della storia e del racconto – cominciano a venire al pettine, rivelando incroci e intrecci imprevisti e fatidici fra i personaggi delle due linee narrative, quella che fa capo a Nathan, e quella che si svolge attorno a Naomi.

La figlia di Roiphe, Chase, un’ossessiva che ogni giorno inscena un rituale durante il quale si tagliuzza piccole parti del corpo e se ne nutre imbastendo una specie di tea party solitario quasi da casa delle bambole, è stata allieva degli Arosteguy ed è stata coinvolta nelle loro sperimentazioni erotiche; Blomqvist collabora con lei spedendole via web delle foto del suo pene che Chase usa per realizzare bizzarre sculture con l’aiuto di una stampante 3D (ed ecco un’altra coppia del balletto); Célestine, convinta nel suo delirio ormai senile di avere un nido di insetti in uno dei seni, ha conosciuto insieme al marito il dottor Molnár ed è stata operata a Budapest; sullo sfondo c’è la repubblica Nord-coreana dove vivrebbe un regista, ammirato dalla donna e sostenuto dal regime, che ha realizzato un film sulla vita degli insetti…

Delineato il quadro delle relazioni fra i personaggi – e delle loro ossessioni – finalmente il racconto accelera, attraverso la lunga confessione/memoriale che Aristide ammannisce a Naomi, raccontandole l’intera vicenda: la rappresentazione della morte di Célestine e del pasto che ne è seguito, gli agganci con la Corea del nord, l’intreccio fra realtà e mimesi che fa da sfondo alle azioni grazie all’uso spericolato e sapiente dei media e delle tecnologie di registrazione e riproduzione di suoni, immagini, oggetti…

E qui lasciamo al lettore il piacere di scoprire il resto.

Affrontiamo piuttosto lo stile con cui il regista canadese narra la sua storia e l’impianto della stessa, i temi messi in campo, le derive che lascia intravedere.

Intanto, l’andamento della narrazione, che parte compassata, lenta, quasi senza una direzione, per poi accelerare e cominciare a dar conto di tutti i materiali messi in campo, così che il lettore – appena un attimo prima di ritrarsi deluso – si rende conto che il ritmo rallentato era necessario a costruire la mappa, il “set” su cui i personaggi si muovono, e giustificarne le azioni.

Poi, la meticolosa, ossessiva precisione nel nominare i gadget tecnologici usati dai vari personaggi – foto/videocamere, registratori, computer, cellulari – indicandone il modello, la marca, a volte le prestazioni, sia quelli all’avanguardia sia quelli più “vintage”, quindi “di culto”, specialmente per i due fotografi, a mimare esattamente il loro rapporto con le tecnologie, cui fa da contrappunto la critica che si riconosce blasé e aristocratica, ma sostanzialmente strumentale, dei due filosofi alla società dei… postconsumi, potremmo dire?

Ancora, i due maitre à penser francesi, da cui traspare l’arroganza, la presunzione di una certa élite intellettuale, magari residui di un tempo ormai lontano le cui vestigia pretenziosamente ribelli sopravvivono nei discorsi e nelle pratiche private solo grazie al potere del censo e di un riconoscimento sociale derivato, di seconda mano, nutrito principalmente da media onnivori e perennemente affamati e da istituzioni culturali ormai in disarmo, che possono solo far quadrato attorno ai propri rappresentanti, anche quando “scandalosi” come gli Arosteguy.

Ecco, la cifra dello scandalo è quella che marca i due filosofi – uno scandalo che però è, di fatto, istituzionalizzato e quindi tollerato, celebrato: dai media, naturalmente, ma anche dalle istituzioni: si tratta di due rappresentanti della grandeur francese!

Fin quando non trasborda – a quanto sembra – oltre uno dei due tabù radicali della Modernità, insieme all’incesto: l’antropofagia...

Due figure, gli Arosteguy, che sembrano uscite dalla matita di Gérard Lauzier, sarcastico e feroce critico della società francese affluente degli anni Ottanta del XX secolo, come in La rivoluzione sessuale di Peter e Zizi’ (Lauzier, 1980), o dalle riflessioni di Pascal Bruckner o Jean Baudrillard sullo stesso periodo e gli stessi ceti sociali.

Dall’altro lato, i due fotogiornalisti nordamericani, espressione anche loro di una élite, anche se, nella sostanza, senza potere: più che altro, appartenenti a quel ceto di professionisti di alto livello, ma destinati a un precariato a vita, fatto di alti e bassi – e di dipendenza dal potere vero, quello dei network Tv e della carta stampata – aggressivi, rampanti, cinici in apparenza, ma nei fatti fragili, incerti, insicuri di fronte agli imprevisti. Maniaci delle tecnologie con cui lavorano, sono ossessionati dai propri giocattoli, e da quelli che vorrebbero ma non possono avere, al continuo inseguimento di gratificazioni che solo la tecnologia sentono gli potrebbe dare, individui che corrono dappertutto per ritrovarsi poi sempre nello stesso punto…

Attorno a loro, i comprimari: individui a caccia di fama riflessa, tributari della notorietà o della posizione dei protagonisti, come Hervé e Yukie, o deboli, sconfitti, come Dunja e Chase. Sullo sfondo, una specie di fantasma, che non appare mai, il regista d’avanguardia Romme Vertegaal, autore di un bizzarro film dal titolo Il giudizioso utilizzo degli insetti, portato in concorso a Cannes e casus belli per una scenataccia dei due filosofi – forse di propaganda, forse di critica – che vive nascosto in Corea del nord muovendo le fila di non si sa quale piano. Un film diventato rapidamente di culto, naturalmente quasi fantasma. Un omaggio al Thomas Pinchon di L’incanto del lotto 49 (2005) pubblicato nel 1966, forse?

Continuamente Cronenberg torna alle sue manie, quelle che ha distribuito nei film che ha diretto: nel 1983 il potere manipolatorio dei mass-media (Videodrome), nel 1986 la fusione fra gli insetti e il corpo umano (La mosca, 2014), due anni dopo le frontiere estreme della chirurgia (Inseparabili, 2010), nel 1996 le commistioni fra tecnologia e corpo (Crash, 2008), dopo tre anni la confusione fra realtà e illusione (eXistenZ, 2000).

Le tecnologie della comunicazione e dell’informazione imperano, sono ormai trama e ordito del tessuto sociale, la materia prima dell’ambiente che lega gli individui, destinati comunque a rimanere chiusi nelle loro interiorità, nonostante gli sporadici, poco convinti, abitudinari tentativi di imbastire una qualche relazione più profonda: il sesso, la forma primaria di questi sforzi, percepita come l’unico, quasi dovuto, modo di “comunicare”, non va oltre l’episodio, la consuetudine routinaria, un fatto ormai di etichetta, di savoir vivre… Nella sua scrittura Cronenberg è contiguo a William Gibson, canadese come lui, nello scegliere i personaggi, nel descriverli, nella narrazione piana, neutrale, documentaria – come in uno dei suoi film, d’altra parte; e deve molto al James G. Ballard di Crash (2004), certo, ma anche di La mostra delle atrocità (2001, cfr. Fattori, 2009), pubblicati il primo nel 1973, il secondo nel 1969; come qui e là spunta la vicinanza con il David Foster Wallace di Oblio, (2004) ad esempio, nella descrizione meticolosa di tecnologie, oggetti, capi di vestiario.

La vicinanza con Gibson o Ballard (e anche Pynchon, per certi versi) potrebbe far pensare ad una ambientazione da fantascienza, spostata di qualche anno nel nostro futuro, ma questa impressione pensiamo sarebbe fuorviante. Il regista descrive il presente – o almeno il presente possibile se si pensa ad alcuni ambienti culturali o professionali. Le tecnologie di cui scrive sono tutte già disponibili sul mercato, per esempio, anche se non alla portata di tutti. I mezzi di trasposto e comunicazione anche. Le relazioni sociali, anche.

È altrove che bisogna cercare il senso di straniamento che comunque il romanzo riverbera, la percezione di una stagnazione infinita, cominciata chissà quando, e destinata a durare ancora per chissà quanto tempo, come se il mutamento sociale si sia fermato, ripiegato su se stesso.

Il centro nevralgico su cui ruota l’asse del romanzo del canadese rimane lo stesso di tutti i suoi film: il corpo, le contaminazioni e i traumi che subisce, i tentativi di esplorarne le polarità e le opzioni, in un ambiente ormai solo antropico che è una tecnosfera, una mediasfera totali, dove la natura ha ormai un ruolo residuale, ancillare: se ne traggono le materie necessarie al funzionamento del mercato globale. Un tema che rimane comunque taciuto, marginale, superato, esaurito. Günther Anders ha già detto il necessario, sul tema, è inutile tornarci su.

Ma, passando da un apocalittico all’altro, il rapporto corpo/ambiente artificiale spiega il sottile legame che ci sembra di intuire con l’opera di Marshall McLuhan citata più sopra, La sposa meccanica. Come scrive il sociologo Sergio Brancato, “Il nucleo più interessante che attraversa e lega la dimensione frammentaria del libro di McLuhan è il collegamento che questi istituisce tra la tecnologia, intesa come la causa di una «costante rivoluzione sociale», e la cultura di massa quale elemento funzionale all’espansione dei consumi […] per lui la natura tecnologica dei media non sembra assumere in sé e per sé un aspetto negativo, bensì le dinamiche di una ridefinizione del corpo individuale nell’ambito delle relazioni socialmente date.” (Brancato, cit., primo corsivo nel testo, secondo corsivo nostro, ndr).

Ecco, in Divorati ritroviamo esattamente questi elementi: il primato del consumo che precipita nell’ossessione per gli strumenti di registrazione e riproduzione audiovisiva, che ne sono d’altra parte i messaggeri; la tensione a riorganizzare i corpi in funzione delle tecnologie e ad assumerne fino in fondo, anche se in maniera morbosa, eccentrica, la natura di primo canale e strumento di scambio comunicativo, come nel caso di Hervé e di Chase; la cifra manipolatoria e ambigua intrinseca nei media, come nel caso della messa in scena della morte e della ingestione di parti del corpo di Célestine, in particolare il suo seno, proprio quello in cui la donna avverte la presenza di un groviglio di insetti – gli stessi del film di Vertegaal…

Ma tutto ciò, senza dover per forza costruire attorno alle vicende uno scenario futuro: quello che Cronenberg ci illustra è il nostro presente, un presente che però avvertiamo essere un passato, quello – come sensibilità, caratteri, discorsi, pulsioni – fermo agli anni Ottanta del Novecento, con i suoi intellettuali arroganti, i suoi professionisti rampanti, i media ormai egemoni, ma senza “grandi fratelli”, tecnologie della sorveglianza e del controllo onnipresenti (cfr. Fattori, 2014), deliri complottisti invadenti e isterici. Solo il web è quello che conosciamo noi, e naturalmente gli strumenti che usano i due fotografi. Ma è come se il resto della realtà sociale si sia fermato ad allora.

Anzi, a ben vedere, è un mondo in cui l’unica ipotesi che si è realizzata, trasformandosi quindi in profezia, è del 1967: quella di Guy Debord, a proposito della deriva che avrebbe preso la società dei consumi, trasformandosi in “società dello spettacolo” (Debord, 2013; cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 10): sono proprio i due Arosteguy a denunciarla, con un’operazione intimamente “situazionista”: lo spettacolo della morte e del “pasto nudo” (ci si conceda questa allusione ad un altro dei film del canadese. Quello tratto nel 1991 [2011] dal romanzo di William Burroughs del 1959, Pasto nudo [2001]) del seno di Célestine da parte di Aristide, simulato e mediatizzato ad arte, grazie ad una stampante 3D, a una videocamera e al Web.

Ci troviamo ad aver tracciato la mappa di uno degli assi portanti dell’atmosfera del postmoderno, che ha radici ben più lontane di quanto dica il momento storico in cui il termine è entrato in voga, gli anni Ottanta (appunto), e che ha a che fare proprio con la rivoluzione della percezione dello scorrere del tempo e della produzione di merci estetiche e cultura, oltre che della rielaborazione di tutti i materiali culturali possibili.

Nel 1951 Marshall McLuhan inaugura le riflessioni sulla società nata dalla II guerra mondiale, e sull’avanzante sinergia fra comunicazione, mercato, corpo del consumatore (e, aggiungiamo, comincia a svilupparsi la cibernetica, la “scienza del controllo e della comunicazione che condurrà ai robot, ai computer e alla Rete); nel 1967 Guy Debord mette a fuoco la dimensione spettacolare della società dei consumi e, quindi, del corpo; a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta Ballard scrive i suoi romanzi più “postmoderni” e radicali, per non parlare di Pynchon e della sua lunga militanza di scrittore fantasma (dimensione postmoderna di per sé, da un certo punto di vista…); i decenni Ottanta e Novanta sono quelli dei romanzi di Gibson e del cyberpunk, dei film di Cronenberg e della sua consacrazione – e quelli della reaganomics, della riorganizzazione del mercato globale, della deriva “muscolare” di tutte le opzioni sociali, della “fine delle grandi narrazioni”, della definitiva spinta all’individualizzazione e all’individualismo, ma anche ad un profondo senso di incertezza e disorientamento. E con quello, la stagnazione, la stasi, la palude delle identità e delle prospettive.

Sono anche gli anni in cui le tecnologie della comunicazione raggiungono il loro zenith, si sviluppano le analisi sulla simulazione, l’iperrealtà, il virtuale. E, dopo il termine “postmoderno”, si comincia a usare il termine “postumano”, cominciando a chiedersi, una volta che l’umano, così come definito dalla Modernità è al tramonto, cosa ci attende. A leggere David Cronenberg e il suo Divorati parrebbe che la postumanità sia fatta di individui scostanti, instabili, egoisti, isolati, che non si sono mai emancipati davvero dagli aspetti meno attraenti della condizione umana moderna di cui rappresentano solo i fantasmi, senza neanche la nostalgia del proprio passato glorioso (cfr. Ferrara, Fucile, 2014). Diventando antiquati, come merce avariata. Indigeribili, indigesti.


 

LETTURE

  Alberto Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.
Günther Anders, L’uomo è antiquato, Boringhieri, Torino, 1992.
Emily E. Auger, Tech-Noir Film. A theory of the Development of Popular Genres, Bristol, U.K. / Chicago, USA, Intellect, 2011.
James G. Ballard, Crash, Feltrinelli, Milano, 2004.
James G. Ballard, La mostra delle atrocità, Feltrinelli, Milano, 2001.
Sergio Brancato, Fantasmi della modernità, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
William Burroughs, Pasto nudo, Adelphi, Milano, 2001.
Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2013.
David Foster Wallace, Oblio, Einaudi, Torino, 2004.
Marshall McLuhan, La sposa meccanica, Sugar, Milano, 1984.
Thomas Pinchon, L’incanto del lotto 49, Einaudi, Torino, 2005.

 


 

VISIONI

  David Cronenberg, Videodrome, Universal Pictures, 2002 (home video).
David Cronenberg, eXistenZ, Cecchi Gori Home Video, 2000 (home video).
David Cronenberg, Il pasto nudo, Eagle Pictures, 2011 (home video).
David Cronenberg, Crash, Terminal Video, 2008 (home video).
David Cronenberg, La mosca, 20th Century Fox Home Entertainment, 2014 (home video).
David Cronenberg, Inseparabili, Cecchi Gori Home Video, 2010 (home video).
Gérard Lauzier, La rivoluzione sessuale di Peter e Zizi’, Editiemme, Milano, 1980.