ASCOLTI / THE COMPLETE BILL EVANS ON VERVE
di Bill Evans / Universal Music Italia, 2014
Un pianista e alcune rotture di scatole
di Marco Bertoli
Riecco The Complete Bill Evans on Verve, raccolta di diciotto cd, che nella versione originale erano accompagnati da un libretto di centosessanta pagine e si presentava in maniera intimidatoria, catafratta in una scatola di ferro ripiegato e imbruttito ad arte da ossidazioni e incrostazioni inesorabilmente destinate a evolvere: pare infatti che l’arguto designer avesse progettato una confezione che invecchi e si deteriori di conserva con i suoi possessori (“The rust was thus explained as a metaphor for the organic, evolving nature of Evans work, long after his death”). Una volta aperto, che è impresa facile solo a dirsi, l’apparecchio assume l’aspetto di uno schedario da ufficio, di quelli che si vedono ormai solo più nei film vecchiotti e in certi pubblici uffici. In questo incubo di design s’invera quella poetica dello squallido che immagineresti fare pendant con una raccolta di musiche industrial, ma che difficilmente assoceresti a Bill Evans.
L’oggetto è ormai fuori catalogo e dunque ben venga la nuova edizione per il mercato italiano, che invece, oltre a vantare un costo minore, evita la rovina essendo un semplice box di cartone. Il segno meno, però, riguarda anche l’apparato dei testi e delle note, perché qui tutto viene risolto con un agile librettino riportante brani, formazioni, date e luoghi delle registrazioni, oltre a riprodurre le copertine in formato mini. Tutt’altra storia era il libretto della “scatola di ferro”, che è elegante e stampato bene, pure se vittima anch’esso del designer che ne aveva virato tutte le foto, molte mai viste prima, in tinte deterrenti, né aveva lesinato zone di testo verde marcio su campiture grigie e altri simili affronti ai corti di vista. Contiene una nota storico-biografica di Neil Tesser, dettagliate note di Phil Bailey su tutte le sedute raccolte, un’intervista di Bailey a Creed Taylor, produttore di questi dischi, e le trascrizioni di due tavole rotonde, la prima, coordinata da Bill Kirchner, con cinque pianisti di accertata ascendenza evansiana: Dick Katz, Steve Kuhn, Warren Bernhardt, Andy LaVerne e Marc Copland; la seconda, sempre condotta da Kirchner, con alcuni collaboratori del pianista, e cioè Paul Motian, Gary Peacock, Marc Johnson, Eliot Zigmund e Mickey Leonard (autore delle partiture orchestrali di From left to Right del 1970). Conclude la lunga intervista a Evans di John Mehegan che apparve sul numero di gennaio 1965 della rivista Jazz. Anche qui comunque qualcosa mancava: le note di copertina agli LP originali, alcune a firma o con dichiarazioni di Evans stesso. Presente invece un indice dei titoli delle canzoni, ed è molto utile dato il carattere angusto e ricorsivo del repertorio di Bill Evans.
Il malloppo è comunque prezioso e va accolto con favore, anche in questa nuova edizione cheap, perché rimette in circolo alcuni dischi che vi erano assenti, perché invita al riascolto – non che gli evansiani, semi-ossessi, ne avessero bisogno – e, chi lo volesse, al riesame di questo periodo (1962-1970) della produzione di Bill Evans e perché lo fa comprendendo ben novantotto tracce (su 269) inedite prima di questa edizione, quasi tutte alternate takes.
La raccolta non è completa come si pretende, anche se non ci sentiamo di lamentare veramente l’assenza del disco Theme From The V.I.P.s And Other Great Songs (1963), in cui Evans, con orchestra, suonava i temi musicali da alcuni film di successo. Secondo Enrico Pieranunzi, ciò avvenne “in versioni brevissime, esecuzioni in cui Evans si limita a suonare la melodia del brano senza alcuna armonizzazione, nella maniera più pedestre possibile […]” (Pieranunzi, 2001). Come che fosse, qui manca.
Che cosa interessa in modo particolare del periodo Verve di Bill Evans? Che cosa lo distingue da quello che lo precede e da quelli che lo seguiranno? Merita un riesame e una revisione? In questo periodo, che corrisponde grosso modo al decennio degli anni Sessanta, si trova radunata musica da una parte inconfondibilmente evansiana, ma dall’altra, per ragioni sicuramente indipendenti dalla volontà del musicista, sorprendentemente fuori dal “canone” evansiano quale si era formato nel periodo Riverside per cristallizzarsi nel trio con Scott LaFaro e Paul Motian; musica cioè che preme contro gli elementi-limiti fondanti la retorica musicale ed espressiva di Bill Evans – la predilezione per il modo minore, per le dinamiche attenuate, per i tempi ternari e, entro questi, per una divisione della battuta che enfatizza il movimento debole, con le scelte di repertorio conseguenti.
Il principio degli anni Sessanta portò nella vita e nella carriera di Bill Evans lo spartiacque decisivo della morte di Scott LaFaro, il 6 luglio 1961. Evans non se ne riebbe veramente mai, così pare, ma in un certo senso si potrebbe pensare lo stesso della sua musica, che aveva cominciato solo da poche settimane a prendere le forma che il mondo del jazz apprezzò poi nelle performance del Village Vanguard nel giugno di quell’anno. In quelle esecuzioni (in cui così gran parte del pubblico del jazz riconosce a tutt’oggi la massima espressione del trio pianistico, anzi del piano jazz, anzi del jazz…), la forza maggiore, la forza trainante era tuttavia LaFaro, la cui personalità dominante ebbe facile gioco nell’imporsi su tutti i fronti al timido, remissivo Evans: una breve registrazione esistente dei due in sede di prova toglie ogni dubbio che si possa avere al proposito.
Almeno la prima parte del periodo discografico Verve vede dunque Evans cercare di riprendere timidamente da dove quel trio aveva dovuto lasciare. O meglio: vede il pianista che cerca di assestarsi sulla difensiva, un po’ regressivamente, su un ambito irrecuperabilmente perduto. Con il 1962 Bill Evans – che avrebbe ben potuto dire della musica ciò che disse Cesare Pavese della letteratura: “una difesa contro le offese della vita” (Pavese, 2006) – si trova ad affrontare un fatto della vita che lo trova impreparato: è ormai un musicista famoso e di successo, che già comincia a influenzare i pianisti più giovani. È quel genere di musicista – come, in ambito espressivo diversissimo, era stato Errol Garner – che ha trovato la via al cuore di tantissimi ascoltatori senza nemmeno averla cercata. E gli ascoltatori, da lui, non vogliono altro che quello che hanno già apprezzato.
Che delle mutate circostanze Evans si rendesse conto, è prova certa il suo nuovo contratto per la Verve di Creed Taylor, grande produttore il quale, da gran pragmatico, seppe prendere le misure del pianista: sic stantibus rebus, riesce difficile immaginare chi avrebbe potuto fare di meglio. Bill Evans, Taylor lo spiega bene nell’intervista acclusa al box, desiderava offrirsi al pubblico in modo allettante. Eppure una delle prime uscite è anche quella che, a tanti anni di distanza, lascia più perplessi, o almeno sorpresi.
Parliamo di Trio ’64, inciso sul finire del 1963 e prima uscita discografica – dopo un incontro occasionale, ma benissimo riuscito, con Shelly Manne, l’anno precedente – con un nuovo “trio di Bill Evans”, che tuttavia durò poco. Ne facevano parte Paul Motian, ancora, e Gary Peacock, non ancora trentenne, arrivato da poco dalla California ma già affermatosi come uno dei contrabbassisti più duttili e affidabili sulla scena di New York. In questo disco si sente un Bill Evans impaziente e scontroso, se è possibile immaginare una simile cosa. Peacock, ad appena due anni e rotti dalla morte di LaFaro, suona già come un super-LaFaro, tecnicamente ancora più agguerrito, armonicamente spericolato (ma più riguardoso che non il suo predecessore nell’interplay con il pianoforte). Durante i suoi non numerosi assoli, Evans tace addirittura, cosa che mai aveva fatto e non più farà, il che consente al bassista di infischiarsene bellamente delle armonie dei pezzi. Motian sperimenta qui il sistema che perfezionerà poco dopo con Bley e Jarrett, di stare accosto alle divisioni degli altri due piuttosto che al ritmo di base, ma non sembra suoni con troppa convinzione. Fra un bassista forsennato e un batterista demotivato, il pianista a momenti smarrisce il senso della forma (proprio in apertura, For Heaven’s Sake); qua e là perfino la sua sonorità si irrigidisce, le meravigliose e liquide inneren Stimmen si prosciugano. In Dancing in the Dark l’introduzione presentisce l’umore saturnino di quella seduta: a seguirla, Evans ripensa, ri-arrangia e poi, effettivamente, non suona Dancing in the Dark, suona qualcos’altro, con armonie più malmostose e voicing intimidatori. L’esposizione, poi, è raccordata al primo chorus con due battute di sedicesimi rotondi e sodi come pallini di schioppo, che sembrano sfuggirgli dalla mano destra come un gesto di esasperazione.
Il disagio non solo musicale di Evans è venuto allo scoperto nella situazione del working trio come invece era rimasto nascosto nelle rassicuranti occasioni discografiche procurategli dalla Verve nell’anno precedente: Empathy, con Monty Budwig e Shelly Manne, mostra Evans di umore eccellente – come sempre quand’è sostenuto da un batterista autorevole, si veda sotto – ne sia testimonianza la coda disinibita, sardonicamente astratta di With a Song in My Heart; e The Gary McFarland Orchestra With Special Guest Bill Evans, il cui titolo dice tutto: Evans è chiamato qui a fornire la sua tavolozza di colori perlacei e talvolta la sua sagacia di accompagnatore ai fantasiosi, non propriamente jazzistici acquerelli musicali di McFarland, che nella bellissima Night Images assegna a Evans la parte di una specie di doppio riflesso del proprio vibrafono.
Il 1963 è anche l’anno di Conversations With Myself, il “mostruoso” disco in cui Evans sovrappose tre parti di pianoforte. Il disco si è per questa ragione portato sempre dietro un’aura di terribilità – negli anni Settanta Nino De Rose lo defini “il Finnegan’s Wake del jazz” (De Rose, 1978) –, che in realtà non merita. Anzi: ben lontano dagli esperimenti di Tristano, in cui le parti di pianoforte si sovrapponevano in un lutulento gorgo atonale (Descent into the Maelstrom) o viceversa si componevano in un mosaico illusionistico di metri che finivano per diventare indiscernibili nel loro incastro (Turkish Mambo), Evans mette in atto delle tradizionalissime e molto ben padroneggiate strategie di orchestratore, con un pianoforte al centro e due ai lati, e si abbandona a una vena esornativa (è senz’altro il disco di Evans con più note…) e perfino easy listening – con la sola eccezione di NYC’s No Lark, il dirge modale in morte di Sonny Clark. Come esperimento di overdubbing si dovrà dire musicalmente più rimunerativo quello del 1967, Further Conversations With Myself, dove le parti di pianoforte sono limitate a due e una sia pure fittizia dialettica vivacizza le esecuzioni.
Riesce difficile considerare significativi i due esperimenti di Evans con orchestre, malgrado gli sforzi non banali di Claus Ogerman e di Mickey Leonard, orchestratori rispettivamente di Bill Evans Trio With Symphony Orchestra (1965) e From Left to Right (1970), dischi comunque di ascolto piacevole, anche se niente di più, e che Evans non sembra aver affrontato con vero impegno. Fra i lavori extravagantes merita invece più che una menzione cursoria la seduta del 1964 del trio di Evans, a Stoccolma, con la cantante svedese Monica Zetterlund. Evans era un accompagnatore ideale di cantanti, veste nella quale tuttavia si è sentito poco (in molti conoscono la sua collaborazione con Tony Bennett, degli anni Settanta) e lo zenith della seduta è forse Some Other Time, la struggente canzone di Leonard Bernstein e Betty Comden-Adolph Green, dal musical On the Town, ch’è una delle canzoni più belle mai scritte, anche con riguardo alle parole. Evans ne fu un grande interprete, la canzone anzi sembrava scritta perché la suonasse lui, e infatti la incise almeno altre tre volte. Bellissime sono poi le tre canzoni popolari svedesi, arrangiate con grande gusto dal pianista, la cui sensibilità evidentemente consuonava con queste chiuse e malinconiche melodie, che nella sua trasfigurazione prendono le sembianze e il colore di Lieder di Grieg.
Alone, 1968, fu il primo piano solo pubblicato di Evans (non il primo registrato: lo precedette una seduta Riverside del 1963 che avrebbe visto postumissima la luce) in un’epoca in cui il piano solo non era affatto frequente. Vi emergono al massimo grado le doti pianistiche e musicali del nostro: l’accuratissima condotta delle voci interne, spontaneamente secondo le regole classiche, il voicing calcolato a seconda delle zone della tastiera per ottenere la risonanza più ricca dallo strumento, e a questo stesso fine l’uso di note estranee all’accordo; la ripartizione delle parti d’armonia fra le due mani; la capacità, degna di un virtuoso russo di scuola ottocentesca, di dare rilievo a una nota di un accordo per esaltare il canto. Nelle note di copertina originali si leggeva questa singolare dichiarazione di Evans: benché io sia un pianista professionista, a dire il vero ho sempre preferito suonare senza pubblico. Il cuore della raccolta, emotivo e musicale, si trova diviso fra due diversi trii: il “second trio”, con Chuck Israels e Larry Bunker; e quello che lavorò per parte del 1967, con il nuovo bassista Eddie Gomez e con Philly Joe Jones, antico compagno di musica e di misfatti di Evans, che gli voleva molto bene (“non lo si vedeva mai così contento come quando era in sua compagnia”, ricorda Marc Johnson) e che più volte lo indicò come il suo batterista preferito (tuttavia il sodalizio non durò, e Jones venne sostituito prima, brevemente, da Jack DeJohnette, che qui si ascolta dal vivo a Montreux in un’esibizione brillantissima del trio, 1968, e poi da Marty Morell).
Chuck Israels, schiacciato fra due colossi dello strumento come LaFaro e Gomez, rischia facilmente di venire sottovalutato: e invece era non solo un bassista di grande classe e musicalità, sia pur più tradizionale, meno audace di LaFaro, ma era quanto di meglio Evans potesse augurarsi in quel momento. L’esperimento di prosecuzione del trio con LaFaro che si ascolta in Trio ’64 (citato sopra) non era andato bene e si è cercato di determinarne qualche ragione; Evans, a rischio di ritrarsi in se stesso (ed era un sé distruttivo) come aveva fatto per quasi un anno dopo la morte di LaFaro, si corazza come può, proteggendosi nel giro di un repertorio angusto e cercando, e trovando, conforto e rassicurazione nel contrabbassista, che svolge il ruolo assegnatogli nel modo più intelligente ed esperto possibile. Ascoltando quella che resta la testimonianza più alta di questo trio, completato benissimo da Arnie Wise, cioè il live della Town Hall (1966), non viene davvero da rimpiangere l’assenza di LaFaro, tale è la perfetta misura di classicità di queste esecuzioni, soprattutto in Spring is here. I tre dischi che espandono il già noto live dell’estate del 1967 dal Village Vanguard, California Here I Come, porterebbero a dare ragione a chi (pochissimi, in realtà) ritiene che i dischi più belli di Bill Evans siano quelli senza LaFaro, ma in compenso con un batterista imperioso e irresistibile. Bill e Philly Joe, oltre che con Miles Davis, avevano già suonato insieme in Everybody Digs Bill Evans e non si può non constatare come le parole di Marc Johnson sopra ricordate si dimostrino qui vere anche per la musica di Evans, che si accende di un drive e di uno swing straordinari, rasentando l’estroversione. Evans, ci s’intenda bene, fu sempre musicista ritmicamente fortissimo, nella sua grande complessità e varietà d’accentazione, l’eredità in lui più diretta di Lennie Tristano. Con Jones, poco propenso a lasciargli le briglie dell’esecuzione e quindi ad assecondare la propensione del pianista all’accentuazione dell’off-beat, la mobilità accentuativa di Evans risulta indubbiamente ridotta ma a vantaggio di un impulso lineare, di una vera forza propulsiva della musica che è quanto più si avvicini a una gioia dell’espressione. Il “povero” e novellino Eddie Gomez, fra quell’incudine e quel martello, fa quel che può per non rimanere troppo indietro…
Questa prospettiva “vitale”, come si è detto, non avrebbe avuto seguito, anche se le collaborazioni con musicisti esterni al trio, che negli anni Settanta non sarebbero state rare, su Evans sembrarono sempre avere l’effetto di un antidepressivo. Quando Eddie Gomez lo lasciò, nel 1978, Evans trovò un altro giovane e talentuosissimo contrabbassista, Marc Johnson, con il quale si persuase di aver ritrovato la comunicazione e l’equilibrio conosciuti così brevemente con LaFaro. Un’impressione allo stesso tempo esatta e limitata: ma si tratta, come suol dirsi, di un’altra storia.
LETTURE
— De Rose Nino, La musica di McCoy Tyner, Musica Jazz, febbraio 1978.
— Pavese Cesare, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino, 2006.
— Pieranunzi Enrico, Bill Evans. Ritratto d'artista con pianoforte, Stampa Alternativa, Roma 2001.