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Ad ognuno il suo
Aldilà, dunque, ad ognuno la sua finzione, in quella
gratificante disposizione che concretizza le linee
dell’immaginazione o dell’intuizione umana,
spettacolarizzando il senso di colpa, eternando la battaglia o
dissolvendo i corpi, nobilitando la povertà terrena o
giustificando l’empietà dei reprobi.
D’altronde, se ogni autore ha già il suo mondo, e
vive in esso al pari dei suoi stessi personaggi, perché non
dire che la letteratura prende ad essere in ogni singolo caso
l’unico modo per giudicare la realtà, per
definirne gli angoli e i recessi? Di nuovo insieme, allora, le finzioni
della metafisica a far parte unica con quelle della letteratura
fantastica, a dimostrarsi proposte soggettive nell’irrisolta
tensione che ci vuole solutori del caos della realtà. Tutto
a provenire dall’esitazione del soggetto che, dopo essersi
chiesto: che ci sto a fare io, qui? si
chiederà con sempre maggior timore: soprattutto,
cosa farò, dopo?
I sopravvissuti della stagione dell’acido hanno
messo su radio, ristoranti, wine bar, agriturismi, più o
meno spiritualisti o salutisti. O sono finiti per fare affari nel
supermarket mistico della New Age. Per non parlare di quella frangia di
alternativi che, pur profondamente immersi nella cultura americana
underground degli anni 60-70, sono diventati paladini della new economy
e hanno fatto carriera e che carriera.
Una borsa dei corpi e delle menti, la cui posta è
un potere assoluto che si fa capillare, esercitandosi sulle singole
unità del corpo sociale complessivo. Si rinforzano alleanze
a prima vista imprevedibili: quella fra i custodi del sacro e della
tradizione – che dovrebbero essere i conservatori degli
antichi riti di passaggio – e i sostenitori
dell’innovazione sfrenata sotto l’egida del mercato
e dell’esteriorità, dei loro conflitti, delle loro
regole.
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto
leggendo e interrogando? Tale domanda, è chiaro,
non serve soltanto per rintracciare le linee biografiche di chi ha
scritto un particolare e specifico testo all’interno del
testo stesso. Al contrario. Questa domanda intende indagare circa la
natura e la funzione di un personaggio tra gli altri
all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Nessuna scena
può essere davvero astratta dal contesto narrativo del film
di cui è parte, e che contribuisce a
“tessere”, né dal contesto narrativo
della biografia del suo spettatore.
Il Situazionismo
intende perseguire questi obiettivi attraverso delle direzioni di
ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
La
metafora è fin troppo chiara, gli uomini sono sottoposti a
forze ignote che possono portarli sull’altare o nella polvere
senza che dietro tutto questo ci sia mai un senso o un disegno preciso.
Sono i superstiti che “caricano di senso” questi
eventi, ma le tempeste agiscono senza alcun fine se non quello
intrinseco alla loro natura.
In questa fiaba gotica, percorsa quasi convulsamente da orridi
presagi, che gradualmente si dissolvono in inconfessabili ricordi, i
personaggi, ottenebrati dall’oscurantismo religioso, dalla
rimozione della colpa, dalla paura dell’abbandono, dal timore
dell’ignoto, sembrano incarnare il potenziale terrificante
degli esseri prigionieri della propria alienazione e metaforizzano la
radicale incomunicabilità in un gioco crudele costruito
sulla struggente assenza, sull’insopportabile mancanza, sulla
sgomenta attesa, sull’impossibile ritorno. Le stesse presenze
prendono forma nel vuoto dominante di quest’opera, arcana
variazione sul tema degli universi paralleli, film d’altri
tempi, che non ricorre agli effetti speciali per catturare
spaventando e che trova la propria forza seduttiva soprattutto nel
dispiegamento narrativo assecondato da una perturbante colonna sonora,
composta dallo stesso regista. Una storia di “fantasmi, morti
che ritornano”, che “rimandano più
profondamente agli archetipi e alle strutture
dell’inconscio”, un episodio significativo di
soprannaturale narrativo, un’originale riemergenza del
“simbolico più beffardo e ineffabile”,
che, per una volta, abbandona la plumbea e stagnante atmosfera delle
livide metropoli, consueti fondali dei contemporanei racconti
metafisici, per tornare ad abitare un cupo castello, nel probabile
tentativo di utilizzare meraviglia e paura, proprio come accade nelle
favole, accogliendo l’irrazionale senza alcuna
remora.
In
una favola, il mondo possibile è generalmente quello
asserito, definito dall’autore, e rappresenta non uno stato
di cose, ma una sequenza di stati di cose ordinata per intervalli
regolari, che si arricchisce con lo svolgimento della narrazione e
l’esplicitazione degli elementi diegetici del mondo
descritto, mondo dotato di proprie regole che possono o meno
confliggere con la cosiddetta realtà. Il lettore della fiaba
effettua una continua operazione di paragone tra il mondo della fabula
e il proprio, stabilendo un regime di riferimenti incrociati e
comparativi tra il possibile e il reale. Dall’incontro, o in
alcuni casi, dallo scontro, nasce la funzione tipicamente didattica e
didascalica dell’immaginario della fabula, che intende
definire una rappresentazione simbolica e traslitterata della
realtà allo scopo di palesare delle finalità
ammonitive ed educative. È principalmente questa la ragione
per la quale la favola è particolarmente interiorizzata dal
pubblico, abituato, già da bambino, a relazionarsi con un
mondo immaginario, nel quale ciò che accade è
vincolato da un preciso regime di causalità, dal quale
è generalmente possibile estrarre la
morale.
Un chiaro esempio è dato dalla
capacità di attivare attraverso il Web azioni di sostegno al
lutto e di aiuto in favore dei congiunti di deceduti. Azioni che si
tessono nel Web attraverso una rete di contatti e di connessioni
attivate secondo le abituali modalità di accesso e che sono
capaci di stabilire legami altrettanto forti di quelli che si attivano
nella realtà, al punto che, in alcuni casi, tali legami si
estendono anche alla realtà. È decisamente
singolare vedere che un contesto originariamente ludico, superficiale,
come quello della simulazione giocata attraverso lo schermo, sia essa
riferita alla semplice navigazione, all’uso di strumenti
standard (forum, blog, ect), o alla ricerca di prodotti specifici (siti
specializzati, cimiteri virtuali), sia in grado non solo di catalizzare
le emozioni – il dolore della perdita - ma soprattutto di
produrre esperienze che, in questo caso specifico, recuperano il valore
del rituale elaborando le emozioni – una vera e propria
elaborazione del lutto. In un campo così spinoso come quello
della morte la simulazione dimostra come il suo uso possa essere non
solo legittimo, ma anche umanamente significativo.
Impressi su lastre di vetro, tenuti in centinaia di scatole a
dieci lastre, nascosti o dimenticati su qualche scaffale in una cantina
del manicomio… Mi è stato chiesto di filmare una
prima parte di queste lastre fotografiche, per poterle proiettare nello
stesso cortile o prato dove questi uomini e donne hanno camminato ho
almeno visto alberi, porzioni di cielo, dalle loro finestre.
“Ritratti
sorprendenti con lo sguardo diretto, un concentrato di
soggettività, l'espressione dei volti. Per il resto tutti
sono vestiti con le tute istituzionali, nessun oggetto personale.
Ritratti fatti per le cartelle cliniche, per riconoscimento delle
migliaia di persone internate, schedate.
Ma sono dei veri
ritratti. Nessuno fino ad ora li ha visti.
Probabilmente ci sono delle localizzazioni in cui certi
sentimenti ed emozioni restano nell’aria come una leggera
bruma senza sostanza, appiccicandosi alle pareti e lì
rimanendo per sempre. Come quei castelli vetusti della letteratura
gotica i cui abitanti sono sempre stati e sempre saranno crudeli, al di
là del tempo, e come quelle cittadine o quelle dimore
costruite su vendicativi cimiteri indiani nel cinema di bassa lega (con
la doverosa esclusione di Shining,
d’accordo) in cui succede e sempre succederà
qualcosa di brutto. Probabilmente ci sono degli ambienti in cui la
malinconia aleggia volatile e si fa respirare, entrando in tal modo
nell’anima della gente che questi ambienti frequenta.
Probabilmente ci sono dei posti nati per uno specifico obiettivo che
non ci è manifesto, usciti fuori dal disegno del caso o di
chissà quale divinità distratta perché
da lì possano emergere particolari moti dello spirito,
magari trasformandosi in parole ed in musica. Sono luoghi senza dubbio
fantastici e soprannaturali, come quelle crepe nelle cose del mondo,
quei “tenui ed eterni interstizi di
assurdità” nel reale.
Lo smisurato silenzio si colora di un’incalcolabile
dovizia di dettagli. Proprio come in un affresco di Bosch, ci
è possibile afferrarne solo una quantità
risibile: oscuri ciondolii, stridori abrasivi, poderose rullate,
sferzate lancinanti e, sopra tutti, l’inconsolabile lamento
del kudu shofar, un contorto corno d’ariete. Il testo
– una grandiosa saga fanta-storica – narra di
Zercon – buffone della Corte di Attila realmente esistito
– e della sua fantasiosa fuga verticale. Volerà in
compagnia delle aquile, osserverà da vicino San Simeone
(l’asceta siriano che visse per trentasette anni in
solitudine su un pilastro), e, in sottofinale, si dedicherà
alla pratica del Flagpole-sitting (negli anni
Trenta una stramba mania si affermò in America: trascorrere
alcuni giorni su una piattaforma allestita sulla sommità di
un palo). Il tragico finale vedrà Zercon fondersi con un
SDSS1416 + 13b (il più freddo corpo substellare esistente
nell’universo, recente scoperta dell’astrofisica) e
morire così assiderato.
Nell’epoca della dominante affettiva è
infatti impossibile ridurre le immagini (ed ogni altro evento
semiotico) ad un mero simulacro, come vorrebbe invece una lettura
riduttiva ed eccessivamente semplificata del postmoderno. Piuttosto, la
dominante affettiva pone l’accento sulla necessità
di riaffermare la forza produttiva delle immagini e delle pratiche
culturali, e la loro potenzialità di diventare parte attiva
nell’articolazione di un concatenamento collettivo di
enunciazione. Il duo britannico prova infatti a rendere percettibile,
attraverso l’arte, una condizione che non
è principalmente artistica, ovvero a far vedere qualcosa che
non è immediatamente visibile.
Il volto di Cristo, insomma, impazza. Nel 1991, per esempio,
apparve nientemeno che su un cartellone pubblicitario che reclamizzava
una marca di spaghetti in America. Lo strano caso, che destò
l’attenzione della stampa locale, fu provocato dalla fantasia
di un nutrito gruppo di persone convinto che, tra i fili degli
spaghetti conditi da un invitante sugo colante, si nascondesse proprio
il barbuto volto di Gesù. Un precedente del resto
c’era stato nel 1978 allorquando, in un paesino del New
Mexico, una signora fece benedire dal parroco locale una tortilla da
lei cucinata, sulla quale le casuali bruciature provocate dalla cottura
formavano inequivocabilmente i contorni di un volto.
“È Gesù Cristo!”, avrebbe
esclamato la brava donna senza starci a pensare troppo, trovando
conferme in tutti coloro che accorsero a vedere la miracolosa
tortilla.
Come a dire che gli elementi costitutivi del fantastico, in un
modo o nell’altro, si trovano nella realtà stessa,
sono visibili ad occhio nudo (in questo caso, almeno, sembra possibile
affermarlo). In altri casi il fantastico, pur offrendo la sua specifica
connessione che lega le diverse maglie del reale, si innesta sulla
immediata e individuabile dimensione giornaliera di un contesto palese,
per routinizzarsi come un qualsiasi elemento della vita di tutti i
giorni.
A dire il vero non esiste prova certa della passione dei
pinguini per la cioccolata, né per quella napoletana
né per quella prodotta in un qualsiasi altro angolo del
mondo ed è anche vero che niente dimostra una loro
particolare propensione verso ciò che noi chiamiamo musica.
Eppure eccoli, ogni qual volta si oltrepassa il velo del tempo,
lì, nell’anonima via Vito Fornari, al numero
civico 10, accompagnati da una strana colonna sonora, che sembra
meritarsi il titolo di un altro brano di quell’album, The
Sound of Someone You Love Who’s Going Away and It
Don’t Matter, eccoli si guardano in giro, poi
passano oltre e la nuova cartoleria torna a far valere il diritto del
più forte su quest’attimo di precaria armonia,
subito poi perduta per rimasticare il saggio di Raffaele La Capria o
per dirla con l’abate Fornari: “… se pur
talvolta alcun bene o alcuna bellezza vi apparisce, sempre vi
è misto del suo contrario, e tosto come fuggitiva meteora si
dilegua”.
Aveva smesso di tremare e sembrava anche lui sollevato per la
conclusione del rapporto. Non gli venne da fare alcuna domanda, non
c’era nient’altro che volesse sapere. Per un attimo
fu tentato di alzarsi per correre fuori e sincerarsi se fosse tutto
vero, ma le conferme erano lì ai suoi piedi: un fodero di
pistola e una scatola di biscotti. Allora decise in un lampo cosa
raccontare di sé, del suo tempo, del suo paese.
Parlò lentamente per dare tempo all’altro di
scrivere ma anche per imprimere meglio le parole dentro di
sé.
“Nel 1966 a maggio compivo nove anni.
Andavo bene a scuola e i miei genitori mi chiesero di esprimere un
desiderio. Fu il mio primo giradischi. Un Telefunken a valigetta
bicolore. Credo che mio padre avesse impegnato un paio di stipendi da
impiegato comunale. Lo tengo in cantina e fino a qualche tempo fa
funzionava ancora. Si sollevava il coperchio della valigetta e lo si
divideva in due pezzi che contenevano degli altoparlanti ovali: era
stereo! Bisognava quindi separare il più possibile i due
canali, almeno quanto lo permetteva il cavo audio a treccia. Sul piatto
c’era un disco di gomma zigrinata verdolina che aveva un
profumo inebriante. La puntina poteva essere selezionata sui 45, 33 o
78 giri. Al centro il cilindretto di plastica nera per alloggiare i 45
giri. Togliendolo si potevano mettere sul piatto i 33 o 78 giri che
avevano il buco al centro più piccolo. Al sabato pomeriggio
restavo spesso solo in casa. Mio padre andava a giocare a biliardo, mia
madre dal parrucchiere. Allora invitavo a casa mia il mio migliore
amico che abitava al piano di sopra. Aveva un anno più di
me, ma non aveva ancora il giradischi. Per sdebitarsi portava sempre
qualche dolcetto, ma la cosa che più ci esaltava erano le
sigarette di cioccolato, avvolte in vera carta da sigarette, contenute
in veri-finti pacchetti di sigarette. Seduti uno di fronte
all’altro mimavamo boccate di fumo e succhiavamo cioccolato
finendo per ingoiare anche la carta. Ricordo che lui amava sdraiarsi
sulla poltrona di traverso, mettendo le gambe sui braccioli, io invece
mi sdraiavo sul parquet a pancia in giù, per sentire meglio
i toni bassi vibrare nello stomaco. Insieme con il giradischi erano
arrivati alcuni 45 giri di quell’anno: Ma che colpa
abbiamo noi dei Rokes, Perdono di
Caterina Caselli, Io ho in mente te
dell’Equipe 84, Se telefonando di Mina.
Ricordo che questo era il mio brano preferito. A
quell’età non ero certo in grado di apprezzare le
doti canore di Mina. Che sono immense lo avrei scoperto un
po’ dopo. Allora restai affascinato da quelle trombe
all’unisono nell’introduzione, avevano un suono
trionfale e premonitore, sembravano annunciare: “adesso
arriva la voce di Mina e sarà potente e intonata proprio
come noi”. Una canzone perfetta: una sola strofa,
un solo bridge, un maestoso ritornello ripetuto all’infinito
da cui non si può tornare indietro. Limpida come una
scultura greca. Mi piaceva terribilmente il frastuono della batteria,
quel suono sporco riverberato in modo naturale dalle enormi sale di
ripresa degli studi RAI. E quel coro finale che fa da coda al
ritornello quasi a chiedere scusa che il pezzo sia finito solo dopo 2
minuti e 54 secondi. Canticchiavo quel coro per tutto il tempo
necessario a prendere il braccetto prima che il disco si fermasse e
rimettere la puntina all’inizio. Questo rito pagano fatto di
volume al massimo, pance nude sul parquet, piedi sporchi sulle poltrone
e macchie di cioccolato sulle copertine è andato avanti
tutti i sabati pomeriggio del 1966 e non sono mai stato più
felice di allora.”