VISIONI / L’ARTE DELLA FELICITÀ
di Alessandro Rak / Big Sur, MAD Entertainment, Rai Cinema, 2013
MAD(E) IN NAPLES
di Roberta Iannarone
Fin quando i musicisti guideranno i taxi, fin quando
i poeti serviranno ai tavoli, fin quando
i migliori saranno al soldo
dei peggiori... allora stiamo andando dritti verso l'Apocalisse!
Lo speaker
La tristezza la danno
per poco, ma pure la felicità non costa nulla. Allora, tu
che scegli?
Zio Luciano
Siete dei pazzi. Probabilmente questo è
ciò che deve essere passato per la testa a chi ascoltava per
la prima volta il progetto di questo film. Dei pazzi furiosi. Fare un
lungometraggio animato con un budget risicatissimo (800mila euro) e una
squadra di animatori dal numero veramente ridotto. Matti da legare.
Realizzare un film d'animazione per “grandi”, che
si rivolge al cuore delle persone per dare loro un punto di vista
diverso, per far capire che è tempo di riprendere in mano il
nostro destino, di riappropriarci della nostra felicità.
Pura follia. Allora non sarà un caso se la factory
che ha realizzato L'Arte della Felicità
si chiami proprio MAD Entertainment. Acronimo di
Musica, Animazione e Documentari, certo. Ma probabilmente qui
“mad” sta per “persona poco sana di
mente”, come suggerisce la traduzione dall'inglese.
Il
lungometraggio animato è l'opera prima del talentuoso (e
folle) Alessandro Rak, fumettista e cartoonist napoletano, che
è regista e co-sceneggiatore de L'Arte della
Felicità, scritto a quattro mani in
collaborazione con Luciano Stella, il quale dal canto suo ne
è anche (illuminato) produttore. Un'opera straordinaria,
nella forma e nel contenuto, che con la sua estetica un po' da graphic
novel ha stregato il pubblico di Venezia come film d'apertura
della Settimana Internazionale della Critica del 70° Festival
del Cinema.
Racconta di Sergio e Alfredo, due fratelli le cui
vite, da sempre profondamente legate, prendono improvvisamente due
strade diverse: entrambi musicisti e compositori, Sergio finisce con
l'abbandonare la carriera artistica per guidare un taxi quando suo
fratello maggiore parte per diventare monaco buddhista. Dopo la morte
di Alfredo, Sergio è a pezzi: sconvolto dalla perdita,
decide di non scendere più dal suo taxi. Tutta la narrazione
si svolge in un'altalena continua tra il presente e il passato, in cui
le storie dei passeggeri – uno più improbabile
dell'altro, ma proprio per questo uno più vero dell'altro
– si mescolano ai ricordi di Sergio, mentre sfreccia per le
strade di una Napoli plumbea e piovosa, tra cumuli di spazzatura e
scenografie surreali. Alla fine anche Sergio, dopo un rocambolesco
intermezzo da fine del mondo, riuscirà a scovare il segreto
dell'arte della felicità.
Ma in fin dei conti, qual
è il segreto della felicità? È una
cosa semplice, che costa poco o nulla, come dice lo Zio Luciano (dalle
fattezze dell'omonimo De Crescenzo), che Sergio però non
riesce a capire – o forse a ricordare – nel suo
taxi da cui non scende mai, chiuso nel dolore per la scomparsa del
fratello Alfredo, da cui si sente tradito per avergli nascosto della
sua malattia prima di partire per il Tibet.
Lo spettatore si
identifica con la rabbia di Sergio, con il pessimismo cosmico dello
speaker radiofonico, voce narrante del film, che si fa profeta in
qualche modo della fine del mondo; ma può (e deve)
riconoscersi anche nella vitalità e nell'ottimismo di chi
nell'apocalisse, nella crisi vede invece un cambiamento,
un'opportunità di rinascita. In questo senso l'opera vuole
condannare quell'atteggiamento negativo e disfattista, leitmotiv
dell'epoca in cui stiamo vivendo, che non ci consente di uscire da
questo stallo, in cui tutto va male ma nessuno riesce a trovare la
forza per dare una svolta alla situazione e uscire dalla spirale
dell'infelicità. Morale: finché i poeti
serviranno ai tavoli e i musicisti guideranno un taxi, la
felicità ci sfuggirà ancora di mano. Ma il giorno
in cui smetteremo di essere narcotizzati dalle serie tv e finalmente ci
sveglieremo, ci riprenderemo ciò che ci spetta: questa
è l'arte della felicità.
I personaggi
che incontriamo nel taxi di Sergio sono molto lontani dall'essere
maschere stereotipate. Dall'artista della monnezza
che fa sculture con i rifiuti, alla “signora con
badante” fumatrice accanita, ognuno di loro porta con
sé un pezzo di reale e tutti insieme formano un complesso
quanto affascinante spaccato della Napoli e dell'Italia di oggi, con le
loro contraddizioni e le loro problematiche, senza ricadere mai nella
trappola del facile cliché.
L'arte della felicità non ha
niente a che vedere con la scia della
“napoletanità ritrovata” alla Benvenuti
al Sud (2010), anzi, l'opera di Rak e Stella si muove sul
versante diametralmente opposto, con l'atteggiamento di chi vuole
sfatare il mito della Napoli tutta “pizza, sole e
mandolino”. A dispetto della natura non indicale del cinema
d'animazione, le cui immagini non sono la riproduzione della
recitazione di attori in carne e ossa, ma sono il prodotto di una
creazione dal nulla di un qualcosa che davanti alla macchina da presa
effettivamente non c'è, quest'opera è di un
realismo spiazzante, dai dialoghi crudi e mai banali, alla pioggia
incessante in stile Blade Runner – altro
che 'o sole mio!
Se volessimo individuare
in uno slogan o in una parola chiave tutto il lavoro, il sudore e il
sangue che c'è dietro la realizzazione di quest'opera,
probabilmente il termine più appropriato per riassumere
tutto ciò è crederci. Da
imprenditore di successo a produttore cinematografico, Luciano Stella
ha avuto la lungimiranza di credere nella
possibilità di realizzare questo progetto. Credere
che un lungometraggio animato prodotto in Italia potesse arrivare a
Venezia ed esplodere e diventare subito un piccolo cult,
con il suo seguito di fan illustri (in quanto personaggi mediatici), da
Roberto Saviano a Fabio Fazio, fino a Concita De Gregorio che
addirittura invita i suoi lettori a mettere il cappotto e uscire a
cercare nei cinema questo capolavoro.
Cosa se non un atto di
fede ha potuto spingere un gruppo di artisti partenopei a mettere in
piedi uno studio d'animazione e intraprendere questo progetto in una
situazione di dissesto economico e culturale quale quella che stiamo
vivendo? Ma si sa, i napoletani in fondo sono in crisi praticamente da
sempre, abituati a situazioni di perenne low budget già
da molto prima che questa terminologia diventasse di moda.
Ciò che contraddistingue la filosofia di vita ai piedi del
Vesuvio è proprio la capacità trasformare mezzi
scarsissimi in opportunità. E perché no, magari
anche di prendere la monnezza e farla diventare
arte.
La scarsità di mezzi in fondo è
stata anche un po' la fortuna della pellicola in questione. Grazie alla
potente democratizzazione degli strumenti concessa dalle tecnologie
informatiche più all'avanguardia, gli artisti della MAD
sono riusciti a realizzare L'Arte della
Felicità con pochissimo, utilizzando un software
open source dedicato alla cartoon animation,
Blender, la cui peculiarità è quella di essere
completamente gratuito (a differenza dei “cugini”
del pacchetto Adobe, dai costi davvero insostenibili per una casa di
produzione indipendente). In generale, si può dire che la
strategia messa in atto dal team di Rak è stata quella di
prendere le difficoltà e gli ostacoli, a qualunque livello
del processo produttivo, e trasformarli in punti di forza.
Prendiamo
un esempio su tutti, che però rende l'idea
dell'atteggiamento con cui quei “mad” della MAD
hanno affrontato questa avventura. Le mani: ogni disegnatore sa che
disegnare mani realistiche è sempre un'impresa impossibile.
Renderne la tridimensionalità, rispettare le proporzioni di
ogni singola parte, mettere dita, polsi, tendini, muscoli al posto
giusto e così via. Figuriamoci poi mani in movimento: ogni frame
è un rompicapo. Come fare
allora se per novanta minuti devi portare sul grande schermo una storia
ambientata in una città in cui le persone
“parlano” con le mani? Rak e collaboratori sono
riusciti ad aggirare il problema, realizzando un modello 3D da
utilizzare come manichino su cui letteralmente
“ricalcare” il disegno bidimensionale
dell'animazione finale. E il risultato è che i loro
“attori” comunicano, ridono, si incazzano,
vivono attraverso le loro mani.
L'arte
della felicità è una gemma rarissima:
è un film di una poesia disarmante, che parla direttamente
all'anima dello spettatore. La natura stessa del mezzo, la dimensione
surreale intrinseca al "cartone animato", dona all'opera un'aura
onirica che strizza l'occhio a lavori di Hayao Miyazaki come Il
castello errante di Howl o La città
incantata.
Ma al di là del portato filosofico dei propri
contenuti e delle riflessioni su questioni squisitamente tecniche,
dall'analisi di quest'opera scaturisce un'importante constatazione,
cioè che il cinema d'animazione in Italia purtroppo non ha
una vera e propria “scuola”: non ci sono autori di
riferimento a cui i cartoonist della MAD abbiano potuto ispirarsi. I
film davvero di successo, sia di critica che di pubblico, si contano
sulle punta delle dita di una mano sola. Sebbene a metà del
secolo scorso le cose sembravano dover andare in tutt'altra direzione.
Negli anni Cinquanta in Italia l'animazione era – si
può dire – nella sua età dell'oro,
avendo trovato un terreno fertile dove attecchire nella neonata
televisione, dove grazie a Carosello autori come
Bruno Bozzetto (Il Signor Rossi) o i fratelli Pagot (Calimero)
riuscirono a ritagliarsi una sorta di laboratorio in cui poter
sperimentare liberamente. Nel programma contenitore di “mamma
Rai” in onda dal 1957 al 1977, unico esemplare nel suo genere
ibrido tra intrattenimento e comunicazione pubblicitaria, l'animazione
ha fatto spesso da protagonista, declinata in tutte le sue forme, dai
disegni animati di Ulisse e l'ombra alla stop-motion
de Il caballero e la Carmencita. Finita l'avventura
di Carosello, il buio. Da un lato l'arte dell'animazione nostrana,
laddove è sopravvissuta, si dedicava sempre più
esclusivamente al mondo dell'infanzia, mentre dall'altro si andava
registrando una sempre più massiccia importazione di
prodotti provenienti da Stati Uniti e Giappone.
Sugli
schermi televisivi, a partire dagli anni Ottanta a farla da padrona
sono soprattutto gli anime: dalla terra del Sol
Levante, dove le tecniche messe a punto dagli animatori giapponesi
consento una produzione industriale dai ritmi impressionanti, giungono
nel Bel Paese una miriade di personaggi e di avventure che riescono a
coprire quasi tutti i generi esistenti e che rivoluzionano per sempre
l'immaginario italiano degli anni a venire. Al cinema invece
è la Disney, tra principesse da fiaba e animali parlanti, a
regnare incontrastata, emozionando piccoli e grandi spettatori con
lungometraggi che hanno fatto la storia del cinema, quali Snow
White and the Seven Dwarfs (1937) Fantasia (1940)
o Toy Story (1995), primo film
della casa di Topolino e soci ad essere realizzato completamente con
tecnologia 3D.
E le produzioni italiane? Il nulla. A
parte qualche cattedrale nel deserto, come La Gabbianella e
il Gatto (1998) di Enzo D'Alò (anche lui
napoletano, sarà forse un caso?) che incassa al botteghino
dodici miliardi di lire, non si registra quasi nessuna opera degna di
nota. Men che meno prodotti d'autore o che si rivolgano ad un pubblico
adulto e che possano concorrere con i pluripremiati Persepolis
(2008) e Valzer con Bashir (2009).
A differenza di quanto accade in altri Paesi europei – vedi
la Francia, per citarne una su tutte, dove i dessins
animés hanno una lunghissima tradizione e occupano
un posto d'onore nel cinema d'oltralpe – l'animazione in
Italia non ha nessuna visibilità, viene considerata un
cinema di serie B e quindi non attira nemmeno una piccolissima fetta
degli (a dir la verità, già piuttosto esigui)
investimenti nel settore cinematografico, che invece sono dirottati
automaticamente su prodotti più “sicuri”
come la commedia o i cinepanettoni.
Insomma, se il
fumetto sta pian piano iniziando ad avere una sua dignità
– anche se si è ancora restii a definirla
“arte” a tutti gli effetti – il cinema
d'animazione è e rimane ancora il fanalino di coda del
panorama artistico italiano. L'opera di Rak e Stella, con tutto il
coraggio e la folle incoscienza con cui è stata data alla
luce, ha invece dimostrato che, a dispetto di tutto ciò, una
speranza ancora è possibile. Che si può mettere
su una fucina di talenti come la MAD e fare cinema. Ma cinema serio.
LETTURE
— Rondolino Gianni, Storia del cinema d'animazione. Dalla lanterna magica a Walt Disney, da Tex Avery a Steven Spielberg, Utet, Torino, 2003.
— Saviano Roberto, L'arte della felicità,
la Napoli che amo in L'Espresso,
Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma 28
Novembre 2013, http://espresso.repubblica.it
VISIONI
— D'Alò Enzo, La Gabbianella e il Gatto, Cecchi Gori, 2002.
— Folman Ari, Valzer con Bashir, Lucky Red, 2009.
— Satrapi Marjane, Paronnaud Vincent, Persepolis, Bim, 2013.