
Ipotizziamo che una civiltà extraterrestre
s’imbatta in una delle due sonde Voyager che hanno da tempo
abbandonato il nostro sistema solare per tuffarsi nei bui abissi
interstellari. All’interno, come è noto,
troveranno un disco d’oro nel quale sono state incise alcune
musiche, attentamente selezionate, delle culture e tradizioni musicali
di tutto il mondo. Il primo problema con cui gli alieni si dovranno
confrontare sarà quello di trovare il modo di riprodurre il
contenuto inciso sul disco. Immaginiamoci però una
civiltà avanzata, rispetto alla nostra, di migliaia di anni,
in grado di ricostruire un giradischi o un grammofono seguendo le
istruzioni universalmente valide allegate al disco – in
fondo, non dovrebbe essere impossibile – e a questo punto, il
gioco è fatto: gli ascoltatori extraterrestri potranno
deliziarsi con una nostra scelta di musiche di Johann Sebastian Bach,
Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, Igor Stravinskij, oltre
a brani di culture non occidentali, da Giava al Congo, dal Giappone al
Perù fino alle Isole Salomone. Siamo tutti convinti che la
musica parli un linguaggio universale e sia capace, dunque, di dire
qualcosa a quegli ipotetici ascoltatori extraterrestri. Ma quali
significati coglierebbero? A che conclusioni arriverebbero, ascoltando
la nostra musica?
In quanto neofita della chitarra, allora scoprii che si poteva
“costruire” un assolo di chitarra smentendo
numerosi cliché: innanzitutto la “retorica
dell’assolo”, come puro sfoggio di tecnica, o
più semplicemente come modalità per toccare un
climax emotivo; in secondo luogo, capii che in un brano strumentale
l’assolo poteva cessare di essere tale, e diventare il
“tema”, dando senso al pezzo e senza limitarsi a
esserne il coronamento o, peggio, il momento di gloria del guitar
hero. Dal punto di vista tecnico, scoprii che il feedback e
la saturazione estrema di Hendrix potevano essere
controllati: il wall of sound poteva essere
letteralmente “composto” pezzo per pezzo e trattato
minuziosamente, il feedback modulato e piegato alle esigenze melodiche
o, al contrario, improvvisative e più francamente
“rumorose”, ma pur sempre in senso strutturale e
mai vagamente dionisiaco o (superficialmente) hendrixiano.
Incuriositi, gli spettatori si sistemano meglio in
poltrona, apprezzando la tenue melodia swing che
introduce le vicende di un personaggio vestito in un completo grigio
impeccabilmente inamidato. Il suo nome è Donald Draper e
siede al tavolo di un bar fumoso, da solo. Lo circonda il chiacchierio
di giovani professionisti ricchi e molto sicuri di sé in
pausa dopo il lavoro. L'atmosfera è elettrica ma
rassicurante, la calda luce delle lampade si riflette sul bancone di
legno mielato creando un ambiente intimo che avvolge il tavolo appena
discosto da cui Don fuma pensosamente. Il cappello poggiato poco
più in là nasconde qualche bicchiere vuoto di
Martini, scolati mentre prende appunti sul retro di un tovagliolo da
cocktail.
plink… plonk, plink, plonk, pause, sfrigolii, corde
percosse, scorticate, grattate con il plettro, grappoli di note
rapprese, plink, plonk, una singola nota trattenuta, il suono si
impenna, scema, plink, plonk, tic, toc, disaccordi, intrico scomposto,
è un corpo a corpo, una chitarra e un uomo,
un’esperienza tattile, gocce di suono, cascate di suoni, tic,
toc, ci sono molti modi di suonare una chitarra, sconfinando dalle
regole precostituite, oppure spingendosi ai limiti del possibile dentro
le regole, rifuggendo dal virtuosismo o coltivandolo, plink…
plonk, plink, plonk, ci sono molti modi codificati oppure se ne
può inventare uno, personale, plink… plonk, tic,
toc, inimitabile, in continua evoluzione, reattivo, fondato in
apparenza sul nulla, in caduta libera, una sfida continua, alla ricerca
dell’improvvisazione pura, all’inseguimento della
totale sregolatezza come unica/infinita possibilità di fare
musica, tic, toc, tic toc, piccoli suoni anarchici sprigionati da una
semplice chitarra, acustica, elettrica, che tanto caustica e tanto
aliena pare la prima volta che la si ascolta.
Nessuna scena può essere davvero astratta dal contesto
narrativo del film di cui è parte, e che contribuisce a
“tessere”, né dal contesto narrativo
della biografia del suo spettatore.
Il Situazionismo
intende perseguire questi obiettivi attraverso delle direzioni di
ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
Anche
se fisicamente si ascolta questo brano a casa propria, senza poter
accedere a strutture così allusive e ricche di significato,
la musica riesce naturalmente a fare da tramite e a trasportarci nei
luoghi più suggestivi della nostra mente, permettendo
l’ascesa spirituale con una scrittura che potrebbe sembrare
semplicistica, ma che a conti fatti risulta molto efficace, ad esempio
con i frequenti temi ascendenti che appaiono spesso nella composizione,
in particolare nel punto culminante, alla fine del pezzo. Questi
accenni potrebbero risultare banali, ma non lo sono affatto
poiché sono il frutto della perfetta combinazione tra
l’organico e, spesso, una sensazione più astratta
di galleggiamento, creata da voci che sembrano disincarnate dal corpo e
sostenute da eteree trame strumentali.
L’amore di Dio che presiede i cieli (“amor
che ’l ciel governi”) è come se
regolasse (“temperi”) la diversa
intensità dei suoni opportunamente distinti
(“discerni”) di sfera in sfera, in una sorta di
luminosissima sinfonia dei cieli, difficilmente trascrivibile in parole
(“la novità del suono e ’l grande
lume”), come altrettanto complesso, per non dire impossibile,
esprimere verbalmente il passaggio a una condizione fisico/spirituale
superiore a quella umana (“trasumanar significar per verba /
non si porìa”).
Il tema musicale, invece, fu apparentemente composto nel XVI
secolo, in occasione dell’incoronazione di Stéphen
Bathory, Stefano I di Polonia, il voivoda di Transilvania ricordato
nella storia polacca come il re della Controriforma. Stille
Nachte, per fare un altro esempio, forse il canto natalizio
più tradotto in altre lingue, vide la luce nel 1818 in
Austria, durante il regno di Francesco I, e divenne Astro del
Ciel, con un nuovo testo in italiano che non traduceva
l’originale, solo nel 1937 per mano di un prete bergamasco. Tu
scendi dalle stelle, forse la più longeva delle
canzoni natalizie nella tradizione italiana, risale alla seconda
metà del Settecento, e fu scritta da sant’Alfonso
Maria de’ Liguori, rampollo di una famiglia
dell’aristocrazia napoletana che rinunciò alla
vita agiata e al titolo nobiliare affascinato dalla povertà
che volle celebrare con quelle strofe. Jingle Bells,
infine, forse il più famoso canto natalizio del mondo, fu
scritto nel 1857 a Medford, nel Massachusetts, dove a inizio secolo
imperversavano le gare di slitte.
I primi sei minuti sono affidati all’organo che
vibra, risuona, quasi sibila. Tremola, dominando la scena. È
accompagnato da piccole percussioni. Risuona un sonaglio,
un’intrusione sconcertante. Sette minuti e mezzo: rulli di
tamburo e pianoforte affollano la scena, l’organo quasi
impercettibilmente si ritira.
Nove minuti e mezzo: irrompe il
contrabbasso, una rapida incursione, svanisce nel nulla, riappare. Le
percussioni, ostinate, insistono.
Verso il dodicesimo minuto
prende forma un solo di tamburo, la batteria diventa protagonista come
si usava un tempo. Quattordici minuti e mezzo, vi si affianca il
contrabbasso, ripetendo quattro semplici note. Si prosegue
così fino al diciassettesimo minuto, quando la sequenza
viene reiterata anche da colpi secchi sui piatti. Rientra
l’organo, si profila un tema melodico, arioso, avvolgente, ma
anche vagamente ansiolitico. È lo sciame di piccole
percussioni che mantiene alta la tensione.
Chiede l’attenzione di chi ascolta fin da quando
sale sul palco e si avvia al pianoforte: chiede ascolto e chiede
riflessione, ma più ancora, chiede che si provino con lei
sensazioni, emozioni, sentimenti. Emozioni forti, passioni, che sono
dolori, tragedie personali e collettive, desideri catartici di bellezza
eticamente intesa, di arte che purifica le brutture
dell’esistenza umana.
Quasi al cinquantaduesimo minuto, però, riecco
più soul che mai un organo in sottofondo, anche una
batteria, sembrano provenire dalla stanza accanto. Dopo un paio di
minuti folate d’organo sempre più ravvicinate, ora
il tono decisamente cool, una ripresa e uno sviluppo delle battute
iniziali, anche il pianoforte ritorna più ritmico che mai.
Ritmi
ossessionanti, atmosfere pacate, squisitamente ambient, il timbro
groovy di un organo hammond, quello liquido di un piano elettrico, un
solido baricentro costruito sulle corde di un contrabbasso, figure
melodiche e ritmiche essenziali, riff ostinati, morbido e secco lavoro
di spatole e piatti, pulsanti, fughe psichedeliche.
Forse è a quel punto che scrive il primo accordo:
SOL7sus(b9) il quale altro non è che l’accordo di
settimo grado di MIb con il SOL al basso. La meditativa enunciazione
tematica, senza tempo (sospensione armonica e ritmica quindi,
nonché melodica per l’esposizione cadenzante)
sembra esplorare ogni segreta essenza di questo semplice accordo, di
questo microcosmo appunto. Poche note piene di meraviglia per
un’esplorazione così circoscritta cui solo gli
occhi di un bambino possono dare profondità. Poi la stessa
cosa, una quinta sopra, in risposta al primo accordo. Introduzione
magistrale. Il tema, intriso di un doloroso sapore blues
si ripete due volte risolvendo infine a DO minore, breve ponte che
conduce al magnifico solo costruito su pochi semplici accordi
prolungati che ne fanno un brano modale.
Enumeriamo di seguito quelle peculiarità che,
vistose e stranianti, emergono con forza al primo ascolto.
Innanzitutto, il processo di disumanizzazione, o meglio di
sub-umanizzazione a cui vengono sottoposte le voci. Soffocate, nasali,
abbrutite, psicotiche e decerebrate, esse paiono fuoriuscire da
rachitici e orripilanti freaks vampirizzati dalle
più indicibili paure. Alle cupe e alienanti manipolazioni
fonetiche di sorgenti sonore raccolte chissà dove, funge da
contrappunto uno sterminato catalogo di esilaranti bizzarrie
strumentali: bislacchi accordi di clavicembali demodè,
pianismo goffo e claudicante, grossolani stacchetti funky di tromba,
kazoo sbilenchi, tromboni rodomonteschi, chitarre scatenate in orge di
wah-wah e progressioni latin-jazz, sax in preda a spasmi beefheartiani
o a languori mediorientali, dissonanti percussioni metalliche, paludosi
tam-tam equatoriali, vibrafoni striduli, imbarazzanti dialoghi tra
trombette e clarinetti.
Musica che farà perno sull’attrazione,
sul timore e dunque ancora sull’attrazione che il diverso
agita, e differente dai generi codificati era certamente
l’exotica, con quel continuo miscelare canti di uccelli,
cascate di sezioni d’archi, coloriture timbriche, ritmi
latino-americani, come il cha cha cha o il mambo, insieme a polke,
ballate pop, canzoni d’amore del Pacifico, temi da musical,
jazz, sonorità quasi rock (&roll) e folk.
Il primo è un oscuro esercizio atonale, in cui
basso, voce e tastiera sembrano evocare il minaccioso avanzamento di un
astro verso la Terra. Il secondo è una vera gemma: allo
sfiatare malinconico di un macchinario zoomorfo (una creazione di Max
Ernst?) si sovrappongono frammenti di musique concrete,
voci distorte, suoni casuali e dissonanze. Come definirlo? Un inusitato
esempio di surrealismo atonale?
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando?
Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare
le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo
all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda
intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra
gli altri all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Tra tutte le infinite
possibilità combinatorie dei suoni, alcune di esse sono
momentaneamente raccolte in una specifica esecuzione, che sembra
consolidarsi pian piano in una melodia; allo stesso tempo,
però, tutte le altre possibilità non sono
tagliate fuori, anzi continuamente intervengono, salendo e scendendo di
volume o intensità e seguendo scansioni ritmiche diverse, un
contrappunto, una linea di fuga nel momentaneo assemblaggio di un
pezzo. L’evento sonoro, campo di forze, battaglia fra forze,
abbozza un centro sonoro ripetitivo, circoscrive una traccia musicale
marcata da segni riconoscibili, si lancia verso
l’improvvisazione liberando un
potenziale.
Vi emergono al massimo grado le doti pianistiche e musicali
del nostro: l’accuratissima condotta delle voci interne,
spontaneamente secondo le regole classiche, il voicing calcolato a
seconda delle zone della tastiera per ottenere la risonanza
più ricca dallo strumento, e a questo stesso fine
l’uso di note estranee all’accordo; la ripartizione
delle parti d’armonia fra le due mani; la
capacità, degna di un virtuoso russo di scuola ottocentesca,
di dare rilievo a una nota di un accordo per esaltare il
canto.
Le tecniche utilizzate non sono mai un’esibizione
muscolare di virtuosismo, sono sempre controllate, contenute, misurate
e funzionali alla musica. C’è un senso di pace nel
suo stile, il fraseggio e le progressioni armoniche conducono in
territori ben lontani dalla frenesia e dalle intonazioni non
convenzionali di certo free jazz. Traccia un mondo timbrico insolito in
cui il respiro ed il registro del sax basso creano
un’esperienza quasi fisica del suono.
Sin dall’inizio si impone la determinazione a
entrare immediatamente nel vivo con quella breve frase pentatonica,
subito sostituita da inquieti fraseggi in terzine con il settimo grado
alterato a creare tensione: è solo l’inizio in DO
minore, un nuovo microcosmo esplorato magicamente. E poi la
progressione di tonalità minori in cui tutti gli elementi
elencati poc’anzi si dispiegano splendidamente, anticipando
persino il suo stile più tardo con frasi cromatiche che
utilizzano ampiamente note estranee agli accordi, in un crescendo di
intensità ritmica swingante e di senso
drammatico.
Un viaggio sulle montagne russe del timbro, dove si scende a
precipizio verso un rimbombo esteso, finendo avvolti in una nuvola di
cupi rintocchi, di vibrazioni oscure, risalendo di scatto verso suoni
acuti che guizzano, procedendo sghembi tra corde che sghignazzano. Un
susseguirsi di suoni ispidi, molli e lapidari. Tutto questo ci conduce
a una terza domanda, senza risposta: che cos’è un
pianista?