LETTURE / LA PANNE. UNA STORIA ANCORA POSSIBILE


di Friedrich Dürrenmatt / Adelphi, Milano, 2014 / pp. 88, € 10,00


 

Non c'è bisogno di pretesti

di Adolfo Fattori

 

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Quanto deve essere silente il tarlo del senso di colpa in un individuo, e latente, perché costui possa essere davvero al sicuro dal rischio che la consapevolezza dei suoi peccati riemerga prepotente e lo porti alla rovina?

Cosa deve succedere perché questo avvenga? La risposta che Friedrich Dürrenmatt sembra dare a questa domanda – che fa da premessa tacita a La panne, il suo racconto già pubblicato da Einaudi e da Feltrinelli, da cui Ettore Scola trasse nel 1972 un film con Alberto Sordi, e ora riproposto anche da Adelphi (sempre nella traduzione di Eugenio Bernardi) – è forse il Caso, il Fato, o, in ultima analisi, la predestinazione.

Quella del dio dei protestanti, naturalmente, anzi dei calvinisti, gli interpreti più conseguenti e spietati della Riforma di Martin Lutero. Quelli per i quali le discussioni sul “libero arbitrio” sono chiacchiere da cortile, sofismi da levantini. Passi verso l’Inferno del “Vecchio Testamento”.

O forse, più semplicemente – e faticosamente – la necessità di scrivere storie, senza l’intento, come scrive ironicamente Dürrenmatt, “di fare letteratura”, ma di esplorare i confini degli universi della narrazione, i suoi bordi, le sue estremità, senza trascinare il lettore nelle spirali dell’autoreferenzialità, del narcisismo, dell’esercizio della parola e della lingua. Insomma, “Esistono ancora – si chiede lo scrittore svizzero – storie possibili, storie degne di uno scrittore?” Che siano qualcosa di diverso, di sostanzialmente divergente, dalle notizie da settimanale o da telegiornale, dai gossip o dagli scoop che sembrano diventare le uniche forme di eventi che ci vengono raccontate? E lo scrive nel 1956, mica oggi… E comincia a narrare.

E nel suo racconto è una di queste forze possenti e indomabili e oscure, caso, fato, predestinazione – o immaginazione narrativa – a lasciare in panne un pomeriggio, mentre percorre la statale che dovrebbe riportarlo a casa, l’auto di Alfredo Traps, e a condurre questo viaggiatore di commercio quarantacinquenne soddisfatto di sé, con un buon lavoro e prospettive di carriera, agiato, disinvolto, alla villetta che intravede poco discosta dal punto dove la sua macchina lo ha abbandonato, e dove verrà ospitato per la notte da un gruppetto di gentilissime persone, un po’ avanti con l’età.

Lo scenario è incantevole: le curve dolci del fondovalle, una chiesetta in lontananza, mucche al pascolo, prati verdissimi, tutto lindo, brillante, pulito – svizzero, insomma. Quella Svizzera che era stata descritta da Robert Walser nella Passeggiata, rimasta immutata, immune dai disastri della guerra, protetta dalla potenza delle sue banche e delle loro casseforti, curiosamente simile all’America degli stessi anni, i Cinquanta del Novecento, l’età dell’oro degli americani.

Traps non è contrariato più di tanto: la moglie è ormai abituata – e rassegnata – alle sue assenze notturne improvvise, tanto che non si aspetta nemmeno più di essere avvertita. Magari capita qualche avventura, qualcosa di piccante…

Però, preso dalla gentilezza del signore che nel giardino della villetta, col suo grembiule di cuoio, cura i fiori, il rappresentante finisce per accettare la sua ospitalità, rinunciando alla possibile avventura, cedendo alla proposta, comunque invitante, del suo ospite.

Il proprietario della villetta lo ha accolto infatti con gentilezza e calore, e gli ha proposto di partecipare al gioco cui ogni tanto si dedica con alcuni suoi amici, tutti pensionati, tutti ex uomini di legge, che si godono il tanto tempo libero che ormai hanno mettendo in scena, dopo essersi imbanditi laute e sontuose cene, i processi più famosi della storia – da So¬crate a Gesù Cristo, da Giovanna d'Arco ad Alfred Dreyfus.

Ma – per rendere più attraente il gioco, e onorare il proprio ospite – i quattro signori, somiglianti, scrive Dürrenmatt a “immensi corvi”, propongono a Traps di fungere lui da imputato: un’occasione unica per imbastire un vero processo, non una replica, ad un imputato presente in carne ed ossa, a cui i quattro vecchietti si stanno già affezionando…

Il commesso viaggiatore, pur disposto a stare al gioco, risponde divertito di essere spiacente, ma di non aver commesso nessun delitto. I quattro corvacci lo rassicurano, “un reato si finiva sempre per trovarlo”. Come in Il processo di Franz Kafka, dove Josef K., che “… senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato” (Kafka, 1978), sentendosi così costretto, per dar senso a ciò che gli è capitato, di andare a caccia del crimine che deve aver commesso (cfr. Cavicchia Scalamonti, 2007).

E così, reso sempre più introspettivo e sempre meno prudente dal fantastico vino e dal prelibato cibo, Alfredo Traps ri-scopre di essere davvero colpevole: di infedeltà – verso la moglie, i colleghi, la ditta per cui lavora – di piccoli, meschini imbrogli, di scorrettezze di tutti i tipi. E confessa, mentre la cena si trasforma quasi in una baraonda schiamazzante che ricorda le illustrazioni tardo medioevali di danze macabre e navi dei folli, fra il montante entusiasmo del giudice e del pubblico ministero, e la progressiva disperazione del suo avvocato difensore. In un angolo, il boia attende. Il ritmo è quasi da radiodramma, altro genere praticato con passione dallo scrittore svizzero.

La cassaforte interiore in cui Traps aveva nascosto i suoi delitti si scardina, e rivela tutti gli scheletri ancora maleolenti e fetidi che contiene. E viene condannato, nonostante le rimostranze del suo difensore, al massimo della pena.

Alla fine, depresso e pensieroso, Alfredo va, come i suoi anfitrioni, a dormire.

Il giorno dopo, quando il suo ospite lo va a svegliare per invitarlo a colazione, lo trova impiccato al bastone della tenda al di sopra della finestra: “… il pubblico ministero […] sgomento e abbattuto per la perdita dell’amico (esclama) sinceramente addolorato: «Alfredo, mio buon Alfredo! Ma cosa sei andato a pensare, per amor di dio? Così ci hai rovinato la nostra più bella serata!»”.

Il Caso, il Fato, o la predestinazione? Cos’è che ha condotto Traps al suo traguardo definitivo? Quale forza metafisica lo ha condotto a incontrare la sua fine? Quali sono le fonti di questo esempio dell’applicazione dello scrittore svizzero dell’immaginazione narrativa alla presunta banalità della vita quotidiana?

Nella composta, paludata Svizzera del Novecento, Friedrich Dürrenmatt, figlio di un pastore protestante, è la voce inflessibile e feroce che svela l’ipocrisia della facciata di una società pacifica, soddisfatta, serena e il disinteresse, l’isolamento, la chiusura dell’egoismo di una comunità che si mantiene ostinatamente separata dal resto del mondo.

Già nei suoi primi racconti, scritti durante la Seconda guerra mondiale, a poco più di vent’anni, come Natale e Il torturatore, spara a zero sulle illusioni della fede: il Natale di Dürrenmatt è sporco, polveroso, cosparso di sangue, un Natale in cui l’avvento è abortito prima ancora di esprimersi:

 

Era Natale. Attraversavo la pianura […] Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole […] Vidi un corpo disteso nella neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra […] Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso: Marzapane stantio. Proseguii (Dürrenmatt, 1996).

 

Non diverso il tono di Il torturatore:

 

È incatenato al pavimento […] La camera di tortura è il mondo […] Il torturatore è Dio. È lui che tortura.

Un uomo grida: Perché non sei venuto?

Dio ride: Perché dovrei ridiventare uomo.

Un uomo geme: Perché mi tormenti?

Dio ride: Non ho bisogno di un pretesto.

Un uomo muore (ibidem).

 

Non c’è spazio, nelle metafore (metafore, poi?) di Friedrich Dürrenmatt per i distinguo, i “se”, gli equilibrismi linguistici e logici: c’è la guerra; ci sono i macellai nazisti in giro per l’Europa a massacrare la gente. E dio dov’è? Che sia proprio lì, sui campi di battaglia e in quelli di sterminio a orchestrare il suo imperscrutabile disegno? Che ci dice la fede, quella “… dove non brilla né luce né ragione”, come rispose Martin Lutero a Erasmo da Rotterdam e al suo “libero arbitrio”? (Carroll, 2009). Se bisogna essere conseguenti nella fede luterano-calvinista antico-testamentaria allora bisogna accettare questa possibilità. E dov’è la misericordia degli svizzeri? E degli uomini di fronte alla guerra totale? Dove sono le “opere” che dovrebbero testimoniare attraverso la pratica del bene nella vita quotidiana la grandezza divina?

Forse tocca agli uomini rimettere ordine, come in Il giudice e il suo boia e Il sospetto, scritti rispettivamente nel 1952 e 1953: è la legge degli uomini, attraverso le indagini di un vero e proprio “cacciatore d’uomini”, l’ispettore Bärlach, l’unica a poter fare giustizia della barbarie nazista.

Ma anche questa è destinata a fallire, come in La promessa, del 1958, in cui il commissario Mätthai – un altro uomo di legge – promette solennemente di assicurare alla giustizia lo stupratore e assassino di una bambina. Passerà la vita ad aspettarlo al varco, sicuro delle sue deduzioni. Finirà alcolizzato, prima di scoprire che costui era morto in un incidente d’auto, prima di poter tornare proprio laddove Mätthai lo aspettava… (cfr. Fattori, 2013). Il Caso, il Fato, o la predestinazione?

La panne è, per certi versi, una vacanza, con la sua ironia e il suo tono da commedia. Talvolta Dürrenmatt vi ricorre, come nel disincantato Greco cerca Greca, altro racconto lungo di un anno precedente, dove aggiungerà la variante di un happy end.

Ma i toni cupi presto riprenderanno, attraverso la critica al potere – un meccanismo che stritola anche chi lo pratica – de La caduta, del 1971. La vita, il mondo, insomma, sono fondati su un inganno essenziale, i nostri calcoli, le nostre percezioni, sono mendaci, e ci portano alla rovina. Come anche ne Il Minotauro, scritto nel 1985 (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 39), per cui meglio esercitare noi umani un po’ di comprensione e misericordia, senza richiamarsi a potenze metafisiche, come fa, alla fine della sua carriera, un tardo epigono di Bärlach e Mätthai, il commissario Höchstetter che, nel racconto incompleto pubblicato postumo nel 1995, Il pensionato, regola a suo modo, andando in pensione, i suoi conti con la giustizia “formale” levandosi lo sfizio di compiere qualche piccolo reato con un paio di delinquenti di poco conto…

Un “complotto metafisico”, per dirla con il suo contemporaneo Philip K. Dick, avvolge la realtà. E ci inganna, ci tradisce, e ci conduce a rivoltare i sassi, a fare i conti con noi stessi, a tirare fuori gli scheletri che abbiamo nascosto nelle nostre casseforti interiori. Come nel caso di Alfredo Traps. Estrema forma di giustizia? O esito di sollazzi metafisici che non potremo mai decifrare?

Non c’è bisogno di un pretesto.

 


 

LETTURE

  Carroll John, Il crollo della cultura occidentale. Per una nuova interpretazione dell’Umanesimo, Fazi, Milano, 2009.
  Cavicchia Scalamonti Antonio, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium, S. Maria Capua V., 2007.
  Dürrenmatt Friedrich, Natale, in Racconti, Feltrinelli, Milano, 1996.
 Dürrenmatt Friedrich, Il torturatore, in Racconti, Feltrinelli, Milano, 1996.
 Dürrenmatt Friedrich, La promessa, Einaudi, Torino, 1975.
 Dürrenmatt Friedrich, La caduta, Feltrinelli, Milano, 1988.
  Dürrenmatt Friedrich, Il giudice e il suo boia, Feltrinelli, Milano, 2008.
  Dürrenmatt Friedrich, Il sospetto, Feltrinelli, Milano, 2010.
 Dürrenmatt Friedrich, Il minotauro, Marcos y Marcos, Milano, 2012.
  Dürrenmatt Friedrich, Il pensionato, Casagrande, Bellinzona, 2000.
  Dürrenmatt Friedrich, Greco cerca Greca, Einaudi, Torino, 2006.
  Fattori Adolfo, Sparire a se stessi, Ipermedium, S. Maria Capua V., 2013.
  Kafka Franz, Il processo, Mondadori, Milano, 1978.
  Walser Robert, La passeggiata, Einaudi, Torino, 1976.

 


 

VISIONI

  Ettore Scola, La più bella serata della mia vita, Terminal Video, 2008.