Una pianura desolata, brulla, fatta di dossi e di avvallamenti. Qui è là, piante scheletriche, assetate. Sullo sfondo, contro il sole al tramonto, la sagoma di un uomo: è aitante, robusto, porta un cappello dalle falde larghe, per ripararsi dal sole e dalla pioggia, avanza guardingo, attento. Si sente un colpo di fucile. Si intravede qualcosa di luccicante che lo sfiora, lo sorpassa. Si ferma, guarda nella direzione da cui è arrivato lo sparo, poi il proiettile. Con calma estrae il Winchester dalla guaina sul fianco della sella. Prende la mira, spara. Posa il fucile di traverso sulla sella davanti a sé. Riprende a muoversi, coi sensi all’erta, nella direzione da cui è partito il colpo di fucile che lo ha sfiorato.
Nessuna scena può essere davvero astratta dal
contesto narrativo del film di cui è parte, e che
contribuisce a “tessere”, né dal
contesto narrativo della biografia del suo spettatore.
È
così che irrompe sulla scena Bartleby, il nuovo scrivano.
Taciturno, garbato, per quanto refrattario ad ogni forma di interazione
colloquiale, all’inizio egli sembra interpretare il suo
scialbo lavoro con energica laboriosità. Si immerge,
infatti, nella copia dei documenti legali con zelo vorace. Ma dopo
pochissimo tempo prenderà le distanze dai suoi doveri
lavorativi, rifiutandosi prima di controllare l’esattezza
delle copie con i colleghi e l’avvocato, poi gradualmente di
adempiere ad ogni sua funzione. Ogni sollecitazione, ogni
richiesta ottiene la stessa riposta: “avrei preferenza di
no”. Quest’espressione diviene una cantilena
ossessiva con cui Bartleby progressivamente si allontana da qualsiasi
impegno sociale, chiudendosi in un rigoroso e inoppugnabile solipsismo.
Il nostro eroe, che pure aveva deciso che con la violenza e la forza non voleva più averci a che fare, nel momento in cui gli rapiscono la sua nuova bella decide che forse è il caso di ricorrere di nuovo alle “competenze” acquisite in Iraq, e, aiutato da un ex commilitone sociopatico sconfigge gli psicopatici cui ha pestato i piedi e salva la sua ragazza, riportando una parvenza di ordine nel suo universo.
Proprio mentre in Europa si consumavano e commettevano le
peggiori nefandezze in nome del razzismo, nel 1939 due immigrati
tedeschi davano il via negli Stati Uniti, a New York, a una delle
più straordinarie imprese culturali che si possano
raccontare, fondando una storica etichetta discografica indipendente,
incentrata sulla passione per la musica, l’arte e il
riconoscimento della cultura afroamericana, che era e doveva essere
americana a tutti gli effetti. Stiamo parlando della Blue Note Records,
costituita da Alfred Lion e Francis Wolff, proprio alla vigilia del
secondo conflitto mondiale: una sigla, un’insegna, da sempre
sinonimo di jazz.
Un’equazione già
interamente custodita in quel nome – Blue Note –
così suggestivo ed evocativo, che immediatamente richiama al
blues, la forma musicale neroamericana per antonomasia –
radice culturale del jazz, tra i suoi elementi portanti (dal punto di
vista formale, filosofico e persino mitologico) – e alla
caratteristica fondamentale del jazz e più in generale delle
musiche afroamericane: l’esercizio funambolico
sull’intonazione.
Troviamo temi che appartennero alla fantascienza, stili che incarnarono la trasgressione giovanile, oggetti protagonisti di film, telefilm, fumetti e cartoni animati, una folla di personaggi tratti da generi narrativi vari, memorie di passati recenti e remoti. Ecco, l’immaginario si nutre ed è alimentato da questo scivoloso intreccio di discorsi, spesso intercambiabili tra di loro, narrazioni che si infiltrano negli interstizi della produzione materiale, traendone linfa vitale e seminando nuovi ibridi destinati alla vita quotidiana.
Il valoroso Achille e l’astuto Ulisse nei poemi omerici, il viaggiatore Dante nella Commedia, il prode Orlando nell’opera di Ludovico Ariosto, Gulliver in Jonathan Swift, il naufrago Robinson Crusoe in Daniel Defoe (e l’elenco potrebbe ovviamente continuare), suggeriscono al lettore immagini forti, immagini indelebili dei protagonisti, delle situazioni, talvolta dei luoghi e degli oggetti (lo scudo di Achille, per limitarsi a un esempio). Il romance, la letteratura popolare e di genere sono da sempre stati ben consapevoli di questa relazione.
Alessandro Magno in Asia aveva pianto sconfortato di fronte alla constatazione che esisteva un mondo solo da poter conquistare, essendogli preclusi tutti gli altri; Napoleone Bonaparte aveva discorso spesso, nei suoi momenti di pura visionarietà, sulla possibilità che gli altri pianeti fossero popolati, e se n’era detto assolutamente certo; Cecil Rhodes, idealtipo del conquistatore capitalistico, aveva espresso il bruciante desiderio di annettersi mondi interi, non bastandogli più gli angusti confini dell’Africa.
Un cavaliere (delle onde) senza macchia e senza paura, sempre in mezzo a un mare (anche letterale) di avventure, ma anche sempre critico e solitario, sia sentimentalmente - e non certo perché non piaccia alle donne - sia perché l’unico a combattere contro nuovi “mulini a vento”, in nome di un’antica ma sempre giusta idea di giustizia (e forse, ancor più, di libertà). Partendo da Venezia, la porta dell’Oriente, le rotte delle sue storie portano quasi tutte in quella direzione, ma non è solo una questione geografica.
E con il Corsaro Nero vanno elencati gli altri membri della sua famiglia, i suoi fratelli, il Corsaro Rosso e il Verde, che i lettori non hanno modo di conoscere se non dai racconti del cavaliere stesso; sua figlia Jolanda (Jolanda, la figlia del Corsaro Nero) e suo nipote Enrico (Il figlio del Corsaro Rosso). Tutti valorosi, audaci, di aspetto magnifico e capaci di ridurre un branco di pendagli da forca, quali sono i Filibustieri della Tortue, quasi a degli agnellini!
Esiste allora un vero Bond? Qui si pone lo stesso problema di Batman, eroe noir e solitario nelle prime avventure di Bob Kane, poi adattato per assecondare i gusti del pubblico fino a diventare per un certo periodo un supereroe camp, anche se ancora oggi resta più affascinante nelle vesti di cavaliere oscuro. È, in fondo, il dilemma che devono affrontare gli eroi dalla lunga vita, come Sherlock Holmes, che in più di un secolo è stato investigatore intellettivo, personaggio di propaganda, detective da cappa e spada, parodia di se stesso e, ultimamente, brillante eroe steampunk. E potremmo andare ancora più indietro nel tempo, pensando alle innumerevoli riletture di Don Giovanni, Re Artù o Ulisse.
E se Tarzan esistesse davvero? Sarebbe ancora vivo, nascosto nel profondo della foresta vergine africana? Perché, in realtà, non tutta l’Africa è stata svelata, almeno agli uomini bianchi… Tanto che anche Joe R. Lansdale ha provato a scrivere un romanzo su Tarzan – non uno dei suoi migliori, forse, ma prova della sopravvivenza nell’immaginario dell’uomo-scimmia più famoso del mondo (2008) – che, appunto, tornato nella giungla africana dopo gli anni di permanenza fra gli uomini, si trova a riprendere il suo vecchio mestiere di castigamatti. Ma forse è un apocrifo… Forse Tarzan, tornato in Africa, si è infettato di AIDS, o di Ebola, o di Marburg, che allignano proprio nelle aree ancora vergini dell’Africa centrale.
Una figura emblematica dell’immaginario medievale, Riccardo Cuor di Leone, unisce in sé i caratteri del Re e del Cavaliere. Impegnato nelle grandi crociate in Terra Santa, in cui dà prova del suo carattere cavalleresco nell’Impresa per definizione – la liberazione del Sepolcro di Cristo dagli infedeli –, Riccardo Cuor di Leone diventa poi sovrano amato e rispettato al ritorno in patria nella sua Inghilterra.
Ai vecchi tempi ci davano delle enormi suite negli alberghi, un piano intero, e noi quattro finivamo nello stesso bagno solo per il piacere di stare insieme. Perché eravamo sempre sotto pressione. C’era sempre qualcuno che voleva qualcosa: un’intervista, un ciao, un autografo, essere visto con noi, qualsiasi cosa. Eravamo gli unici ad aver fatto l’esperienza di essere i Beatles: nessun altro sa che cosa significhi.
Thor, finita di scontare una penosa penitenza comminatagli dal padre Odino nel Galles, è pronto a far ritorno ad Asgard, la dimora degli dei, in Norvegia, ma è costretto a dover prendere un maledetto aereo. Verrebbe da chiedersi perché Thor non faccia uso dei suoi noti superpoteri, per adattare una frase divenuta famosa nella fantascienza, quella proferita dal capitano Kirk in Star Trek: l’Ultima frontiera al Dio impostore che chiede di poter viaggiare a bordo dell’Enterprise: “Cosa se ne fa Dio di una nave spaziale?”. Ebbene, se il mondo non crede più in Thor egli stesso ha difficoltà a usare i suoi superpoteri, perché nessuno ci crede più. A meno che non gli si faccia perdere le staffe, come sembra riuscirci davvero bene l’addetta al check-in di fronte alle fiere dichiarazioni del dio norreno, il quale sostiene di non possedere prenotazione, carta di credito, conto corrente, libretto degli assegni e, quel che è peggio, passaporto o carta d’identità.
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi
attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
Spesso
si ammanta, in pratica, di un’aura speciale: molteplici
rappresentazioni collettive lo dipingono come una vera e propria entità
suprema che governa le traiettorie di un palla di cuoio
plasmandole in funzione della propria volontà e della
propria capacità creatrice. Insomma,
un’iconografia sovrumana, simil divina, lo accompagna
sovente. Nondimeno la sua essenza è anche ricca di
inquietudine e di contraddizione. Gli elementi distruttivi e quelli
creativi si intrecciano e si animano vicendevolmente senza sosta.
L’impeto, la volontà, la caduta, la colpa, la
redenzione compongono la sua drammaturgia alternandosi di continuo.
Possiamo ravvisarvi un modello mitico comprensivo? Ebbene –
riflettendoci – Maradona, con la sua indole, le sue gesta
nello spazio sacro del campo di calcio e la sua biografia esterna ad
esso, sembra incorporare la fecondità del modello faustiano,
pare riproporne i lineamenti e farsi in qualche misura sua
trasposizione. Sì, Maradona è un Faust dei nostri
tempi, ed è per questo che il suo profilo risulta tanto
accattivante e tanto capace di accendere l’immaginazione
condivisa.
Il filo conduttore è quello del potere, con i suoi differenti ingredienti: l’ansia impaziente di chi cerca il controllo assoluto; la seduzione del dominio, ma anche il fascino che avvolge chi mostra una volontà di potenza superlativa e tratti superominici; la paura di chi avverte il pericolo per l’indipendenza individuale e collettiva che la limitazione insita nella sottomissione inevitabilmente comporta.
Nascono i Texas Rangers, una guardia di frontiera col compito di tutelare i coloni indipendentisti texani non solo dalle mire del governo messicano, ma anche dagli attacchi degli indiani. Da questo momento questo corpo di temerari entra nella leggenda del West, soprattutto per il tipo particolare di arma che avevano in dotazione e che li rendeva praticamente imbattibili: il modello di revolver Colt Patterson calibro 36 che permetteva loro di sparare a ripetizione senza dover continuamente ricaricare.
Agli esempi eroici degli esploratori dei loro tempi, questi uomini avevano aggiunto le letture di capitani coraggiosi nelle loro astronavi, impegnati nella conquista della Luna, di Venere, di Marte e delle stelle lontane. Per loro che erano cresciuti in un’epoca in cui la Terra non aveva più molto da offrire, lo spazio sembrava davvero l’unico posto dove raccogliere l’eredità dei grandi esploratori del passato. Jules Verne l’aveva intuito per primo, aggiornando la tradizione del feuilleton d’evasione di Alexandre Dumas e di Emilio Salgari (suo contemporaneo, ma rimasto legato a schemi più tradizionali) con le promesse della Seconda rivoluzione industriale. I suoi viaggi immaginari, dopo aver racchiuso l’intero mondo in un giro di soli ottanta giorni, rompevano le barriere del verosimile per penetrare negli abissi oceanici, nel centro della terra, e volare fino alla Luna. La narrativa di Verne era la prima espressione di un anelito che trovava sempre più difficile soddisfazione nella realtà limitata della Terra.
In quell’istante, inizia il conto alla rovescia per il malvivente e sulle sue malefatte si inizia a scrivere la parole fine. I clarinetti (le colt) in pochi secondi danno avvio a concerti fiammeggianti, nessuno è escluso dal coro, winchester, frecce, macigni, e tavoli; canyon e saloon si ritrovano in un lampo con i connotati cambiati e chi è nei paraggi subisce medesima sorte. Tex Willer è un tiratore infallibile, è micidiale nel corpo a corpo sia nel combattimento all’arma bianca sia a mani nude, è agile nello schivare colpi di ogni genere, ha riflessi fulminei, le pallottole lo sfiorano lo colpiscono di striscio e poco più, tuffi capriole e salti completano le attività ginniche che gli consentono di sopravvivere.
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando?
Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare
le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo
all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda
intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra
gli altri all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Il punto è
che, diversamente da ciò che nel senso comune siamo in un
certo qual modo obbligati a credere, se non altro per
comodità, le persone, tutte le persone,
albergano necessariamente dentro di sé ben più di
un solo personaggio, coerente e omogeneo come
potrebbe apparire in una sua rappresentazione pubblica.
La Storia, dopotutto, la fanno i personaggi comuni; è cosa nota. I protagonisti di questo romanzo non sono propriamente personaggi comuni ma rappresentano tutte le classi sociali che domineranno gli anni della Rivoluzione. Vogliono essere tutti eroi, ma non lo sono.
Babbo Natale abita al Polo Nord, ma altri dicono nell’estremità settentrionale del Canada, oppure in Lapponia, in Svezia, o anche in Groenlandia: non è semplice individuare le reali coordinate di questa magica residenza. Babbo Natale abita tra i ghiacci, però, questo è un dato certo. Clima ostile ai più, anzi a tutti, ma non a lui, abituato come tutti i supereroi a infischiarsene delle difficoltà insormontabili per i comuni esseri umani. Anche Kal-El, all’anagrafe Clark Kent e nome d’arte Superman, superdotato di poco più giovane del Babbo Natale di massa abita nel Nord del pianeta, in una casa di ghiaccio: La Fortezza della Solitudine. Considerati i poteri di cui dispongono, i due abitano a pochi passi l’uno dall’altro, neanche il tempo di voltare l’angolo (ma esistono angoli nel deserto bianco?) che si dovrebbero ritrovare faccia a faccia un nanosecondo sì e uno pure. Così vorrebbe l’a-logica che domina nei loro regni, invece non accade. Babbo Natale è nella più totale clandestinità per la maggior parte dell’anno, una superclandestinità, mentre Superman è sempre ripreso dai media, costantemente sotto l’occhio dei riflettori, tutti protesi nel vano tentativo di afferrarne l’identità segreta. Immobilità assoluta, movimento assoluto, così, in questa singolare unità degli opposti, i due salvaguardano l’anonimato, dedicandosi, ciascuno secondo le sue possibilità, alla penalizzazione dei cattivi.
La trama del racconto è alquanto semplice e si
riassume con facilità. Aquila Bianca, guerriero irochese
(tribù alleata dei Francesi) viene fatto prigioniero dagli
Algonchini (alleati, loro, degli Inglesi). È condannato ad
essere sacrificato al palo della tortura, durante una festa dedicata ai
serpenti, totem della tribù. Al momento
dell’esecuzione, egli è però salvato
dalla figlia del capo tribù, Girasole della Prateria, che lo
richiede in sposo.
Un’influenza possibile si può certamente ritrovare
nell’Atala (1801) del visconte di
Chateaubriand. Ambientato anch’esso nelle foreste del Canada,
questo racconto, che marca, insieme al suo seguito René,
il vero inizio del romanticismo francese, narra la storia
dell’indiano Chactas, appartenente alla tribù dei
Natchez, che viene fatto prigioniero di una tribù rivale. La
figlia del capo di questa tribù, Atala, si invaghisce di lui
e lo aiuta a fuggire. I due vanno insieme a rifugiarsi presso dei
missionari.
Yuri è stato sempre serio, concentrato, semplice e
tenace. Korolev lo sente come un figlio. Gli ha detto “Buona
fortuna”.
“Grazie” gli ha
risposto il ragazzo.
“Buona fortuna,
caro”, gli ha detto ancora il Progettista capo.
“Ci
vediamo” gli dice il ragazzo.
“Buona
fortuna. Ci rivedremo”, mormora il Progettista capo.