Nessuna scena può essere davvero astratta dal
contesto narrativo del film di cui è parte, e che
contribuisce a “tessere”, né dal
contesto narrativo della biografia del suo spettatore.
È
in questo mondo morente che gli ultimi sopravvissuti, ben pochi dei
quali sono veri e propri esseri umani, consumano le loro vicende: non
c’è ordine, non c’è legge,
né civile convivenza. Di fronte all’attesa che il
Sole si trasformi in ghiaccio e faccia piombare la Terra nel buio
perenne, la civiltà è collassata e il mondo
è diventato simile all’immagine tradizionale del
medioevo europeo: un mondo di tenebre e fitte foreste dove vige solo la
legge del più forte, dove domina l’economia dello
scambio e ogni ombra può nascondere una minaccia. Vance
pesca a piene mani dall’immaginario medievale per
tratteggiare i contorni di questa Terra morente, al punto da farvi
irrompere la magia: i suoi protagonisti sono spesso maghi e streghe che
conoscono incantesimi e segreti alchemici, e ne fanno uso per
assicurarsi il loro potere sui più deboli.
Lo spunto è avvincente: come e in quanto tempo il nostro pianeta tornerà a “rifiorire” dopo la scomparsa della razza umana. Ovvero, immaginiamo che per un qualsiasi motivo noi terrestri ci dovessimo fare da parte, che succederebbe? Si capisce che messa così, gli scenari a disposizione sono numerosi, fantastici, avvincenti, apocalittici, ed ecco spiegato il successo. Il dopo di noi funziona come i dinosauri per i bambini. Siamo nell’interregno tra la fiction e il saggio scientifico, ma a monte ci si potrebbe chiedere, ma ci interessa sapere che fra centomila anni il pianeta sarà irriconoscibile se noi, come cantavano i Nomadi, non ci saremo? O come si interrogava Il Male, chi se ne frega? E qui viene il bello e l’utile del libro, perché per spiegarci come la natura si toglierà un bel po’ di sassolini dalla scarpa, ci viene raccontato come era la Terra prima di noi e, eccoci al punto, come l’abbiamo resa malconcia.
La “storia”, se così si può definire, si svolge quasi completamente su un mare nebbioso, grigio, morto che immaginiamo quasi alla fine del tempo, ai margini di uno spazio irriconoscibile. L’atmosfera è da dopobomba, o da post disastro ambientale, anche se sono evidenti i residui di tecnologie più che avanzate e ancora utilizzate. I personaggi, guerrieri, militari, forse solo sopravvissuti a qualche conflitto feroce e forse a bizzarri esperimenti genetici, si cercano, si inseguono e si scontrano, o si ritrovano nemici o alleati, di volta in volta…
Si parte dagli esperimenti atomici del 1954 eseguiti presso l’arcipelago delle Bikini, che coincisero con l’avvio delle prime riflessioni sociologiche sul rapporto fra società e ambiente, e si arriva a casi più recenti come l’epidemia di Bse e la clonazione della pecora Dolly, in uno scenario di incertezza e rischio diffuso. Nel mezzo disastri petroliferi, incidenti nucleari, l’assottigliamento della fascia di ozono nell’atmosfera e altre vicende epocali, ciascuna accompagnata da un segno evidente di discontinuità, dall’affermazione di una nuova idea chiave.
Il 13 aprile del 2010, in Islanda, il vulcano Eyjafjallajökull si mise in attività. Dal suo energico ribollire ebbe inizio un’eruzione che fece sciogliere i ghiacciai circostanti, provocando violente inondazioni e dal suo interno si alzò una nuvola di cenere che si diffuse nell’intera Europa, paralizzando gli aeroporti e mandando in tilt, di conseguenza, l’ordinato e frenetico svolgimento delle attività di mezzo pianeta. Tutte le previsioni, tutti i calcoli si dimostrarono inutili; gli interventi delle unità di protezione civile dei vari paesi assolutamente insufficienti; le informazioni, le indicazioni, i consigli divulgati dai mezzi d’informazioni quasi inutili. Una enorme, impalpabile, inafferrabile, invisibile eppure straordinariamente reale entità si faceva beffe della ragione, del controllo, dell’organizzazione degli stati, delle intelligenze strategiche, degli interessi della collettività, dei bisogni e dei desideri degli individui. Dal suo più segreto e originario nocciolo incandescente il vulcano sorrideva enigmatico: malizioso, irritato o materno. Tramite il suo sommesso assordante boato richiamava tutti a quel legame originario, spesso negato anche in nome dell’ecologia, dell’uomo con la terra, a quel fondo che si trova giù, nell’ipogeo e che invia segnali – non sempre completamente decifrabili – di rinascita.
La terra è un costante richiamo del ciclo della morte e della vita, una metamorfosi continua che favorisce la crescita organica di un popolo e incarna l’idea che una comunità ha di se stessa. È il fondo sul quale una comunità può crescere, la base che le consente di essere ciò che è. Lo spettacolo della natura ci offre innumerevoli esempi di violenze climatiche, come terremoti, inondazioni, siccità, oltre a quelle animali. Questa è la tragedia della vita organica, quella della natura. Ma ne costituisce anche la bellezza che l’umano percepisce in maniera inconsapevole e incontrollabile. Una sorta di archè, un fondamento antropologico, che scava sotterraneamente in ognuno di noi e nell’intero corpo sociale.
Non dobbiamo, quindi, immaginarci spiriti immaginifici che
guidano grandi carovane, bensì tribù di
cacciatori-raccoglitori che, al ritmo di circa un chilometro
all’anno, si spostano sempre un po’ più
in là per trovare un ambiente più salubre e
più generoso. E così, dopo millenni di
spostamenti, in seguito all’adozione di un sistema economico
agro-pastorale sviluppatosi dapprima in Medio oriente a partire da
circa 12.000 anni fa all’origine di una sorprendente
abbondanza di risorse e di una vita meno condizionata da fattori
strettamente contingenti, l’uomo ha acquisito un modo di vita
stanziale. Gli accampamenti hanno così iniziato a essere
villaggi e città e la crescita demografica è
stata enorme, prima di vedere un suo ulteriore boom con la rivoluzione
industriale e proseguendo in maniera sempre di più
esponenziale.
Un’umanità cresciuta fino
alle circa sette miliardi di unità attuali, e via via
inglobata in un modello unico di società che dal centro si
irradia in tutte le periferie, vede però ridotta la sua
diversità culturale accumulatasi nei millenni, che invece
andrebbe quanto possibile preservata. Dal momento che
l’attuale modello unico si sta rivelando sempre
più insostenibile, diventa fondamentale disporre di esempi
di vita alternativi che possano permetterci di riconsiderare il nostro
modello di sviluppo ed elaborarne in risposta di ecocompatibili.
Tutti contro tutti, armati e preparati alla conquista o alla difesa di scorte di cibo e ogni bene di consumo, con l’unico e imprescindibile obiettivo di sopravvivere al caos e alla catastrofe. Non ci si chieda perché queste persone considerino la sopravvivenza un obiettivo in sé, perfino in scenari post-apocalittici in cui ben poco resterebbe a dare un senso alla permanenza su un pianeta devastato. Le risposte potrebbero essere molte, a cominciare da quel risveglio dei cinque sensi che talvolta è più facile incontrare nell’assoluta incertezza e nel tempo sospeso di uno scenario catastrofico piuttosto che in un’esistenza scandita dal nine-to-five dentro a un ufficio, i weekend allo shopping mall, le vacanze in Florida.
L’ipotesi Dune e l’ipotesi Gaia sono infatti perfettamente speculari e complementari: l’unica differenza è che, mentre Lovelock applicò quella teoria direttamente alla Terra – Gaia appunto – Herbert la utilizzò per descrivere un mondo alieno, Arrakis – noto anche come Dune –, straordinaria biosfera capace, pur nelle sue condizioni di vita estreme, di ospitare una ricca varietà di specie dando vita a un ecosistema dove anche l’Uomo avrebbe potuto, se non prosperare, perlomeno sopravvivere.
Perché se da quella periferia fredda e fuligginosa si sale verso la vertigine della city che arde di se stessa, nulla toglie che si possa continuare a camminare in solitaria, a ritroso tra le macerie, sotto una pioggia post-apocalittica di coriandoli neri, aderendo di continuo alla mascherata che ci ha portato a vivere in quegli spazi indecenti che sono le nostre città, le periferie, che sono le nostre industrie, i nostri ascensori, le soprelevate tangenziali di colonne cementate, i giardini pensili di un vetro che riluce nella foschia, le strade guardate a testa bassa nel loro fondo bituminoso, gli svincoli addobbati di grigio, i carri che recitano la loro processione carnascialesca ricolmi di gente sudata nonostante il freddo. Gasolio, bandiere lacere che sventolano nel fumo, raffiche e pale di elicotteri, riverberi lasciati e abbandonati nella lontananza. Un fossile carnevale a cui mancano i colori.
Lo scenario è sconfortante: senza manutenzione, le grandi metropoli in cui la maggior parte di noi vive finirebbero per collassare nel giro di giorni. I cunicoli delle metropolitane finirebbero allagati in due o tre giorni, i canali di scolo si otturerebbero, e la nostra civiltà finirebbe così erosa dalle fondamenta. Quello che resterebbe sarebbe il mare di plastica che abbiamo prodotto, di cui ignoriamo la capacità di sopravvivenza alla biodegradabilità; le scorie radioattive accumulate in decenni di fissione nucleare, che rimarrebbero attive per migliaia e in alcuni casi per milioni di anni; e probabilmente, estremo omaggio all’orgoglio a stelle e strisce, i volti dei Presidenti scolpiti sul Monte Rushmore.
Risulta necessario porsi una domanda fondamentale: chi
ha prodotto questo testo letterario che sto leggendo e interrogando?
Tale domanda, è chiaro, non serve soltanto per rintracciare
le linee biografiche di chi ha scritto un particolare e specifico testo
all’interno del testo stesso. Al contrario. Questa domanda
intende indagare circa la natura e la funzione di un personaggio tra
gli altri all’interno di un’opera letteraria,
l’autore appunto.
Si pensi a
quell’autentico capolavoro di marketing operato dalla
Chiquita, ben prima che si teorizzasse il green marketing, di cui fiore
all’occhiello è il Chiquita Nature
& Community Project, nell’ambito del quale
è stata realizzata la Riserva di Nogal, oasi naturalistica
situata nel corridoio biologico di San Juan/La Selva in Costa Rica
all'interno di un'area adibita a piantagione di banane. Si pensi
a come, analogamente, ha iniziato anche a fare la
multinazionale svizzera Nestlé con una linea di
caffè che ha ottenuto dal Fair Trade Foundation
l’organo di certificazione del Fair Trade inglese, la
concessione del marchio Fair Trade (Commercio Equo e Solidale), oppure,
ancora, al ribaltone di MacDonald’s, che in Italia prova a
farsi catena di ristorazione paladina del prodotto tipico e quindi
alfiere del km0.
Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi
attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il dètournement,
processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento
che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve
parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi
preesistenti che assemblati in maniera differente
dall’originale producono un significato nuovo.
L’umanità
intanto è ridotta a branchi di selvaggi ottusi e feroci,
spietati nella loro lotta per sopravvivere, subumani rabbiosi alla
continua caccia di cibo, armi, rifugi, tornati ad una condizione
primordiale, forse quella dei primi ominidi, ma incancrenita
dall’esperienza di millenni di applicazione e
addestramento alla violenza, alla crudeltà,
all’indifferenza verso i propri simili. E anche al piacere di
praticare il Male…
La spazzatura è il doppio che ritroviamo in
psicanalisi, il perturbante insito nel progresso, il polo dialettico
del nutrirsi che produce escrementi (la spazzatura originaria) e questa
a sua volta ri-produce il bisogno di nutrirsi; è il doppio
che ritroviamo nel procedere apparentemente sistematico della ragione
(che elimina, ma eliminando reitera la produzione di nuovi residui di
pensiero). Ancora, è il doppio materiale che la
società industriale nel fare pulizia, nel creare efficienza,
produce su scala planetaria, accumulando rifiuti. Non è
esente dall’analisi di Scanlan neanche l’arte, che
concettualmente ha reso evidente il peso nelle nostre vite della
spazzatura come metafora. Scanlan documenta sufficientemente
sull’uso artistico di materiali di scarto, di rifiuti,
immondizia, avanzi, resti.
Arti visive, ma anche letteratura,
come la contemporanea e monumentale opera in un certo senso dedicata
alla spazzatura, il romanzo fiume (o canale di scarico?) di DeLillo, Underworld.
In termini più generali, tutto il pensiero occidentale,
razionale, e la sua conseguente organizzazione della vita materiale
fioriscono all’ombra dell’immondizia, e questa
“cresce” rigogliosa proprio in virtù di
queste modalità del pensiero. Una alimenta
l’altra. La ragione ha iniziato a riciclare prima che
l’industria si ponesse il problema di come riciclare gli
avanzi della società dei consumi. Insomma, progresso e
spazzatura sono lo yin e lo yang
dell’Occidente.
Iperdemocrazia o barbarie? Il dubbio sarà sciolto intorno al 2060, prima bisognerà sopravvivere all’immediato futuro, un misto di nefandezze, dai terrorismi alla distruzione dell’ambiente. Un incubo? No, bazzecole, quel che seguirà sarà peggio. Alla globalizzazione seguirà un "super-impero", alle molteplici guerre locali un "super-conflitto", ci si sposterà incessantemente in ossequio forzato alla legge del mercato, innescando lotte intestine a catena fra nomadi e sedentari. Tutti contro tutti. Poi, ragionando e sperando, Attali conclude che il buon senso potrebbe prevalere. Sorgerà allora, una società transumana fondata su giustizia, solidarietà, benessere per tutti, un’iperdemocrazia in grado di temperare il mercato. Già… altrimenti, io speriamo che me la cavo.
Negli ultimi anni si sta assistendo a un ritorno sempre più forte a prassi, in un certo senso elementari, del tradizionale saper fare “agricolo”. Gli artisti recuperano usi e credenze che spesso sono caratterizzati dall’essere local, trasformandole in operazioni relazionali dove l’estetica è nel processo e nell’esperienza, più che nel risultato formale. Il rapporto arte-ambiente sembra così aver ritrovato un suo equilibrio attraverso l’antropologia e la riscoperta della cultura materiale aggiornata con mezzi tecnologici. Si tratta dunque di un equilibro in qualche modo filtrato che, nel bene e nel male, ha generato nel suo affermarsi una positiva attitudine a livello sociale e comportamentale: ad esempio nella creazione prolifica di aree verdi nei centri urbani destinate a “prato fiorito” o al cosiddetto incolto (con il conseguente risparmio nella manutenzione del verde orizzontale), o che ha portato alla creazione di sezioni di verde pensile dietro ai cartelloni pubblicitari stradali al fine di ridurre i danni ingenerati dalle emissioni di carbonio provocate dal traffico, segnando inoltre il trend dei giardini verticali.
Una collezione di luoghi comuni che altro non fanno se non legittimare i buoni sentimenti; una pratica funzionale alla mediocrazia, fondata sulla mediocrità generalizzata, capace di anestetizzare qualsiasi reazione, di ridurre al silenzio qualsiasi voce, in altri termini di non alterare l’ordine e l’inerzia consolidati. In questa prospettiva molte sono le parole chiave che possono essere stimolo e motore di una forza collettiva capace di interpretarle in chiave postmoderna o che, al contrario, possono semplicemente rimanere luoghi comuni, banalità ricorrenti, slogan utili a riempire discorsi privi di senso, ma anche di azioni di scarsa efficacia. Tra le altre, ci sembra che ecologia ben rappresenti l’incrocio di queste possibilità, detto altrimenti, lo spirito di un’epoca.