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Senza troppo clamore, tre uomini un po’ inattuali si
arrotolano una sigaretta seduti al tavolo tondo d’alluminio
di un localino nascosto sotto i porticati di Plaça Reial;
davanti a loro, proprio sul tavolino, tre bottiglie con
l’etichetta rossa di una birra per la verità
abbastanza scadente. Tutt’attorno, oltre gli altri tavolini
vuoti, perché il localino ha ancora la serranda ammezzata,
è un brulicare selvaggio di turisti apparentemente impegnati
a competere per il numero maggiore di scatti fotografici non proprio
originali ed eccitanti. Una fontana centrale dove qualcuno ci mette
pure i piedi in ammollo a prendere il fresco che ristora dopo lunghe
passeggiate di acquisti, e una fila di gente perlopiù dai
capelli biondi che aspetta per entrare a nutrirsi in un posto di cui ha
letto chissà dove.
È l’America della Bibbia e delle torte di
mele, dei gusci di arachidi sputati per terra, dei neon singhiozzanti,
dei baristi di nome Bob con la camicia a quadri, il panno su una
spalla, lo stecchino tra i denti, mentre fuori il cielo pare immobile.
Nonostante i tornado e le campagne elettorali, i predicatori con gli
occhi al cielo e una mano al portafoglio, niente laggiù
cambia mai davvero. È un’America brutta e sporca,
dimenticata dai giornali e dalle tv, fatta a pezzi dalla crisi, le
fabbriche dismesse, frantumate, come le esistenze dei suoi operai, le
insegne scolorite dal sole e dal tempo che passa, la polvere, il
silenzio. È l’America dei vaccari e degli
agricoltori, delle distese di mais e di grano
La notte è nera, e solo i fari di una macchina
d’epoca, una Speed Roadster rigorosamente anni Cinquanta,
illuminano il tortuoso percorso della strada/mente di Pinky, una
giovane donna che ama rimanere sola a guidare di notte riflettendo
sulla sua vita, i suoi sogni e i suoi incubi. L’abitacolo
della sua macchina diventa lo studio di uno psichiatra curioso che
aiuta la ragazza ad aprirsi, forse troppo, fino a sprofondare nei suoi
pensieri più intimi e nascosti. Le immagini sospese
s’intervallano ai ricordi. Gli orrori
dell’infanzia, le difficoltà
dell’adolescenza, la voglia di scappare da un mondo che non
la comprende, e in cui la cosa più difficile è
viverci dentro.
Pinky cerca con tutte le forze di rimanere a
galla. Fluttua nel buio di un’Arca di Noè, dove
è l’unica passeggera rimasta. Un duro percorso
iniziatico attraverso le ripugnanze della notte e la follia delle sue
creature celate nelle pieghe della realtà. Un dado truccato
dalle mille facce, che nel profondo cerca quella giusta per lei, solo
per lei, e non quella che lo “strano mondo dal cuore
selvaggio” si aspetta. Ma alla fine la ragazza ce la fa.
Risale lentamente dall’oscurità. Come un sole
nascente She rise up.
Si viaggia per tornare in patria al termine di una guerra e si
viaggia per andare in guerra. Si viaggia per commercio e per diletto,
per turismo forzato e per il gusto di andare, per l’esigenza
di cercarsi, di raggiungere una meta e una volta raggiunta
oltrepassarla, cercando una nuova destinazione. Siamo sempre in
movimento e di questo scriviamo: tutta la grande letteratura
occidentale è in qualche modo riconducibile alle cronache
dei viaggi, quelli che sono confinati nell’ordine delle
vicende realmente accadute e quelli che godono dello statuto di
finzioni, sebbene sia più sensato parlare di storie di
viaggi, dove memoria e immaginazione ingaggiano un corpo a corpo
incessante che vede talvolta prevalere la cronaca reale e talaltra la
finzione. In certi casi il viaggio è un’eco di
un’avventura reale all’interno di una storia
immaginaria, in altri è pura fantasia all’interno
di un’autobiografia più o meno attendibile. Si
è viaggiato per scoprire nuove terre, annotando osservazioni
e ricognizioni in diari e cronache spesso condite da vivace
fantasia.
È un navigare incerto in un mare attraversato da
correnti alle quali è meglio opporsi per non perire.
È la precarietà di una zattera, di un tronco
sopravvissuto alla tempesta che invece ha inghiottito la nave. Non ci
sono che rotte provvisorie, arcipelaghi ai quali si spera di arrivare,
senza mappa o bussola, e con il rischio continuo di smarrirsi e tornare
indietro, respinti dove la terra ferma non è più
visibile. Tuttavia, il naufragio non è la fine del viaggio,
né la sua violenta e traumatica interruzione. È,
al contrario, l’inizio di una nuova condizione, di un
affrancamento, lento ma irreversibile, da ciò che
è rigido e stabile, da una scialuppa, da un porto, da una
ciurma.
Armi, pietanze, suoni, piante, animali, paesaggi, aromi,
abiti, bevande, spezie, guerrieri, per secoli le cronache del
viaggiatore veneziano Marco Polo non hanno avuto concorrenti. Il Milione,
però, avrà un grande pubblico solo molti secoli
dopo, quando, invece, si saranno moltiplicate le narrazioni avventurose
di luoghi tanto lontani quanto fantastici, rivolte a un numero di
lettori ben più vasto, che iniziava anche a viaggiare per
conto proprio, sebbene su distanze minori di quelle che gli eroi della
letteratura popolare percorrevano nei loro universi paralleli ai
nostri.
Avventure
e disavventure del viaggio, varcare le colonne d’Ercole, i
confini del sistema solare, le soglie della Via Lattea e raggiungere
altre galassie. Sconfinare nel profondo del proprio io, in tempi
paralleli o alternativi. Soli o in compagnia di una guida, di uno
stalker, cosmo & crononauti.
Non siamo mai andati sulla Luna: una leggenda metropolitana
che ogni tanto si sente in giro, in spregio a migliaia di prove che
dimostrano il contrario. Non siamo mai andati su Marte: una
verità che nel 2010 ci imbarazza e che cerchiamo di
dimenticare attraverso tanti film che simulano il nostro futuro primo
contatto con il Pianeta Rosso (i più recenti: Mission
to Mars, Pianeta Rosso, Fantasmi
da Marte). E se a un certo punto il film diventasse la
realtà, e la simulazione prendesse il sopravvento? Un tema
di stringente attualità che viene però dritto
dritto dalla visionarietà di Philip K. Dick e da un film che
ha fatto scuola, il magistrale Capricorn One di
Peter Hyams del 1978. La missione su Marte, un fallimento fin
dall’inizio; la soluzione? Simularla all’interno di
un grande set cinematografico con qualche effetto speciale e un
po’ di fantasia, per salvare l’orgoglio a stelle e
strisce. Quando Capricorn One uscì nei
cinema, la corsa allo spazio era già finita da qualche anno:
l’ultima missione Apollo, la n. 17, si svolse nel dicembre
1972, tra l’indifferenza generale. Da allora, nessun uomo ha
più toccato la grigia superficie lunare né ha
superato il confine dell’orbita terrestre.
I pellegrini che nel Medioevo si dirigevano
all’abbazia di San Michele, costruita su un promontorio
roccioso nel nord della Francia, ne parlavano come del mons
Sancti Michaeli in periculo mari, “il monte di San
Michele in pericolo del mare”. E in effetti la geografia e la
geologia di Mont Saint-Michel, l’architettura slanciata della
sua abbazia e la fisica delle maree, che per due volte al giorno
circondano d’acqua questo pugno di terra esiliandolo dalla
costa, hanno scolpito una piccola meraviglia contesa tra voraci flussi
marini, il vento che lambisce l’estremo settentrione
francese, la terra delle greggi e dei turisti e il fuoco della
religione – se ci piace continuare a viaggiare con i mistici
che rinnovavano la propria fede proprio alla luce del Monte consacrato
a Michele.
Ma era un periodo strano, questo esilio francese, e il fatto
che fossero quasi sempre quasi tutti strafatti contribuiva a dare alle
cose un tocco surreale, a farti pensare che c’era
un’accorta regia mentre invece le cose succedevano come al
solito, come pare a loro, e noi stavamo lì a ricamarci sopra
qualche disegno superiore, il tuo karma è negativo, amico,
no , guarda, è solo che tu sei troppo fuori anche solo per
capire l’espressione karma negativo, insomma dialoghi
così, come un Corman girato a doppia velocità.
Comunque c’ero anch’io, secondo voi il testo su
Angela Davis chi l’ha scritto? Me ne stavo a Villefranche,
guardavo il sole tramontare, bevevo Cote du Rhone, aspettavo
l’estate come se questo significasse che stavo facendo
qualcosa di sensato. D’altra parte non mi capita quasi
mai…
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando?
Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare
le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo
all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda
intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra
gli altri all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Nessuna scena
può essere davvero astratta dal contesto narrativo del film
di cui è parte, e che contribuisce a
“tessere”, né dal contesto narrativo
della biografia del suo spettatore.
Ecco, si prenda
una di queste storie, si prenda la storia di un soldato intento col suo
esercito a fagocitare chilometri e chilometri quadrati di spazio, in
una corsa frenetica alla conquista del mondo. Si prenda questo soldato,
viaggiatore sprovveduto della disgrazia, pellegrino di un dio violento,
a visitare una città dopo l’altra, a soggiogare
una città dopo l’altra, seguendo e provando a
placare la sete di conquista dei suoi leader lontani. Come ogni turista
che si rispetti, e come ogni buon marito, questo soldato conserva di
ogni posto visitato non solo una memoria malinconica, ma anche un
piccolo souvenir da inviare alla sua donna, per rinsaldare il suo
matrimonio felice. Come ogni buon marito, come ogni uomo
innamorato.
Immaginiamo di poter percorrer una metropoli in ogni
direzione, attraversando le superfici che frammentano in blocchi
l’orizzonte urbano, entrando nelle case e negli uffici, nelle
auto e nei vicoli… nei cieli. Immaginiamo di poterlo fare
magari ad occhi chiusi, ma amplificando il nostro udito con un orecchio
tecnologico supplementare, uno scanner: cattureremo così
stralci sonori di un universo completamente immerso nelle frequenze e
nelle onde audio, ascoltando i suoni proibiti delle voci al telefono e
quelli magici delle radio. Immaginiamo di poter fare tutto
ciò da fermi: attraversare la metropoli restando seduti in
una stanza qualunque, con uno scanner, muta di animali in caccia,
pronto a fiutare ogni traccia sonora. Immaginiamo, infine, di poterci
fondere con questi suoni altri, senza
più origine e contesto, giocandoli/suonandoli come objects
trouvés uditivi. È con il nostro laptop che li
ascoltiamo e li trasformiamo, li manipoliamo facendoci suggestionare,
li mescoliamo con i suoni della memoria di tutte le culture che abitano
la metropoli.
L’io vi si trova come spiazzato, stordito e
spaesato, perduto in un mondo che non conosce e non gestisce ancora, un
mondo che appare ineluttabile e insuperabile, nuovo e misterioso,
discontinuo rispetto a ciò che lo precede, ai modi e agli
equilibri vissuti e percepiti come naturali, consueti. La metropoli
richiede un tempo più o meno lungo di adattamento, esige
particolari strumenti, nuove organizzazioni sensoriali. L’io
percorre le strade e i vicoli, i cantieri e i boulevard,
avanza come sospeso e trasognato, si lascia attrarre, distrarre e
sedurre, impara a vedere e non vedere, sentire e non sentire,
accogliere e rifiutare. Il tutto senza permettere che qualcuno o
qualcosa possa effettivamente incidere, colpire. Riesce in questo modo
a seguire un ritmo veloce e dispersivo, a tollerare
l’incontro di milioni di persone, a controllare un numero
incalcolabile di offerte, segnali e indicazioni, senza subire
particolari traumi o sconvolgimenti interiori. Il prezzo da pagare
è tutt’altro che irrilevante o periferico: si
ripercuote, al contrario, sulla struttura stessa del proprio
esistere.
Due torri gemelle, di vetro e acciaio, a forma di vela, che si
sviluppano su cinquanta piani per duecentoquaranta metri di altezza,
accolgono i visitatori di negozi, ristoranti, uffici, autoproducendo
buona parte dell’energia consumata al loro interno, grazie a
tre turbine eoliche sostenute orizzontalmente da tre passerelle e mosse
dal potente vento proveniente dal mare. La materia della scintillante
realizzazione, dal colore della spuma marina, e lo slancio delle sue
forme la rendono adattabile alla luminosità del cielo e alle
sfumature dell’atmosfera, duttilmente riflesse e moltiplicate
da materiali capaci di suggerire agli abili autori la creazione di
movimenti e l’evocazione di tensioni che forse tentano di
recuperare una perduta dimensione simbolica.
Nelle nuove aree meticciate intorno a cui si organizza
l’esperienza cittadina, intrise di realtà locali e
influenze imperanti dei planetari processi omologanti, la geometria a
forma di vela del complesso, oltre a orientare l’impeto del
vento, trattenendo il passato nel futuro, sembra disegnare una linea
ideale tra i relitti delle barche.
Dove è il resto della città non percorsa
dai propri passi? Ogni spazio diventando un’espansione
visiva, esperienziale della città, che nasce nel momento in
cui incontra la parte più reattiva del soggetto. Ogni passo
è un momento dell’espansione e della
spazializzazione. Fino allo spostamento dimensionale. Dalla
città ai giardini, dai giardini alla città,
nell’inesauribilità della città come
somma inesauribile di alterità. Entro l’assunto:
non c’è cosa reale che non sia trasfigurazione.
Ma se la magia può risiedere solo sul preciso dettaglio che
evoca la magia trascorsa, magari per contrasto, forse è
questo un caso in cui, con un’ammissione di scricchiolamento
dell’affabulazione soggettiva, il modo più
immediato e facilitato di trasfigurazione si verifica proprio
attraverso la pagina stessa. Attraverso quelle immagini di spazio e dei
suoi elementi e abitanti antropomorfizzati.
Nostalgia di luoghi mai visti, immaginati e desiderati,
visitati con la memoria di sogni giovanili, mai esauditi.
Una Rimini ipostatizzata, immaginaria, fatta di tutto ciò
che non è durante l’estate. Quasi deserta,
crepuscolare, dismessa, con la spiaggia grigia, su cui ogni tanto
sporge qualcosa portato dal mare, residui naturali: piante, conchiglie,
rami, spugne; o artificiali: relitti di polistirolo, lattine, palloni
ormai flaccidi e screpolati. Le strutture degli stabilimenti balneari
smontate e coperte, a svernare, in attesa della nuova stagione. Niente
di tutto ciò che è associato alle vacanze e ai
miti degli anni Sessanta: il boom, le turiste tedesche, la musica beat,
gli amarcord successivi…
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi
attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
Aveva
intrapreso un viaggio tra le immagini intese come ricordi
dell’assenza, che, alla fine, gli offriranno
l’occasione per pentimenti ed espiazioni e lo aiuteranno a
ritrovare quel che resta della sua umanità. Al termine della
sofferta ricerca del tempo perduto, dispiegata attraverso il racconto,
il protagonista giunge al limite della finitudine, ancorandosi a una
più compassionevole visione del mondo, recuperando la
preziosità dell’innocenza e abbandonando
l’oscurità della misantropia. Si insinua
nell’intimità di quel tempo altro,
dove i giorni remoti riprendono ad esistere, salvi in lui, e lo
richiamano alla realtà da cui si era allontanato, mentre
coltivava le folli speranze dell’attesa quotidiana e
disegnava il grafico della vita.
Un viaggio che Alice compie attraverso passaggi quasi sempre
dolorosi: la piccola si ferisce, inciampa, cade, batte la testa a ogni
trapasso, e i personaggi che incontra sono esseri tutt’altro
che benevoli, a cominciare dal Coniglio Bianco, un brutto leporide
pieno di segatura (prima di entrare nel sogno è imbalsamato
in una teca nella soffitta dove Alice, annoiata, si rifugia) e dallo
sguardo inquietante, che si preoccupa unicamente di non far tardi
all’appuntamento con la regina. Il Coniglio si dimostra
indifferente, aggressivo, violento all’occasione. Del resto,
anche prima di sognare Alice è maltrattata dagli adulti,
quando in riva al lago riceve uno schiaffo dalla sorella come risposta
alla sua curiosità di sfogliare il libro che quella sta
leggendo.