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C’è un castello a San Francisco,
costruito circa un secolo fa, tra il 1912 e il 1914, per
fungere da armeria e arsenale della Guardia Nazionale. Comunemente lo
si indica come The Armory e fu la base per la sanguinosa repressione
dello sciopero generale nel 1934 (il famoso Bloody Thursday).
Il castello dall’aria moresca venne chiuso nel 1976, quando
la Guardia Nazionale si trasferì a Fort Funston. Ci si
chiese che farsene, come ristrutturarlo, venne usato per girare alcune
scene in interno di Star Wars, si parlò
di trasformarlo in una clinica, in appartamenti di lusso, in palestra e
così via. Fino al 2006, trent’anni che avevano
portato a un progressivo degrado della struttura. È in
quell’anno che una società di produzione leader
nell’intrattenimento cosiddetto BDSM (bondage sadomaso) in
rete, acquista l’Armory e lo trasforma in set per realizzare
i video da trasmettere su uno dei propri siti, poiché, come
il marketing insegna, il business si incrementa segmentando
l’offerta. Qui si occupa di dominazione e sottomissione e il
sito in questione offre tutte le possibili variazioni sul tema, che, in
buona sostanza, scaturiscono dal tema di O,
la fanciulla protagonista dell’omonimo romanzo di Pauline
Réage (pseudonimo di Dominique Aury).
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi
attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
Viene
fatta propria e sperimentata nei termini della produzione pornografica
da alcuni gruppi e collettivi europei, i quali hanno virtuosamente
riattraversato la presunta barriera tra reale e virtuale riconnettendo
la sfera dell’analisi e dell’esperienza collettiva
reale con lo spettro del networking virtuale e producendo esperimenti
estremamente interessanti dal punto di vista sia estetico sia del
contenuto. Alcuni di questi progetti, come Girlswholikeporno,
Ex-dona (entrambe di Barcellona), e Panik
Qulture (di Parigi), sono ormai celebri, pur restando
all’interno di questo settore specifico della produzione
culturale.
Nel caso di Girlswholikeporno, il progetto, nato dalla mente e dalla
creatività di due attiviste di Barcellona, ha finito per
coinvolgere numerose persone più o meno attive nella scena
underground e politica della capitale catalana, soprattutto attraverso
workshop periodici di discussione e di produzione di materiale video
– dapprima riservati a sole donne e successivamente aperti a
tutti. Ogni produzione è stata uploadata sul blog del
progetto e fatta oggetto di proiezioni durante festival del cinema
indipendente (porno e non solo): si tratta di produzioni ad accesso
libero basate sulla decodificazione – collettiva –
del linguaggio pornografico e di alcuni suoi elementi topici
(l’eterosessualità dominante per quanto riguarda
il porno mainstream, la penetrazione, lo strip-tease, la
nudità, l’inquadratura dei genitali, alcune scene
tipo, l’abbigliamento e i cliché della
recitazione). L’attivazione di un blog, piuttosto che di un
sito, rende possibile l’interazione tra i naviganti e le
owners mediante la forma del commento. L’accesso libero ai
video, poi, e la pubblicazione delle date dei workshop e del riassunto
di ciò che avviene all’interno di quelle
esperienze permette la veicolazione ad ampio raggio di contenuti e
forme di questa sperimentazione post-pornografica.
Analizzando come il corpo-trash ha preso
il controllo della televisione è da sottolineare una
crescita esponenziale della logica del reality-show,
che è divenuto il mezzo trash per
eccellenza, in quanto risponde alla logica del buco della serratura:
guardare senza essere visti, criticare senza che nessuno possa
ribattere, denigrare continuando comunque a guardare come ipnotizzati
dalla nostra stessa curiosità. In un primo momento il lancio
del padre dei reality, il Grande Fratello,
ha riscosso un notevole successo perché dava la
possibilità di soddisfare il desiderio di tutti: vedere cosa
succede nella casa dei vicini, vedere come ci si comporta trovandosi
nella condizione di non dover fare niente, vedere…
vedere… vedere…
È stratosferica, geme e grida di piacere, sussurra
eccitata, la voce ora cristallina, ora roca è un film sonoro
che riesce anche a far dimenticare certi strani grugniti e rantoli
posti in sottofondo, che sembrano tutt’altro che frutto della
passione amorosa. Inutile interrogarsi sul pezzo migliore, anche se
forse a lasciare il segno è Koi No Dore.
In ogni caso, questa è in breve la storia di una cantante
discreta, stellina di un genere minore, di un pugno di canzoni
dimenticabili, ma segni forti di un’epoca finita, di quando,
una volta c’era l’osé, il sottogenere
spinto, sempre in compagnia dei suoi attributi: la malizia, la
pruderie, il proibito, il vedo non vedo, l’erotismo velato e
un po’ svelato, solleticando l’immaginario erotico
occidentale. Una missione durata dal dopoguerra fino alla stagione
della liberazione sessuale, dell’emancipazione (anche
dell’abolizione) dei costumi, quando il corpo ha iniziato a
mostrarsi e porsi al centro di contesti differenti, nel quotidiano,
nell’arte, nella civiltà dei consumi.
Secondo i principi della strategia del feticismo, tutto
ciò che rischia di fluire e di muoversi liberamente deve
essere vincolato. Anche alcuni fermi sostenitori del libero processo di
associazione hanno spesso paura di tutto ciò che potrebbe
modificare i principi psicoanalitici stabiliti, e quindi dichiarare
“Dovremmo cercare di mantenere ciò che abbiamo
già - coltivare la terra che è stata ripulita e
proteggersi dal ritorno dell’erba cattiva e della
corrosione. Come Derrida specifica nella sua introduzione a Mal
d’Archivio, vi è una tensione tra
l’investimento dell’analista nelle energie
“volubili e fluide” della situazione analitica che
consentono l’imprevisto, ciò che non si conosce,
ed eventualmente le vitalità vaganti dell’intima
realtà psichica del paziente che emergono, e i principi
della legge e l’ordine che vengono perpetuati negli istituti
psicoanalitici.
Non è certo mancato l’interesse verso la
tematica del corpo nelle esperienze delle avanguardie del secolo
scorso. Anzi, a dispetto di tutte le tendenze informali e astratte,
proprio ad esso è stata posta molta attenzione: alle
tradizionali tematiche rappresentative si sono man mano sovrapposte
quelle interpretative: happening, performances,
gestualità, body art, arte
comportamentale, fotografia più o meno narcisistica, post-human,
sino alle degeneration body delle ultime
espressioni dove fisiologico, pornografico, intimo fisico e psichico,
genetico si rincorrono.
I corpi si ritrovano esposti e in qualche modo segregati per
essere celebrati soprattutto nei loro canoni di bellezza. Ma anche
corpi che prima di essere esposti vengono come rinchiusi in centri
benessere “spa” o altro per ritornare sulla scena
nella forma più desiderata e desiderabile. Prima di arrivare
“in vetrina”, nel piccolo o nel grande schermo,
finiscono spesso per sottoporsi anche ad interventi chirurgico-estetici
così da ri-modellare e protesizzare quegli stessi corpi per
i quali, antichi e moderni, occidentali e orientali, resta
l’orizzonte del piacere e
dell’immortalità.
Nell’arte
estrema di Orlan il corpo è l’oggetto
dell’arte mentre la chirurgia estetica e il video sono gli
attrezzi. Al termine del processo (che in realtà non termina
mai, poiché in progress) il corpo come ogni opera
d’arte si archivia, si destina alla condizione museale. Vale
solo per Orlan? No, il ricorso al moderno know how (conoscenze
scientifiche istituzionale + quelle “alternative”)
ci appare come una rincorsa al restauro della gioventù,
rovesciando completamente la logica delle cose. Laddove il corpo era
memoria, deposito delle esperienze, dei segni della propria vita, oggi
è un museo dell’immaginario,
dell’immaginario privato/collettivo sul corpo sano. Si plasma
su sé stessi non il come eravamo, ma il come ci immaginiamo
che fossimo, sulla scorta, naturalmente, dell’odierno
ossessivo ignorare lo scorrere del tempo, del vivere
nell’infinito presente e, di conseguenza, ignorando la morte
come la vita e le stagioni della bellezza.
“La bocca di lei girò intorno alla testa
del pene e si sentì il rumore del risucchio”.
Niente
di speciale, la scena è resa bizzarra da una colonna sonora
che snocciola di seguito l’Humoresque di
Antonín Dvořák e l’Ouverture
del Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini. Colben
eiacula. Poi…
“La donna alzò
velocemente la testa. Il pene era scosso dai fremiti
dell’orgasmo. Aprì la bocca in tutta la larghezza,
si piegò rapidamente e morse. I muscoli lungo la mascella si
gonfiarono quelli del collo le divennero simili a corde. Corben
urlò”.
Parte un colpo di cannone,
è l’Ouverture 1812 di Pёtr
Il’ič Čajkovskij, tra il pubblico nel commissariato
c’è chi inizia a vomitare, sullo schermo succede
di tutto, entra in scena un uomo che indossa un mantello nero, rivoli
di sangue colano dal mento della donna e scorrono sui suoi seni, il
pene di Colben è zuppo di sangue e sperma, l’uomo
che è appena sopraggiunto si china su di lui e completa
l’opera iniziata dalla donna. Anche Childe vomita non
riuscendo a rivedere il filmato fino alla sua conclusione.
Nessuna scena può essere davvero astratta dal
contesto narrativo del film di cui è parte, e che
contribuisce a “tessere”, né dal
contesto narrativo della biografia del suo spettatore.
Prima
d’incontrare Darvulia la Contessa godeva soprattutto nel
punire, nel rimproverare con pene atroci chi sbagliava, dopo averla
incontrata, invece, non v’era bisogno più di
alcuna giustificazione: “il sangue versato era versato solo
in virtù del sangue, e la morte violenta in virtù
della morte” (ibidem).
Una giovane vergine, l’essere sacrificale il cui sangue
avrebbe meglio agito sulla pelle della contessa, non aveva un prezzo
troppo elevato all’epoca: bastavano pochi denari o
addirittura solo qualche pesante veste invernale per comprarla,
ché l’inverno, per i poveri contadini delle lande
d’Ungheria, era di certo più freddo che per gli
altri.
Una volta avvenuto il ratto (o semplicemente l’acquisto delle
vergini), la comitiva esiziale trasferiva nelle segrete del castello di
Csejthe le giovani fanciulle. Lì, in mezzo al tanfo della
muffa, dei cadaveri già putrefatti, del piscio di ratti
maledetti e della sulfurea progenie del Maligno, Erzsébet
Báthory, con le sue fidate Darvulia, Jó Ilona e
Dorkó, dava agio alla sua terribile fantasia: strazio delle
carni, dita amputate, bruciature al pube e ai capezzoli, spilloni
conficcati nelle cosce e nelle braccia e, infine, il tenero abbraccio
di una gabbia appesa sul soffitto o di una ferrea Vergine di
Norimberga, in cui centinaia di aculei arrugginiti fendevano le carni
delle malcapitate. E il sangue scorreva dabbasso, e veniva raccolto in
un grosso catino di terracotta: sarebbe servito per frizionare la pelle
della Contessa, a volte sarebbe anche andato a finire dentro una coppa
rilucente, e poi attraverso le labbra, fin dentro lo stomaco della
contessa che ne beveva avida di biancore e di giovinezza.
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando?
Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare
le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo
all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda
intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra
gli altri all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Le immagini tornano allo
studio e alla donna seduta al suo tavolo di lavoro che accartoccia il
foglio e lo butta via. Tornano a scorrere i titoli di testa. E poi,
proprio come se su quel foglio l’autrice avesse continuato a
scrivere e la storia avesse preso forma, le immagini sono quelle a
colori in cui troviamo una troupe di tecnici che gira un film.
Protagoniste tre modelle con i loro abiti a coda: blu, giallo e rosso.
Si: il rosso. Ritroviamo la donna dello sparo. E allora
l’attenzione si fa alta, le domande tante, che scorrono come
i titoli di testa e si torna alla stanza e alla donna che scrive
assorta nei suoi pensieri. L’inquadratura è
più larga e a comparire nella stanza sono anche la coda di
un pianoforte, una sedia in un angolo e parte della vetrata che
dà su un muro di mattoni. È lo studio di
un’artista intenta nel suo processo creativo. Ci si sente
proprio come ad aver violato un segreto, un luogo sacro. Aver varcato
la soglia al richiamo di note seducenti e aver trovato ad aspettarci
niente di più che lo spirito candido dell’artista.
È in questo spazio che lo sguardo si attarda e il tempo
sembra dilatarsi. Per la pellicola sono passati appena due minuti e
trentatré secondi, eppure sembra di aver attraversato lo
spazio del sogno, dell’immaginazione: quello in cui tutto
è possibile, tutto è ancora da farsi. Ed
è paradossale perché la pellicola, come un libro,
è già impressa: c’è bisogno
solo di srotolarla per vedere come è stato deciso che
andasse a finire. Eppure, con la sola complicità del bianco,
si è aperto uno spazio, dentro cui si può sostare
e prendersi il tempo di chiedersi come riempire tutti quei fogli ancora
intatti, come dare forma alla propria storia, quali fantasie
assecondare perché diventino realtà, e
soprattutto se vivere distanti ed estranei al mondo oppure immergersi e
intrecciarsi nella trama della vita, proprio come in un tango i
danzatori uniscono i loro corpi in una danza appassionata in cui non si
comprende chi è che conduce e chi si fa condurre. Il bianco,
il rosso e il colpo di pistola sono gli elementi scelti per iniziare,
tracce di una storia ed anche elementi di una strategia narrativa che
la regista ha utilizzato per agire su più piani e per
fornire le chiavi di lettura alla sua storia.
Lei si strappava la sua parrucca bionda e la gettava sul
pavimento. Sotto, i suoi capelli veri erano corti come il pelo tosato
d’un agnello nero. Si scollava le ciglia finte e le
appiccicava allo specchio. Le sue palpebre erano spesse e dipinte
d’azzurro. Mi facevano sempre venire in mente una di quelle
Regine Egiziane che vedevo nel National
Geographic. La sua pelle era lucida di sudore. Si arrotolava
un asciugamano azzurro intorno al collo e si sporgeva in avanti
appoggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia. Il sudore rotolava
giù dalla sua faccia e schizzava sul pavimento di cemento
rosso tra i suoi piedi.
Tarzan non esibisce soltanto una rinnovata tensione erotica
nei riguardi di un corpo che si riconfigura e attrezza per adeguarsi a
una nuova condizione esistenziale dei media, ma integra
all’interno delle pratiche dell’immaginario
un’idea di “indeterminatezza” legata ai
limiti stessi del corpo biologico; limiti che, attraverso il ritorno ai
codici figurativi delle culture totemiche, fanno emergere il tema assai
più attuale del benjaminiano sex-appeal
dell’inorganico.
In diversi casi del genere la libido, l’energia
erotica regolata dal principio del piacere, viene incanalata in forme
sociali accettabili. Vale a dire, le pulsioni sessuali, abitualmente
represse, vengono invece lasciate per così dire libere in un
territorio immaginario e innocuo. Ciò in modo da ricevere
alcune gratificazioni surrogate che consentono di dare uno sfogo
fittizio ai desideri erotici impossibili da realizzare. Tale
appagamento sostitutivo può a volte offrire addirittura
benefici alla vita ordinaria, integrandosi e completando –
nella sua forma irreale e inoffensiva – le esigenze
dell’esistenza quotidiana.