LETTURE / SPACE IS THE PLACE. LA VITA E LA MUSICA DI SUN RA


di John F. Szwed / minimum fax, Roma, 2013 / pagine 544, € 18,00


 

IN PRINCIPIO ERA IL MITO

di Beatrice Ferrara

 

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Il 30 maggio del 1993, a Birmingham, Alabama, Sun Ra – il “mito vivente”, come spesso si era definito nelle sue composizioni – lasciava il Pianeta Terra. Da lì, da quella città dell’Alabama in cui – come raccontava – era arrivato, settantanove anni prima (pare), dal più lontano Saturno, egli partiva ora per sempre. Faceva ritorno, forse, al nero profondo e insondabile del Cosmo, dal cui mistero – e dalla cui profonda, ultima, armonia – aveva tratto i motivi portanti della sua figurazione artistica: un’epopea in chiave fantascientifica, sviluppata in musica, immagini e parole, lungo i quattro decenni di attività di un talento compositivo tra i più originali della storia della musica contemporanea (cfr. "Quaderni d’Altri Tempi" n. 17 e n. 36). Sulla Terra lasciava tracce sparse del suo passaggio: una biografia di difficile ricostruzione, contro la cui prosaicità aveva lottato duramente inserendovi squarci di realtà alternative (contatti con altre forme di vita, corto-circuiti temporali, visioni, illuminazioni); un’orchestra jazz (e in fondo una famiglia) – che aveva guidato, pur con mille diverse trasformazioni, per decenni – e che ora si ritrovava orfana del suo carismatico direttore; fogli su fogli di arrangiamenti – dai rifacimenti dei classici del jazz alle composizioni originali, in cui un posto speciale avevano sempre occupato le più nuove strumentazioni elettroniche; e ancora manoscritti di poesie, disegni, appunti sparsi in cui la storia africano-americana, trasformata in un’epica fantascientifica, trasfigurava la rassicurante normalità della storiografia occidentale. “Tracce sparse”, lo si ripete – perché mai il “mito vivente” s’era fatto carico di dover fissare le tappe della sua propria impermanenza, ostinato (non per capriccio, ma per visione del mondo) nel non dover concedere al pensiero della morte nemmeno un secondo della vita. In fondo, ne era certo, un mito (si badi bene, mai il suo mito personale o il culto della sua persona, ma il mito della sua visione, in cui la sua persona è il tramite per la trasfigurazione più ampia della storia della razza negli Stati Uniti) sopravvive ai suoi stessi accidenti, resistente alle cronologie e all’oblio.

 

Pochi mesi dopo, il critico John Corbett, che ha in preparazione uno studio su alcune delle figure più “eccentriche” (parziale tentativo nostro di tradurre i molti sensi dell’originale verbo inglese “to sound off”) della musica, dall’avvento dell’elettronica ai primi anni Novanta (quello che diventerà poi Extended Play. Sounding off from John Cage to Dr. Funkenstein, 1994) è seduto al tavolino di un caffè di Chicago. Sta infatti incontrando, per una rara intervista, Alton Abraham, mentore, amico, socio e “produttore” di Sun Ra fin dagli inizi del “mito”. Le domande, poiché ancora cocente è la dipartita del musicista, vertono sul futuro della sua orchestra, l’Arkestra, e sulla sua eredità artistica. Cosa resterà della visione di Sun Ra? Chi ne sarà il tutore? Laddove Corbett cerca di raccogliere e registrare la preoccupazione di Abraham, Abraham sorride e tira fuori il suo coniglio dal cilindro: un foglio di carta in originale, rilasciato dallo stato dell’Illinois, contea di Cook, nel 1952, in cui si dichiara ufficialmente che la persona fino ad allora nota come Herman Poole Blount (il nome di battesimo di Sun Ra) sarà ora legalmente nota con il nuovo nome di “Le Sony’r Ra”, Sun Ra. Quel certificato, che documenta il cambio di nome dell’uomo Herman Poole Blount – musicista nero dell’Alabama – è allo stesso tempo il certificato di nascita del mito Sun Ra – alieno venuto da Saturno, di stanza a Chicago, Illinois, per comunicare al mondo attraverso la sua musica. Il sorriso di trionfo sul volto di Abraham, che Corbett sottolinea con sagacia, ma di cui non ci dà spiegazione – lasciandolo enigmaticamente sospeso nell’aria, a stuzzicarci a scoprirne o azzardarne le motivazioni, quasi fossimo Alice al cospetto del Cheshire Cat – pare forse semplicemente suggerire che è in quella provocazione dissacrante, allegra, ai limiti del surreale che c’è il segreto dell’eterna sopravvivenza del mito: di ogni cosa che fosse successa prima non conta aver memoria – e se pure affiorasse qualche stralcio di una vita precedente, questo non potrebbe che impallidire, assumendo il colore scialbo della più noiosa quotidianità, di fronte alla più mirabolante e sorprendente avventura di Le Sony’r Ra. O forse, meglio, l’ombra dell’“eccentrico” (qui inteso forse come “sfuggente”) si farebbe avanti, per proiettarsi retrospettivamente fino a renderci interessante perfino il giovane Herman Poole Blount di Birmingham, Alabama. Perché prima di Sun Ra, il “mito vivente”, non vi era nulla se non già la genesi del mito. In principio era (già e solo) il mito.

 

In questo – nel bilanciamento perfetto tra luci ed ombre, tra l’operazione del gettare luce sulla vita di Herman Poole Blount detto Sun Ra e quella di lasciare scivolare indietro, retrospettivamente, l’ombra del mito a trasfigurare la realtà dell’uomo nella storia – sta il pregio massimo della biografia di Sun Ra pubblicata nell’ormai lontano 1997 da John F. Szwed, ora finalmente tradotta in italiano per i tipi della minimum fax: Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra (trad. di Michele Piumini). La lode va qui all’autore, certamente, e al contempo anche alla casa editrice di Roma, per una scelta editoriale brillante e coraggiosa. Trent’anni dopo la dipartita del musicista, infatti, il mito di Sun Ra non ha perso nulla del proprio appeal. Se il mondo della musica e della stampa specialistica da tempo già gli dedica tributi, ristampe e retrospettive – a testimonianza di un interesse costante – la pubblicazione della minimum fax segna l’apertura, in Italia, dell’universo sonoro-concettuale di Sun Ra ad un pubblico di lettori potenzialmente più ampio e trasversale ed è destinata molto probabilmente ad alimentare ulteriormente la fiamma della curiosità verso l’artista e la sua Arkestra. Cosa troverà dunque il pubblico italiano in questo tomo voluminoso, che scorre tuttavia leggero come un buon romanzo?

Space is the place ricostruisce la storia di Sun Ra dalla nascita alla fine dei suoi giorni terrestri, raccontandone la vita (“le vite”, come nel titolo originale inglese) e la musica. L’esordio è dunque in Alabama. Si racconta il contesto familiare e sociale del musicista fino alla prima giovinezza, sottolineando il ruolo importante svolto dalla scoperta dell’inclinazione musicale in precocissima età. Si ritrovano narrate le vicende della formazione pianistica di Herman Poole Blount (insegnanti, ispirazioni, luoghi) e al contempo della sua auto-formazione filosofica e letteraria. Si va avanti fino all’avvio concreto della professione di musicista, seguendone gli spostamenti negli Stati Uniti. Si dà ampio spazio al Sun Ra curioso esploratore delle nuove strumentazioni elettroniche e al ruolo da queste giocato come veicoli, affatto accidentali, di una ricerca sul suono “puro” e sui suoi effetti. Si assiste alla nascita dell’Arkestra, di cui sono descritte poi le diverse formazioni nel corso dei decenni, le tecniche di prova, i rapporti con il direttore d’orchestra, l’estrazione (per lo più non-professionale) dei musicisti, lo studio delle ricercatissime esibizioni, i tour statunitensi e oltre oceano, le autoproduzioni. Si getta lo sguardo sul Sun Ra educatore: le lezioni all’università, l’Arkestra come luogo di formazione, la nascita di “El Saturn” (etichetta musicale, agenzia, luogo di ricerca alternativo). Si chiude con gli anni del musicista ormai anziano, affaticato nel corpo, ma infaticabile nella musica: i classici jazz rivisitati, la curiosa passione per il cinema d’animazione disneyano, l’afflato pacifista sempre più centrale nei suoi testi e componimenti poetici.

 

Quella di raccontare un percorso cronologicamente così lungo e ricco di eventi tanto diversi è un’impresa complessa e non priva di rischi – rischi che Szwed schiva tuttavia mirabilmente. Le strategie di volta in volta utilizzate dall’autore per superare i pericoli di questa narrazione sono di fatto quello che caratterizza Space is the place come un libro riuscito e una lettura importante. Nella restante parte di questo articolo-recensione, quindi, si darà proprio spazio a tre dei pericoli più seri legati all’impresa di raccontare Sun Ra e alle relative soluzioni messe a punto da Szwed. Il primo rischio, nel raccontare la vicenda di Sun Ra, è senza dubbio quello dell’eccessiva coloritura: tra l’eccentricità e la mascherata il confine è sottile, la distanza profonda e il guado assai complesso. Calcare la mano sull’eclettismo e l’eccentricità della vicenda del nostro, avrebbe potuto trasformare, dopo poche pagine, il ritratto del musicista nell’ennesima riproposizione di una performatività nera eccessiva che è topos assai spesso al servizio di un discorso – musicale e culturale in senso più ampio – in cui la domesticazione della differenza (dove “differenza” è da intendersi in senso produttivo) passa anche attraverso la normalizzazione e la cattura della stessa a mezzo di figurazioni quali quelle del musicista nero “naturalmente” eccessivo – lettura che, appunto, strizza l’occhio, con violento paternalismo, a sistemi di significazione del tutto funzionali ad un regime di rappresentazione razzializzato. Szwed è assolutamente consapevole di questo rischio e lo affronta tanto sul piano della documentazione, quanto su quello dello stile. In Space is the place si troverà infatti il frutto di una certosina ricerca d’archivio: l’autore utilizza, lungo tutta la narrazione, fonti inedite e circostanziate che impreziosiscono il racconto di una vita. Allo stesso tempo, l’uso delle “fonti” è spesso impiegato non tanto e non soltanto per “dare corpo” di fattività alla narrazione, ma per produrre un preciso “inquadramento” che dia conto del particolare contesto in cui la vicenda di Sun Ra e dell’Arkestra ebbe luogo – evidenziando, tramite l’archivio, una serie di questioni di rilievo assai ampio che riguardano la società europea ed americana del tempo (gli anni Sessanta e Settanta, in particolare) ed il contesto delle relazioni razziali. Emblematico, in questo senso, è lo spazio dato al reperimento delle recensioni ai concerti di Sun Ra e dell’Arkestra nella stampa dell’epoca, tanto negli Stati Uniti quanto soprattutto in Europa, durante quello che Szwed argutamente chiama il “Grand Tour” (e di cui avevamo proposto una nostra traduzione, precedente all’uscita del volume in italiano per minimum fax, nella sezione “Ancore” di "Quaderni d’Altri Tempi" n. 44). Il particolare posizionamento di questo materiale inedito nell’architettura di Space is the place colpirà chi legge grazie all’abilità di Szwed di mettere in evidenza il reiterarsi di una posizione discorsiva da parte della stampa europea – divisa tra il plauso e lo scherno, tra l’accusa di infantilismo e le lodi all’avanguardismo, ma concorde su un punto: il leggere, nello sperimentalismo avanzato dei concerti dell’Arkestra, il “ritorno” di una espressività “libera” o più spesso di una forma “originale” o “ancestrale” – su cui pesa fortissima la zavorra del discorso “primitivista” e il suo fondamento in una cronologia teleologica completamente dettata da un inquadramento del mondo di matrice occidente-centrica e poco capace di auto-riflessione. Laddove l’Arkestra anticipava soluzioni estetiche (visivo-musicali) gioiosamente cibernetiche, che sarebbero diventate la regola soltanto diversi anni dopo, larga parte della stampa dell’epoca restava impantanata nella vuota distinzione bipolare fra il naturale e il non-naturale, e indecisa sul valore (positivo o negativo) da assegnare a ciascuno dei due poli.

 

Il secondo rischio con cui Szwed si misura in Space is the place è quello che la varietà e la complessità dell’universo artistico di Sun Ra e dell’Arkestra mettano in secondo piano l’aspetto più squisitamente musicale. Nella biografia, tale rischio è scongiurato innanzitutto dall’ampio spazio riservato alla musica in sé per sé: la struttura musicale delle esibizioni dal vivo o dei brani registrati, l’orchestrazione delle singole performance, la variazione dei diversi arrangiamenti sono descritte in lunghi passaggi. In secondo luogo, la perizia e la competenza musicali con cui Szwed (professore di Music and Jazz Studies alla Columbia University di New York) cura tali descrizioni le rendono estremamente interessanti per chi abbia maggiore dimestichezza con la materia, aiutando e sostenendo al contempo l’ascolto di chi abbia eventualmente minore familiarità. Questo ci sembra un pregio del volume, di cui sicuramente l’uscita italiana in una collana trasversale come “Sotterranei” della minimum fax potrà beneficiare al meglio.

Il terzo ed ultimo pericolo cui si farà riferimento in questo articolo è quello di sussumere ed annullare, nella figura del protagonista, il contributo collettivo (di luoghi, persone, letture, incontri) senza il quale l’emergere di una simile personalità risulterebbe cadere nella retorica di un talento individuale che tradirebbe il messaggio estro-verso dell’arte tutta di Sun Ra. C’è in primo luogo, in Space is the place, la ricostruzione dei rimandi, più o meno palesi, della visione proposta dal “mito vivente”, a testualità-chiave (scritte, orali, poetiche, teologiche, esoteriche, musicali) della cultura – vasta ed estremamente diversificata – della diaspora africana. Di grande piacevolezza è in particolare la mappatura dei ricorsi all’elemento fantascientifico nella cultura nera come chiave per leggere le relazioni di potere del razzismo. Se infatti già W.E.B. Du Bois (tra i più importanti pensatori del secolo passato, tradotto in italiano soltanto nel 2010 con La linea del colore), in un racconto del 1920 intitolato The Comet riproponeva, nel registro della fantascienza, la domanda centrale di ogni suo scritto e soprattutto del dirompente The Souls of Black Folk (1903) – ovvero, “è possibile essere, al contempo, un nero ed un americano?” – la lettura di Space is the place ci mostra che questo non era che uno dei casi più celebri. Nel raccontarci il percorso di auto-formazione filosofica di Sun Ra, Szwed ha modo di tracciare una storia che non è solo del suo protagonista, ma più ampia. Scoprendo (o riscoprendo) Sun Ra, si è invitati anche ad entrare in contatto con questa ricchissima tradizione di pensiero e creatività minore, che è una costante a lungo trascurata, ma assai produttiva ed interessante, delle culture della diaspora nera. Allo stesso tempo, riportando questa storia più ampia nel perimetro della vita del protagonista, Szwed può anche sottolinearne il carattere minoritario ma anche resistente, poiché in essa il giovane Sun Ra trova il supporto – la conferma ed il motore – per un percorso di formazione (politica ed estetica) alternativa alla cultura dominante. In secondo luogo, in Space is the place Szwed è anche attento a calare il protagonista della biografia ben all’interno del preciso periodo storico di riferimento: l’età dei grandi rivolgimenti sociali, politici, culturali negli Stati Uniti, in Europa, in Cina, in Giappone, in Africa – che, a seconda della prospettiva ritagliata dallo sguardo di chi guarda e dall’urgenza di un preciso posizionamento – si chiamerà ora “Black Power”, ora “Sessantotto”, ora “Rivoluzione Culturale”, ora “decolonizzazione”. Ricostruendo i rapporti reali di Sun Ra e della sua Arkestra con figure-chiave del pensiero politico radicale degli anni Sessanta e Settanta (in particolar modo, bellissime, le pagine su Elijah Muhammad e le Black Panthers), Szwed traccia paralleli e biforcazioni di un tentativo collettivo di “divenire rivoluzionario”, in cui il pensiero di Sun Ra si avvicina a ed allontana da una rete di prassi e teorie ancora oggi capace di suscitare grande fascino e sollevare questioni attuali.

 

In conclusione, l’uscita di Space is the place in italiano è la perfetta occasione per soffermare l’attenzione su un caso riuscito di biografia – genere difficile e dagli esiti non sempre felicissimi – proprio nel momento in cui si tratta della biografia di un artista restio al concetto stesso della messa in forma definitiva del proprio universo concettuale. Occorreva un misto di vicinanza e rispetto – lo scrivere non “di”, ma “accanto a”, quasi in presenza – perché venisse fuori, dal ritratto di un personaggio così fuori dai canoni come Sun Ra (alieno, pioniere dell’elettronica, vegetariano, mistico, umorista, compositore, educatore, filantropo, a volte anche tiranno, poeta, attore, trasformista, …) la serietà indubbia di una ricerca musicale e – che lo si dica – politica (nel senso di etica e pratica del vivere comune) durata decenni. Occorreva un misto di rispetto e affetto perché questa serietà non offuscasse in nulla l’allegria irriverente di Sun Ra, in cui lo spirito, sempre sorprendente, non è mai cinico, grottesco o rude – bensì avvolgente, sottile, sinuoso e per questo non ascrivibile facilmente al già sentito. Questa morbidezza di stile, impreziosita da guizzi e fantasie – che è nella e della musica di Sun Ra – ritrova il suo alter-ego letterario nella prosa di Szwed. Piace quasi potersi permettere, allora, in chiusura, l’ardire di pensare – rileggendo ancora una volta le ultime pagine di Space is the place – che si tratti in definitiva di un libro che non avrebbe mai potuto render triste il suo protagonista – ovemai l’avesse letto. Nessun segreto tradito dalla troppa documentazione, né un sovraccarico della finzione. Piuttosto, la formula giusta per conservarne il mito.

 


 

LETTURE

  Du Bois, William E. B., Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2010.
Corbett, John, Extended Play. Sounding off from John Cage to Dr. Funkenstein, Duke University Press, Durham-London, 1994.