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Lo sconvolgimento della vita
dell’uomo e delle sue abitudini, provocato
dall’irruzione della tecnologia nel “mondo della
vita”, conferisce a Suo avviso, una sorta di autonomia alla
macchina?
Credo che ciò sia dovuto al fatto di aver in un
certo senso esaurito le cose da dire e di non voler, a questo punto,
correre il rischio di ripetermi. Ci sono tantissime cose su cui
scrivere – la mia visione del mondo, degli altri, di me
stesso, ecc. – ma si tratta di un numero finito di
esperienze. Come è finito il numero di parole che si
utilizzano per raccontarle o descriverle. Questa è una delle
ragioni per cui credo che, oggi, la musica, ma tutta l’arte
in generale e le scienze umane, siano arrivate a una sorta di punto
morto. L’unica area innovativa dove nascono nuove idee
è quella della tecnologia dove apparentemente si
può ancora lavorare su un numero infinito di
possibilità. Con questo non voglio dire che la mente umana
non possa più sviluppare idee innovative ma, visto che non
sono previste visite di alieni da altri pianeti e che viviamo in un
mondo con una bomba sempre pronta a partire, siamo probabilmente
obbligati a rimanere in questa situazione per lungo tempo ancora.
L’epoca d’oro del pensiero, di quando ci si
interrogava su morale, religione, filosofia e tutte quelle cose sembra
totalmente sparita su per il culo della generazione del
computer
Nella società della Rete la dimensione della
produzione di immaginario si riarticola in modo radicale attorno a
nuove definizioni identitarie. Ciò nonostante, il cinema
sembra conservare tutta la sua forza poietica, pur
nell’intreccio con gli altri media
“individualizzati”. Possiamo sostenere che in
questa dinamica diventano cruciali i processi di rimediazione?
Sulla scorta delle precedenti affermazioni, è
possibile sostenere anche che tra il cosiddetto immaginario collettivo,
mediato culturalmente, e l’esistenza
tangibile esista un legame intenso. Per immaginario collettivo si
intende, in genere, quel composito assortimento di significati che
racchiude archetipi, simboli, miti, valori comuni, ma anche
aspettative, ossessioni, fantasmi, timori condivisi. Insomma, una vera
e propria visione del mondo, un’ambientazione ideale in cui
si immerge l’individuo per attingere interpretazioni della
realtà – elaborate in seno alla
collettività in virtù dei processi di definizione
intersoggettiva dei significati – e poter così
affrontare la vita pratica. Non dunque un mero spazio in cui
l’immaginazione vaga liberamente, prodiga di vacue illusioni
personali o comuni, ma uno scenario variegato, fatto di giudizi,
aspirazioni, progetti, paure, che accompagna la
quotidianità. In definitiva, un complesso di schemi mentali,
atteggiamenti, corpus valoriali che, in una dimensione tanto sociale
quanto individuale, elabora e completa ciò che percepiamo
come nostra esperienza concreta. L’insieme di significati che
un immaginario abbraccia è comunque oggetto di
un’elaborazione continua.
Passiamo
alla semiotica. Pensa che un corretto studio semiologico possa svolgere
appieno la lettura di un’opera d’arte?
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando? Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra gli altri all’interno di un’opera letteraria, l’autore appunto.
Ancora sullo “stato dell’arte”
dell’industria della cultura in Italia: quanto pesano la
forza di una certa tradizione e il potere dell’accademia e
della cultura ufficiale? È possibile che ci sia anche una
sorta di sudditanza automatica da parte di molti scrittori nei
confronti della cultura istituzionale o istituzionalizzata?
Basta entrare in qualsiasi libreria, percorrere gli scaffali
della prima biblioteca incontrata, o anche ormai solamente accendere lo
schermo del computer (come hanno fatto coloro che leggono ora queste
parole), per rendersi conto che il campo dello studio della letteratura
non è decisamente più quello che era solo pochi
anni or sono, e che è anzi cambiato in modo tale da
risultare in effetti irriconoscibile rispetto a ciò che
praticavano le generazioni precedenti; o anche solamente quelli tra noi
che si ricordano ancora quali fossero le regole in vigore nelle scuole
e negli atenei due o tre decenni or sono. La reiterazione inarrestabile
e immutabile degli stessi schemi, delle stesse gerarchie di valori,
degli stessi nomi, mummificati dalle antologie e imbalsamati dai
discorsi rituali di una critica che identificava il vero con
l’assorbimento rituale di giudizi reputati eterni, lascia
sempre di più spazio a tentativi di costruire
un’altra storia letteraria. La luce dei riflettori si sposta
sulle vaste zone d’ombra che erano dapprima state neglette
per lo più per principio, considerate com’erano
indegne dell’attenzione delle vestali del tempio della
qualità. Ci è voluto molto tempo
perché i risultati dello sviluppo tecnico che ha permesso il
fiorire della cultura di massa – e
l’alfabetizzazione generalizzata delle classi più
povere, e la scuola dell’obbligo, con tutti i suoi pregi e i
suoi difetti – portassero a conseguenze visibili, e non
più facilmente trascurabili, non solo nella produzione
letteraria, ma anche nella riflessione critica.
Spesso i suoi spettacoli sembrano creare varchi, aperture,
linee di fuga che una volta inserite sulla scena volutamente vengono
lasciate dischiuse e lasciate a “disposizione”
dell’interpretazione o della visionarietà del
pubblico. Condivide questa lettura?
Nessuna scena può essere davvero astratta dal contesto narrativo del film di cui è parte, e che contribuisce a “tessere”, né dal contesto narrativo della biografia del suo spettatore.
Gli elementi fondanti di una storia horror?
Da sempre il corpo, in tutti i suoi modi essere, di sentire e
di agire (la salute e la malattia, la fame e la sazietà, il
piacere e il dolore), è al centro dell’interesse e
dell’attenzione di tutti gli esseri umani, da prima ancora di
nascere e fino alla loro morte. Da sempre, tutti gli esseri umani
guardano i corpi, il proprio e quello degli altri, e questi sguardi
sono ottici, visuali, ma sono anche cognitivi, mentali, psichici, e
sensuali, sono sguardi agìti ed esperiti con tutti gli altri
sensi. Da poco più di un secolo, questi sguardi, oltre che
ottici, cognitivi e sensuali, sono anche, e sempre di più,
tecnologici. Il XX secolo espande in modo straordinario, e in forme e
direzioni impensabili, questa
capacità/potenzialità di guardare i
corpi e di guardare ai corpi: ma espande anche in modo straordinario e
impensabile il potere dello sguardo dei corpi, nei corpi e sui corpi.
Lo sguardo tecnologico nei corpi, dentro i corpi, è
soprattutto lo sguardo della biomedicina e inizia proprio alla fine del
XIX secolo: un fisico tedesco, Richard Röntgen, nel 1895
comunicò per la prima volta in modo formale la scoperta di
un nuovo tipo di sguardo, a cui diede il nome di Raggi X, che
permetteva di vedere con sufficiente chiarezza le parti dure del nostro
corpo (le ossa, le cartilagini e simili) e che da decenni fa parte
della nostra vita (quasi) quotidiana ma che ha oggi applicazioni molto
più ampie, dall’astronomia al controllo degli
alimenti inscatolati o imballati. Ma da tempo lo sguardo della
biomedicina ci permette ormai di vedere, con la scannerizzazione, la
tomografia a emissione di positroni, la risonanza magnetica e altro,
l’interno del nostro stesso corpo ben vivo e attivo. E non ci
importa granché sapere che quelle immagini del nostro corpo
non sono vere riproduzioni, come le fotografie e i filmati, ma sono
“ricostruzioni” grafiche e visuali a partire da
dati numerici, ed evidenziate con coloranti, dei nostri organi mentre
sono in piena funzione, ben vivi e attivi. Quel che ci importa, che ci
affascina e un poco anche ci inquieta, è che oggi noi
possiamo vedere il nostro stesso pensiero mentre pensiamo
di guardare il nostro pensiero, attraverso la visione di immagini
colorate delle attività bioelettriche interne del nostro
cervello, ricostruite a partire da dati numerici e proiettate su uno
schermo (quello che noi stessi stiamo guardando…). Dalle
tavole di Vesalio, rappresentazioni a due dimensioni di cadaveri, di
corpi morti, passando attraverso le radiografie, rappresentazioni a due
dimensioni di corpi (anche) vivi, per arrivare ai nostri giorni
all’imaging a risonanza magnetica, rappresentazioni a tre
dimensioni di corpi ben vivi e attivi, le straordinarie e impensabili
trasformazioni tecnologiche dello sguardo dentro i corpi hanno
trasformato radicalmente anche il modo di guardare i corpi.
Lei sostiene che gli esseri umani difficilmente agiscono in
maniera violenta e che essi riescono ad usare la violenza solo in
virtù di specifiche condizioni che aiutano a superare quelle
barriere emotive che inibiscono naturalmente i comportamenti violenti.
Ci spiega meglio i punti salienti di questa sua interessante
“teoria compatta” della violenza, ed il legame
eventuale con l’idea che anche l’interazione
quotidiana assume toni sostanzialmente ritualistici?
Violenza è quella delle risse tra giocatori;
è l’estemporanea intemperanza dei tifosi
– che si può esprimere in cori oltraggiosi, lancio
di oggetti o petardi, invasioni di campo più o meno
deleterie; è lo scontro programmato, nello stadio o al suo
esterno, tra gruppi di tifoserie rivali legate da rancori consolidati
nel tempo; è l’insieme di atti vandalici che
possono avere luogo nei centri cittadini o nell’ambito dei
trasporti; è la dinamica di cariche e contro-cariche che
contrappongono i fan alle forze dell’ordine; e tanto altro.
In alcuni casi, addirittura, vengono catalogate nell’alveo
delle violenze legate al calcio alcune disgrazie o catastrofi
– tipo l’effetto micidiale di una calca enorme e
magari spaventata che preme sulle recinzioni – che hanno
origine piuttosto nell’imperizia o nell’imprudenza
delle parti in causa (club, federazioni, autorità), oppure
nella vetustà degli impianti, anche se di tutto si tratta
tranne che di aggressioni fisiche intenzionali o consapevoli.
“Lasciar essere senza essere passivi. Sentire il
mondo attraverso un’esperienza sinestetica, senza dominarlo e
violentarlo”. Quali sono le ragioni di una tale inversione di
prospettiva?
Di fronte a un violento fanatismo, stolto depositario di ogni giustizia
e di ogni verità, osceno in senso
etimologico perché contrario alla rappresentazione, alcune
povere cose si caricano di senso, esprimono il reale attraverso
l’irreale e racchiudono una poesia scandita dal ritmo lento e
spasimante della temporalità di chi, dibattendosi in una
spaesante condizione di cattività, anela a ritrovare la
propria essenza. Una ciocca di capelli intrecciata, piantata in un vaso
di terracotta, custodito segretamente, e innaffiata con quel che rimane
di una flebo gocciolante, portata via dalla casa di un morto, disvela
la forza significante di miseri oggetti che richiamano il passato,
schivano il presente ed evocano il futuro.
Lei crede che il cervello umano possa essere riprodotto dalla
tecnologia, oppure che, per il fatto stesso che è
l’uomo a progettare la tecnica, la realizzazione di un
cervello tecnologico sia implausibile?
Nick Bostrom, un filosofo di Oxford, tra i principali studiosi
della teoria della simulazione, ha dimostrato che universi fittizi sono
dopotutto più “a buon mercato” di
universi reali, perché è molto più
facile riprodurre un universo attraverso i bit che tramite atomi e
molecole; di qui, giunge alla conclusione che esistono alte
probabilità che il nostro sia uno dei tanti falsi universi
creati da computer di civiltà superiori. Fisici eminenti
come Sir Martin Rees, John Barrow e Paul Davies hanno dedicato a
quest’ipotesi studi approfonditi. Nel suo volume Una
fortuna cosmica (2007), Davies affronta anche questo
problema, di fatto accettando la probabilità che il nostro
sia un universo simulato, ma sostenendo che questa tesi non debba
essere accolta dagli scienziati, perché starebbe a
significare la fine dell’indagine scientifica. La scienza non
può dimostrare che l’universo non sia nato cinque
minuti fa e che tutte le prove di un passato lungo 13 miliardi di anni
siano state immesse apposta dai suoi programmatori, scrive Davies. Ma
noi non possiamo semplicemente farci niente: tanto vale metterci la
coscienza in pace e vivere senza porci questo problema.
Nei tuoi lavori le immagini si accostano per associazione,
sono più il ricordo di sogni che di esperienze reali.
È in questo modo che ci si avvicina all’essenza
delle cose, che si riesce a “renderle più
se stesse”, come scrive John Berger (scrittore, pittore,
critico d’arte, ndr), autore da te molto
amato?
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement, processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi preesistenti che assemblati in maniera differente dall’originale producono un significato nuovo.