Ci sono parole buone che sanno di inverni gelidi, di primavere attese, di acqua di fiume e di arance; ci sono parole rare che si sussurrano per paura che dalla bocca all’orecchio possano rompersi; ci sono parole povere che odorano di polvere e alloro bruciato e parole timide che neanche si dicono altrimenti arrossiscono. Esistono parole che non raccontano storie, le fanno. Fanno il tempo passato, quello grande che pare inenarrabile e quello piccolissimo che si vuole insignificante. E la vita degli uomini è tutta lì, nascosta tra milioni di lettere, pigiata a forza tra vocali e consonanti, spalmata su migliaia di pagine ingiallite, incastrate tra i tasti scassati di una vecchia macchina da scrivere, nelle mani di un contadino, soldato, carpentiere, vigliacco ed eroe suo malgrado, nelle dita di un semi-analfabeta incantatore di parole.
In questo mondo, un uomo è in cerca della sua verità: è inspiegabilmente perseguitato da un passato fatto di delitti e violenza estrema di cui lui non ha quasi più memoria, ma che sovente ritorna sotto forma d'istinto bestiale, un istinto incontrollabile. Braccato incessantemente dalla milizia per una serie di efferati omicidi da lui commessi in un passato che non gli appartiene più, scoprirà che la sua condizione è legata all'esistenza stessa della corporazione vaticana. La ricerca della verità lo porterà in situazioni paradossali infarcite di ultraviolenza fino a quando, entrato in contatto con i monaci e con la resistenza, contribuirà a demolire le fondamenta stesse della dittatura clericale.
Quella che scorre è la sua vita, ma a lui
“non interessa”, in sintonia con quanto
scrive Martin Heidegger: “l’esistenza
è il divenire, ciò che è sottoposto a
un continuo mutare, un continuo proiettarsi verso ciò che
non è ancora. L’esistenza è la
condizione propria dell’uomo che vive il dinamismo della
realtà non solo nella propria coscienza, ma anche e
soprattutto nel proprio essere. Essa è il luogo dove
può accadere ogni cosa senza possibilità di
previsione”. Così il nostro protagonista
agisce, e tutto ciò che accade non avviene per sua
volontà; egli segue il suo corso senza pensare alle
possibili reazioni degli altri. Continua a vivere nel tempo
dell’aspettativa, dove si consuma
l’attesa passiva di ciò che deve ancora
accadere.
Forte la risultante di individualismo che
si evidenzia nel suo personaggio, ma anche un’attenzione
particolare per le cose materiali, carnali. Due caratteristiche,
queste, molto presenti ai nostri giorni, nella generazione degli io
accompagnati dai nostri innumerevoli oggetti e bisogni
materiali.
“La mia vita....
“Tutto ciò che volevano - sembra constatare con
meraviglia, - erano le stesse risposte che noi tutti vogliamo: da dove
vengo, dove vado, quanto mi resta ancora…
Non ho potuto far altro che restar lì e guardarlo
morire.”
Tutti si muore, questo lo sappiamo bene. Non tutti, però, si muore allo stesso modo. Non sempre e non dappertutto. Cosa rappresenta la morte? Questo ce lo chiediamo dalla prima volta in cui alcuni uomini posero su un altro uomo, ma solo quando quest’ultimo era oramai senza più respiro, dei fiori o delle derrate per il viaggio che l’avrebbe condotto nell’aldilà. Probabilmente la morte è uno dei crocicchi più importanti per gli uomini da sempre, probabilmente è solo dopo essersi accorti d’essa che gli uomini hanno cominciato a diventare tali. Ma sono questioni tediose, queste, sono questioni archeologiche, lontane nel tempo, si direbbe. A noi interessa l’oggi. Nonostante l’indubbio fascino delle mummie egizie, di una manciata di terra sul corpo inerte di Polinice, delle piroghe degli ’Are’are e delle torri del silenzio zoroastriane, a noi, qui, interessa l’oggi. Che cos’è allora la morte oggi? E, soprattutto, come si muore oggi?
Loro sicuramente spareranno. Se non starete attenti, se quelli vi ammazzano, con chi giocheremo noi fra 15 giorni?” Loro se ne andarono e successe proprio quello che avevano previsto. Le due settimane successive non potevamo nemmeno tirare fuori la testa dalla trincea perché i nuovi arrivati ci sparavano addosso in continuazione. Io sono stato ferito sei volte durante la guerra, ma non dimenticherò mai il gruppo di soldati con i quali abbiamo giocato a calcio per quasi un anno”
I morti del tifo, dunque: mancanze, assenze, che potrebbero essere ancora vitali nella reminiscenza di tragedie utile a riconoscersi come collettività, utile a sentirsi tale con il collante di emozioni condivise intersoggettivamente, utile a compattare il legame sociale in maniera prolungata. Altrimenti sarebbe come morire più volte, altrimenti sarebbe come perpetuare un trauma costantemente irrisolto.
Per poter mantenere la morte ai suoi confini, la nostra
società ha adottato, evidentemente, una serie di strategie:
strategie collettive più o meno istituzionalizzate messe in
atto dagli attori sociali al fine di creare quegli schermi protettivi
necessari ad attutire lo sconvolgente impatto potenziale della morte.
Queste strategie di difesa sono di nasconderla, di evitare di parlarne,
rinviando e posticipando quanto più è possibile
ogni riferimento al tema e a colui o coloro che potrebbero suggerirne
una qualsivoglia rievocazione. Quando proprio non se ne può
fare a meno, allora si comincia a prenderla in considerazione, a
parlarne seriamente, assumendone la reale esistenza per paragonarla ad
un avversario razionalmente forte, fortissimo, praticamente invincibile
d’altro canto, però, si indebolisce la sua potenza
(e prepotenza) neutralizzandolo affettivamente.
È però anche vero che, purtroppo – e
spesso in modo imprevedibile – ogni tanto questi margini,
queste dighe, questi “filtri” si frantumano e
cominciano a venir fuori delle crepe. Basta una morte improvvisa,
inattesa, di un altro, soprattutto di un altro significativo,
allora la nostra visione della vita (e della morte) viene profondamente
sconvolta, talvolta in maniera anche radicale. È a questo
punto che si rendono allora necessarie delle strategie di attacco
dell’avversario. Il modo storicamente più
elaborato e fecondo di attuare tali strategie è stato quello
di cercare di negare l’evidenza dei
“fatti”, proponendo una qualche mitologia
dell’immortalità, un mito della “vita
dopo la morte”, empiricamente testimoniato dalla diffusione
di una serie praticamente indefinita di “culti dei
defunti”, a loro volta derivanti dall’uso
tradizionalmente trasmesso di seppellire i morti e di affiancarvi segni
e simbologie di un mondo trascendente.
Ad ognuno il suo Aldilà, dunque, ad ognuno la sua finzione, in quella gratificante disposizione che concretizza le linee dell’immaginazione o dell’intuizione umana, spettacolarizzando il senso di colpa, eternando la battaglia o dissolvendo i corpi, nobilitando la povertà terrena o giustificando l’empietà dei reprobi.
I cimiteri virtuali sono forse al momento l’espressione più compiuta della trasformazione dei rituali funebri e della memoria dei defunti attraverso uno spazio anomico. Infatti, si tratta di uno spazio, un sito, in cui è possibile commemorare i defunti seguendo rituali più liberi e interattivi rispetto a quelli reali. Ci sono alcune analogie con la realtà: si possono infatti deporre fiori, accendere candele, lasciare dediche, naturalmente digitali. Ma ci sono anche molte differenze: si possono condividere informazioni sui defunti, tramite foto, video, filmati, ma, soprattutto, si possono condividere emozioni e stati d’animo con altre persone, amici, familiari, congiunti; inoltre, i cimiteri virtuali accolgono i propri ospiti senza limiti di tipo spazio-temporale, in modo quasi sempre gratuito e senza richiedere abilità informatiche particolari. Che si tratti di cimiteri virtuali videogioco, che riproducono formalmente i cimiteri reali e sono dotati di animazioni grafiche definite dal movimento e dal contrasto cromatico; che si tratti, invece, di cimiteri virtuali ipertesto, che sostituiscono ai riferimenti iconici della realtà gli strumenti di navigazione, i quali permettono di dialogare con la comunità elettiva di riferimento; oppure che si tratti di cimiteri virtuali pagina personale, vere e proprie forme espressive realizzate da un soggetto portatore di valori ed emozioni che ricerca una ritualità personalizzata da condividere con altri; ognuna di queste forme di simulazione impegna, sia pur a livelli diversi, l’esperienza della morte e la sua elaborazione, mostrando caratteristiche ben precise.
Ogni morte è la perdita di un
mondo – una perdita per sempre, una
perdita irreversibile e irreparabile.
È la mancanza di quel mondo che non ha mai fine –
che sarà d’ora in poi eterna. È
attraverso lo shock della morte, e la mancanza che ad essa segue, che
il senso della definitività, e quanto più il
significato di eternità, di unicità, di
individualità nelle sue due facce de la
memêté e
l’ipsèité, sono rivelate a
noi, i mortali.
Ma come osserva Vladimir
Jankélévitch, non tutte le morti hanno la stessa
potenza rivelatrice, illuminante e educativa. La mia morte non
può essere compresa come definitiva, in quanto tale,
né immaginata (non riesco ad immaginare il mondo dal quale
sono assente senza immaginare la mia presenza all’interno
come testimone di essa, cameraman e giornalista). La perdita di
“terze persone” (gli stranieri, gli
“altri” anonimi e senza volto), che è
destinata a rimanere una nozione astratta e demografico/statistica, ma
tuttavia grande per le cifre in cui è espressa, non ci
sembrerebbe una perdita insuperabile; quando veniamo a conoscenza di
una morte, non siamo in grado di collegare questa notizia a nulla in
particolare che riguardi una nostra possibile perdita (usando i termini
di Derrida, si può dire che non conoscevamo quei mondi della
cui scomparsa siamo stati informati). Sappiamo che tutti gli umani sono
mortali, siamo abituati all’idea che tutte le specie viventi
si rinnovano attraverso la mortalità di tutti i loro membri,
e possiamo assumere, seppure soltanto implicitamente, che passato un
po’ di tempo le lacune che la morte ha lasciato aperte
saranno colmate; che la perdita, per quanto grandi siano i numeri, non
sia irreparabile.
E così è solo un tipo
di morte, la morte di “te”, del
“secondo” non di un “terzo”, di
qualcuno vicino e caro, di qualcuno la cui vita si intreccia con la
mia, che spiana la strada verso una “esperienza filosofica
privilegiata”, dal momento che mi offre un saggio di quella finalità
ed irrevocabilità che riguarda la morte,
tutte le morti, e solo la morte. Qualcosa d’irreversibile ed
irreparabile sta capitando a me, qualcosa di simile alla mia stessa
morte, anche se questa morte riguarda un altro, non è ancora
la mia.
Molto simili ai ricordi sono gli aggiornamenti, con cui
indichiamo quei particolari messaggi direttamente rivolti alla persona
estinta, che fanno riferimento all’immediato passato di cui
lei non è più parte. Quasi al fine di metterlo al
corrente degli avvenimenti che caratterizzano i suoi gruppi di
appartenenza, chi frequenta questi spazi di interazione riporta
fedelmente gli accadimenti più significativi della sua vita
ed anche, possiamo dire, del contesto sociale. Un esempio è
offerto da questo messaggio: “Il 6 ottobre si
è laureato Marco con ottimi voti. È stata una
giornata indimenticabile, abbiamo avuto la sensazione che anche tu
fossi accanto a noi. Siamo certi che tu partecipi a questa grande
gioia. Mamma e papà”.
Gli epitaffi sono invece narrazioni biografiche legate a particolari
interessi della persona scomparsa, solitamente pubblicati a seguito
della morte o per ricordarne
l’anniversario.
Lasciando esplodere la volontà di vivere,
primordiale e irresistibile impulso all’azione, e non
trasformando la virtualità dell’amore unicamente
in ricordo, e dunque in rovina, sono proprio quelle scelte, infatti, a
render viva l’esistenza.
Dunque, quell’orologio ripetutamente inquadrato forse solo
ingannevolmente voleva ricordarci che siamo creature di Kronos,
il tempo che lascia scorrere il presente e conserva il passato, il
tempo corporeo, delle azioni cioè che i corpi compiono,
snodato sulla linea retta degli accadimenti successivi.
Il fosco paesaggio sepolcrale fa da sfondo al divenire e al suo ciclo perpetuo di produzione e di distruzione, al prepotente, operoso dissidio di un processo che promuove la nostra nascita e ci divora senza tregua. È nel trasformare il futuro in passato, nello scompaginare l’ordine degli accadimenti che si riesce a cogliere l’impulso febbrile proteso a rivitalizzare l’esanime, a ricostituire il corrotto, a ricomporre l’infranto. Una tensione ontologica, manifestazione di pulsioni profonde, si riflette sul piano epistemologico, intrecciando un inscindibile nodo tra processi e rappresentazioni, natura e metafisica, esistenza e conoscenza, essere e scienza, e riaccendendo una dialettica che non si estingue nell’implosione della polarizzazione vita-morte, nella cinica e crudele inconsistenza di un tempo inafferrabile.
Il contenuto del biglietto, recuperato il 25 ottobre, consiste dunque in informazioni puramente tecniche e in brevi parole d’addio ai propri cari “Sono le 13 e 15 tutto l’equipaggio del sesto, settimo e ottavo compartimento si riunisce al nono. Ci sono 23 membri qui. Abbiamo preso questa decisione in seguito all’incidente. Nessuno di noi può raggiungere la superficie. Sto scrivendo al buio. Sembra non ci siano speranze, forse il 10-20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno legga. Qui sono gli elenchi dei membri dell'equipaggio dei vari compartimenti che si trovano adesso nel nono e che cercheranno di uscire. Ciao a tutti, non è necessario disperarsi”.
Nessuna scena può essere davvero astratta dal contesto narrativo del film di cui è parte, e che contribuisce a “tessere”, né dal contesto narrativo della biografia del suo spettatore.
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando? Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra gli altri all’interno di un’opera letteraria, l’autore appunto.
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement, processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi preesistenti che assemblati in maniera differente dall’originale producono un significato nuovo.