Quando visito un laboratorio e vedo lo stato attuale della robotica, provo sempre una punta di delusione. È ancora così friabile e rattoppata. Penso che dovranno passare altri cento anni prima di ottenere seriamente dei robot umanoidi. C’è poi un’altra domanda da porci: se realmente abbiamo bisogno dei robot umanoidi così cari alla SF. Dopo tutto, ci sono già troppi esseri umani e non costa praticamente nulla dare vita agli uomini. Ma è faticoso avere intorno altra gente e alcuni fanatici dell’informatica sognano di poter creare macchine che fanno tutte quelle cose utili che fanno gli esseri umani, escludendo quelle che procurano fastidi: indurre empatia; provare simpatia e pietà; annoiarsi o anche ribellarsi. E non si tratta di qualcosa che si può semplicemente spegnere e buttare via quando non si ha più voglia di giocare con loro.
Uomini, macchine, figure di argilla, bambole antiche, marionette, temperamatite, denti, lingue, sassi, scheletri, sminuzzati, triturati, smembrati rovistati, ribaltati, scardinati, ricomposti, riassemblati, animati, azionati secondo logiche imperscrutabili. Bizzarie di uomini che svelano una natura macchinica e di marchingegni vari, robot compresi, che agiscono secondo logiche stravolte ma pur sempre umane, mettendo in scena anche riti estremi, come l’auto cannibalismo. Oggetti indaffarati, assorbiti da propri riti quotidiani, un mondo regolato da altre leggi, autentica patafisica. Distorsioni che trovano palcoscenici ideali in case abbandonate, vecchi mobili, o in spazi ancora di più di difficile identificazione, teatri onirici, ai confini della realtà. Dispositivi che ottusamente, o secondo un oscuro disegno, ripetono operazioni meccaniche, oppure sembrano agitati da un caos interiore che li sospinge in tutte le direzioni con ritmi forsennati, cercando una nuova forma, un senso inedito.
Attraverso l’inestricabile intreccio di pensiero e carne, ha riannodato dunque la conoscenza esplicita, attuata nelle forme della razionalità, corrispondente a mappe superficiali e culturali, alla conoscenza più arcaica, tacita e immediata, corrispondente a mappe antiche, cablate nella biologia dell’individuo.
Si tratta, talvolta, di ambienti soffici e sottili, bocce di vetro chiuse dall’interno in cui però entrare non è affatto un’impresa impossibile; tutt’altro. Si tratta, ancora, di mondi solitari nei quali l’umano è preferibilmente uno stadio ormai precedente e sorpassato, ovvero ambienti piuttosto desertici, evolutisi per l’esattezza allo scopo di dare spazio ai toni sommessi e attenuati della calma inorganica che si deve ad un tempo esteso e definitivo, oltre il quale sembra che nulla può più accadere; fortunatamente, direbbero alcuni. Tuttavia, per dare concretezza a quanto si va dicendo, non bisogna pensare a quadri foschi dalle brunite tinte apocalittiche, non bisogna immaginare il postremo risultato di un cataclisma nucleare irreversibile e nemmeno il distopico controllo di una cinematografica tirannia di macchine feroci. Ci si deve figurare tutt’altra cosa.
Due uomini e una donna in abiti militari torturano un uomo
ammanettato.
La violenza che stravolge i volti fa vibrare le
pareti, amplificando il tonfo della carne violata
che
impatta contro altra carne. Scampoli di conversazione e brandelli umani
fendono l’aria, invadendo lo spazio della visione. Tra i
frammenti strozzati di questa scena la realtà della
sofferenza si distende attraverso il piano impalpabile del suono,
bucando carnalmente lo schermo nel corpo a corpo affettivo e
inarticolato tra l’uomo violato e lo spettatore. La parola
arriva solo successivamente, brutale
come il braccio
che costringe la testa sott'acqua per estorcere, in un sibilo,
informazioni vitali.
Tra due attacchi la donna apre
una parentesi; si rivolge al torturato accusandolo di avere un
corpo
che non è un corpo, di servirsi
della violenza altrui per confutare la realtà
incontrovertibile della sua esistenza non umana:
“È un bel dilemma: se escludi il dolore stai
meglio ma ti riveli un automa, non una persona. Gli esseri umani non
posso escludere il dolore ... non hanno scelta. Perciò
l’unico modo che hai per evitare il dolore che stai per
ricevere è dirmi ciò che voglio sapere proprio
come
un umano”.
Nessuna scena può essere davvero astratta dal
contesto narrativo del film di cui è parte, e che
contribuisce a “tessere”, né dal
contesto narrativo della biografia del suo spettatore.
“C’erano
storie di bambini con due teste, o tre braccia, come se fosse possibile
avere delle mutazioni così drastiche senza che fossero
letali. C’erano storie di normali sopravvissuti i quali
ricostruivano a poco a poco la loro vita come se ciò fosse
possibile dopo una vera guerra termonucleare. C’erano storie
di fughe su altri pianeti a bordo di tante arche di Noè,
come se gli altri pianeti potessero diventare abitabili per un gruppo
che non aveva alle spalle un pianeta tecnologicamente
avanzato”
Il “postumano” è infatti la
condizione in cui si verranno a trovare gli esseri umani nel momento in
cui le loro facoltà naturali – limiti di
esistenza, capacità computazionali,
sostituibilità di elementi fisiologici deteriorabili
– saranno superate grazie all’aiuto della
tecnologia. Nella fattispecie la singolarità sarà
raggiunta grazie allo sviluppo di alcuni specifici campi della scienza
contemporanea:
- Nanotecnologia (capace di riparare tessuti
corporei e garantire la longevità)
- Biotecnologia (capace di modificare la natura a uso e consumo
dell’umanità)
- Telematica (capace di mettere in diretta comunicazione tutti gli
individui)
- Intelligenza artificiale (capace di incrementare esponenzialmente la
capacità di calcolo).
Secondo le principali teorie,
intorno alla metà o al massimo entro la fine di questo
secolo la singolarità dovrebbe verificarsi; essa
sarà avvertibile nel momento in cui diverranno disponibili
macchine più intelligenti dell’uomo. In quel
momento la superiorità umana in termini intellettivi su
tutto ciò che conosciamo verrà meno e
diventerà necessario adeguarsi potenziando le nostre
facoltà attraverso l’ausilio della tecnologia.
Ecco che nasce la “postumanità”, dove il
prefisso “post” sta ad indicare che non si tratta
di qualcosa di radicalmente nuovo, ma di una evoluzione del precedente
concetto (l’umanità) che mantiene inalterata la
sua essenza cambiando la propria forma e il proprio modo di
agire.
È un tiratore infallibile, è micidiale nel corpo a corpo sia nel combattimento all’arma bianca sia a mani nude, è agile nello schivare colpi di ogni genere, ha riflessi fulminei, le pallottole lo sfiorano lo colpiscono di striscio e poco più, tuffi capriole e salti completano le attività ginniche che gli consentono di sopravvivere.
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi
attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
Macchine
obbedienti e/o, senzienti, immortali, mutanti, creature dotate di
superpoteri, l’evoluzione muove verso infinite direzioni,
percorse coscientemente o frutto del caso. Esperimenti, incidenti o
follia tecnologica tutto conduce inesorabilmente una nuova razza
Spesso inadeguato all’ambiente, debole, lento, scarsamente equipaggiato per il mondo tecnologico e soggetto all’inesorabile scorrere del tempo, il corpo inoltre manca di un progetto modulare, che consenta di riparare i difetti in modo semplice. L’unica soluzione all’inadeguatezza corporea consiste quindi in una riprogettazione, che, se avvenisse, potrebbe essere considerata la più grande realizzazione umana. La riprogettazione porterà ad un corpo autonomo, autosufficiente e cerebralmente più capace: sarà un corpo meglio equipaggiato, resistente alle condizioni atmosferiche e gravitazionali. Non bisognerà riparare le parti guaste che provocano la malattia, basterà sostituirle, i feti avranno un sistema artificiale di supporto, poiché non sarà più necessario l’utero materno per il loro concepimento e il loro nutrimento, i corpi non invecchieranno, essendo stati resi più forti di fronte alla fatica, e giungeranno all’immortalità, perché essi si rinnoveranno e si riattiveranno continuamente
Di fronte alle sperimentazioni e alla ricerca applicata che innesta il biologico con il tecnologico chiunque è chiamato a rispondere di un’etica che vuole conservare e preservare o che, di contro, sceglie incondizionate vie di progresso. Il mondo, oltre che Natura, è soprattutto Cultura. Quel mondo cui appartiene l’uomo per natura, per sua naturale “manchevolezza”, per dirla con Arnold Gehlen, e quindi per sua naturale “creatività”. Dimensione, quella creativa, che, per quanto mai conclusa, rimanda alle nostre mutazioni antropologiche, all’homo technologicus. All’homo digitalis. La caducità della materia, e in particolare della corpo umano, può essere inteso come il tema sotteso e fondativo rispetto al tema-pretesto del volume: il post-umano. La tecnica ridisegna l’orizzonte dell’Umano ed esprime come una necessità: di vincere sulla Morte, sulla Fine, sulla Rovina.
Potrebbero essere necessari ricostruzioni e sostituzioni del corpo. Ma più probabilmente ci sarà una proliferazione di unioni ibride di corpi (inclusi insetti e animali), macchine e sistemi virtuali in svariate architetture corporali. La mitica chimera del mito era, di fatto, costituita da una parte umana e una parte animale. Architetture corporee alternative con capacità sensoriali, cerebrali e operazionali sono ora possibili. I sistemi nuovi e alternativi non sostituiranno completamente i vecchi, piuttosto si integreranno ad essi.
I limiti delle configurazioni moderne di potere, quei limiti di demarcazione tra io e altro, si stanno dissolvendo dando luogo a nuovi “limiti” imprecisi e fluidi, che rompono i dualismi tra io/altro, idealismo/materialismo, mente/corpo, umano/animale. Nuovi limiti resi possibili dal dispiegarsi graduale delle tecnologie cibernetiche nel campo della biologia e medicina, nella logica della dominazione delle corporazioni multinazionali, nei luoghi di lavoro, negli ambienti militari. Nuovi limiti che sviluppano nuove configurazioni di potere e di sapere e che creano nuovi “soggetti” postmoderni.
Se il libero arbitrio non appartiene agli umani, come potrebbe appartenere alle macchine? A questo riguardo, si può sostenere che solo le creature dotate di coscienza posseggono il libero arbitrio e sono in grado di agire in modo etico. Non è certo un caso che siano in corso ricerche per dotare i robot (perché è in sostanza di queste macchine che sto parlando) di una coscienza artificiale, CA, la cui definizione operativa potrebbe essere: un sistema artificiale è dotato di CA se si comporta in modi che, negli umani, richiedono coscienza (è una definizione analoga a quella dell'intelligenza artificiale, IA). Insomma, i robot potranno mai diventare soggetti (e oggetti) etici? Poiché, almeno allo stadio attuale, i robot sono manufatti costruiti da noi con finalità pratiche specifiche, ciò dipende dai mezzi di cui li dotiamo per il raggiungimento di quei fini: per esempio potrebbe essere utile una certa dose di autonomia, libertà e inventiva. Anche nel caso in cui quest'autonomia sia limitata, non si può escludere che - per esempio in ambienti separati dall'habitat umano che postulino l'attivazione di capacità decisionali per evitare la distruzione delle macchine - qualche fenomeno evolutivo (una mutazione fissata da una selezione confermativa) porti all'acquisizione di un'autonomia che potrebbe accompagnarsi al sorgere dell'istanza di auto-conservazione, della coscienza e quindi di un'etica basata sulla libertà. I robot potrebbero acquisire il libero arbitrio non solo per una deriva evolutiva in ambiente abbastanza separato, ma anche per una deviazione aleatoria dal progetto originale oppure in seguito a un vero e proprio errore di programmazione. Oppure la deviazione, il clinamen, potrebbe essere dovuto a un incidente provocato da cause esterne e potrebbe sfociare in una sorta di "follia" robotica, fonte di creatività. Si potrebbe insomma ipotizzare un "robot schizofrenico" (nel cui organo cognitivo e semi-cosciente si scontrassero ingiunzioni primarie contrastanti, che portassero all'insorgere di un doppio vincolo nel senso di Gregory Bateson): questo robot folle potrebbe manifestare libertà (e inventiva), ma sarebbe una libertà da vigilare attentamente.
L’azzardato trascolorare dei verdi negli azzurri, attraversato da intense fiamme di colori solari, ospita il tema dell’immersione dell’uomo nella sacralità naturale, dell’eterna ciclicità dell’ordine cosmico, mentre, nelle raffigurazioni scomposte, vengono disegnate prospettive arbitrarie e, nei luoghi improbabili, diventa consueto l’assurdo. Tra i riflessi infuocati lo spettacolo si fa vibrante, generando meraviglia e stupore, e, tra le risonanze emotive, lo sguardo si perde in un universo trasgressivo ed eslege.
Qui l’immortalità, o comunque una significativa estensione della speranza di vita, viene ottenuta allevando, nel vero senso della parola, dei cloni il cui unico scopo è donare i propri organi ad altri esseri umani (non cloni), per garantire la loro sopravvivenza. Ogni clone è destinato a fornire tre organi prima di completare la propria missione, ossia morire. Per evidenti esigenze mediche, la donazione viene effettuata in una fascia di tempo che va dalla fine dell’adolescenza alla prima maturità, quando i cloni sono ancora giovani ma ormai già completamente formati.
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando?
Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare
le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo
all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda
intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra
gli altri all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Esseri esteticamente
ripugnanti, goffi nei movimenti ma spesso dotati di grande forza. E che
fanno del loro numero l’arma vincente. Orde infinite di mani,
denti alla ricerca di carne umana o cervelli di cui cibarsi; eserciti e
schiere che sanno sfondare porte e finestre, che non temono la morte
perché già vissuta come condizione quotidiana,
quasi naturale.
Un concetto in fondo molto semplice: tanti
assalitori, poco umani, anzi umani che progressivamente si
disumanizzano, che cercano di colpire ciò che è
ancora sano, ancora puro, per contaminarlo.
Allora il dubbio diventa un’altro: attribuiamo ai
nostri simulacri (robot, androidi, cyborg) una pericolosità
per così dire, genetica, connessa alla
loro natura artificiale, o proiettiamo, su questi nostri doppi,
i dubbi che abbiamo su noi stessi?
Li temiamo perché sono diventati troppo simili a noi:
indistinguibili nell’apparenza, certo, ma anche nella
sostanza. Plastica, metallo, gomma smettono di essere una prigione,
diventano corpo, luogo di un’anima,
che non può essere sottomessa, obbedire, agire senza
pensare, sentire, scegliere. E quindi diventano pericolosi –
per la nostra incolumità fisica, certo, ma prima di tutto
per la salute della nostra anima, di cui riflettono il dolore, la
sofferenza, le incertezze. Sono lo specchio in cui ci riflettiamo.