VISIONI / QUALCOSA NELL’ARIA
di Olivier Assayas / Officine Ubu, Rai Cinema - 01 Distribution, 2013
CIÒ CHE RESTA DEL FUOCO
di Gennaro Fucile
Un preambolo. “In primo luogo c'è stato il momento specifico del maggio 1968, anticipato dalla cosiddetta Summer of Love del '67 negli Stati Uniti, due movimenti culturali che hanno rappresentato l'idealismo, la forza del potere collettivo, la bellezza dell'utopia giovanile; era un momento di libertà, se vogliamo possiamo anche definirlo anarchico, ma c'era il reale desiderio di mettere tutto in discussione, anche la politica. Nel periodo successivo, i gruppi militanti hanno iniziato a strutturarsi in piccoli partiti, con ideologie molto rigide. In sostanza, l'energia che nel '68 aveva a che vedere con l'invenzione incantata del mondo e della poesia era diventata il dogmatismo dell'ultrasinistra, che si esplicava, come dico nel film, nel disprezzo della creazione poetica del cinema. E allora si giravano i documentari, pratica di per sé giusta, perché, anche se oggi può sembrare strano, all'epoca nessuno andava a riprendere gli operai in fabbrica. Non c'erano le emittenti televisive, ma solo la Tv di Stato che non dava certo spazio a questi argomenti. Tutto questo però era ed è diverso dall'arte cinematografica e dal suo specifico” (Assayas, in Fiorentino, 2013).
E una specie di sinossi. Tutto prende il via cento anni dopo la Comune di Parigi. È il 9 febbraio 1971 e siamo alla periferia della capitale francese. Gilles (Clement Metayer) è uno studente che sta terminando il liceo ed è coinvolto nella protesta studentesca, quella più politicizzata. Ama Laurie (Carole Combes), che ha anche eletto a sua musa ispiratrice (Gilles ama dipingere). Lei lo lascia per seguire la sua famiglia a Londra, Gilles parte invece per l’Italia con Alain (Felix Armand) e Christine (Lea Créton) conosciuta durante la manifestazione a Place de Clichy, conclusasi con violente cariche delle forze dell’ordine; un viaggio, quello in Italia, dettato dalla necessità di sfuggire alle indagini sul ferimento grave di un vigilante durante un’azione notturna al liceo, in cui un altro compagno di lotta, Jean-Pierre (Hugo Conzelmann) risulta al momento l’unico accusato. A Firenze conoscono una coetanea proveniente dagli Usa, Leslie (India Salvor Menuez). Il viaggio porterà i ragazzi a incrociare e dividere le loro vite ripetutamente.
Film commovente e insidioso, raffinato, colto e delicato, insidioso, Qualcosa nell’aria (Après Mai) di Olivier Assayas, è ora disponibile nella doppia versione blu ray e dvd per il mercato home video, ma pochi e piuttosto esigui sono i contenuti speciali aggiunti: due trailer, un dietro le quinte, fotografie, nulla di più. C’è poco, beninteso, oltre il leggiadro film premiato alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia (2012) per la migliore sceneggiatura scritta dallo stesso Assayas. Qualcosa nell’aria cela insidie ovunque, in ogni dettaglio, in ogni inquadratura, in ogni cesura tra una scena e l’altra. Insidie che si chiamano nostalgia del tempo trascorso, della giovinezza e delle passioni che la infiammano, nostalgia dei primi amori e della scoperta del mondo, anche del brutto del mondo e degli ideali belli di libertà e di rivolta che la bruttezza del mondo scatena(va). “È proprio quell’energia creativa diffusa, che si è esplicata nell’arte, nella musica, nella vita sociale e nella politica, ciò che di quegli anni ancora colpisce come un unicum irrepetibile”, ha dichiarato Assayas (in Martelli, 2013).
Non è un film nostalgico, Qualcosa nell’aria, per questo in realtà è insidioso. Assayas ha evitato di cadere nella trappola di raccontare ciò che non c’è più della sua autobiografia, riuscendo a far scorrere sullo schermo il tessuto vivo della sua memoria e per questo motivo il film è pieno di insidie che elegantemente il regista proietta letteralmente sullo spettatore. Quella che il regista francese ci propone, in definitiva, è una recherche che si avventura in tempi che non sono agevoli da ripercorrere, così come non era una passeggiata muoversi allora in Vietnam. Beninteso, Qualcosa nell’aria non è un film sul Sessantotto, o meglio sul post Sessantotto, ma non gli è possibile sottrarsi alla rappresentazione del clima, degli atteggiamenti e delle contraddizioni che segnarono quegli anni. La critica italiana se da un lato ha giustamente indicato in Qualcosa nell’aria un film di segno differente rispetto ad altri lavori (The Dreamers di Bernardo Bertolucci, Les Amants réguliers di Philippe Garrel, o peggio La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana) che pure si sono avventurati dentro gli anni della contestazione studentesca (e non solo), dall’altro si è anche sgolata nel precisare che quello di Assayas non è un film sul Sessantotto, quasi che occuparsene costituisca di per sé un handicap: vi si oppone l’appunto che la distanza non è ancora sufficiente per creare opere mature su quella stagione storica o addirittura che semplicemente non ce ne sarebbe bisogno, come se invece insistere nello scodellare film su mafia e sull’olocausto avesse un senso oltre il botteghino. In realtà, Qualcosa nell’aria è un film nel Sessantotto perché l’onda lunga di quel sommovimento è ineludibile, è la pasta di cui sono fatti i conflitti grandi e piccoli, individuali e collettivi che i personaggi del film vivono, così come respirano quel senso di infinita creatività che alitava ovunque, dalle arti figurative alla musica al cinema stesso; Gilles, Laure, Christine, Leslie e Alain, i giovani eroi delle storie raccolte in Qualcosa nell’aria, lo sperimentano sulla loro pelle. In questo modo Assayas evita l’insidia della nostalgia e lascia al singolo spettatore (quello non coetaneo dei personaggi del film) la libertà di seguirlo o di perdersi nel ricordo che si annida in mille dettagli. Quanto ai coetanei oggi dei protagonisti dei film, Assayas, può solo chiedere comprensione: “Io vorrei che i giovani di oggi capissero la complessità, l'entusiasmo, i tanti vicoli ciechi che portarono poi al ritorno all'ordine o al terrorismo, e soprattutto come le nostre vite fossero impregnate di politica, di cultura, di libri, di arte; come per noi contassero le idee e il nostro linguaggio quotidiano comprendesse Marcuse o Deleuze, il marxismo e Mao; e le nostre giornate il dibattito, la riflessione, l'assemblea, lo scontro con la polizia, il volantinaggio, il ciclostile, la cancellazione degli adulti” (in Aspesi, 2013).
E se ogni memoria ha la sua madeleine, talvolta questa risuona più che farsi riassaporare con il tè. Il ricordo della guerra in Vietnam, ad esempio, ha il suono delle pale degli elicotteri. Quello della contestazione studentesca, a sua volta, irrompe quando è sollecitato dal timbro sgraziato del ciclostile in azione. La propaganda politica, la contro-informazione, i messaggi di mobilitazione si veicolavano ricorrendo al volantino e quindi al suo mezzo di produzione: il ciclostile. Lo ricorda bene Assayas, anche nel suo film si stampano volantini. Lo fanno i giovani protagonisti per diffonderli al termine di un’incursione notturna che prevede la copertura della facciata con scritte rivoluzionarie dell’istituto scolastico da loro frequentato. Terminata l’azione, i ragazzi fuggono e lanciano nel cortile della scuola i volantini. verranno ritrovati il mattino dopo dai loro compagni di studio tra il disappunto (specie per le scritte) del corpo insegnanti. Il ciclostile, il suo ansimare meccanico è solo uno tra i mille dettagli e le tante situazioni – le molotov, le bombolette spray, gli attacchinaggi notturni, la stampa libera, per citarne alcune – meticolosamente assemblati da Assayas per ricostruire alla perfezione quella stagione ancora avvolta in una nebbia fatta di agiografie e calunnie impastate insieme, costituendo quasi un tema proibito, forse l’unico non legato a tabù o perversioni sessuali. Ne risulta, invece, un film, al tempo stesso, di genere storico e soprattutto di formazione. Una sorta di ritratto dell’artista da giovane, che in parte rispecchia anche la biografia del regista, ma questo per certi versi è un dato ininfluente sulla riuscita dell’opera.
Il sound del ciclostile non è l’unico tipico dell’epoca di cui Assayas fa uso. Al suo servizio c’è una splendida colonna sonora, decisamente per intenditori, evitando di ricorrere a grandi successi, a brani e autori che tra cinema hollywoodiano e pubblicità si sono tristemente sviliti. Il personaggio principale, Gilles, possiede una raccolta di ellepì per palati fini. Ne scorre alcuni, Shooting at The Moon di Kevin Ayers and The Whole World, This Was dei Jethro Tull, l’album omonimo dei Blind Faith, quello con la dodicenne nuda in copertina, Tadpole della Bonzo Dog Doo Dah Band, Camembert Electrique dei Gong, Byrds, Jimi Hendrix, MC5, ecc, prima di scegliere il primo album di Syd Barrett, The Madcap Laughs, che si apriva con Terrapin. La colonna sonora fa altrettanto, Gilles estrae il disco dalla copertina e lo appoggia sul piatto. Parte il brano. Diegesi da manuale. Da quel mucchio di dischi qualcosa si sparge nel corso del film. Kevin Ayers, ad esempio, che esegue un brano dei Soft Machine, Why Are We Sleeping?, dal primo album uscito nel 1968. Difficile capire se sia stata una scelta cosciente di Assayas far commentare da questo brano il volo di Laure giù dalla villa dove si tiene un party, autentica summa del look di quegli anni, degli sballi, di alcool, droghe, di un numero imprecisato di oggetti a metà strada tra il souvenir e il simbolo, provenienti soprattutto dall’Oriente, Nepal, India, meta e sogno di tutta una generazione, con Katmandu come approdo definitivo. Fatto sta che due anni dopo le vicende di questa finzione, sarà Robert Wyatt, nei Soft Machine al tempo di Ayers e di Laure, a precipitare in un’analoga situazione, restando paralizzato a vita. L’abilità di Assayas è in questo delicato equilibrio tra distacco e aderenza. Molte sono le riprese dall’alto, a sottolineare la distanza dai fatti narrati, ma il realismo nel narrarli è sorprendente. Se si sovrappone la scena del party con un’analoga situazione posta all’inizio del film di Moshe Mizrahi, Les Stances à Sophie, girato proprio nel 1970 e ambientato a Parigi, se ne apprezza la verosimiglianza: atmosfera, sguardi, pose, abiti, tutto corrisponde al mood dell’epoca. Tornando agli ellepì di Gilles, dal mucchio riappaiono in seguito anche i Gong, che non si ascoltano nella colonna sonora, ma si “vedono”, in un certo senso. Infatti, la copertina del loro Camembert Electrique è stampata sulla maglietta di uno dei ragazzi che lavorano nella postazione allestita come regia audio e luci durante il concerto della giovane band con cui Gilles collabora: nel corso della loro esibizione, vengono proiettati dei suoi collages alle spalle dei musicisti che si stanno esibendo facendo ricorso a sonorità spaziali/psichedeliche à la Gong.
Storie musicali che si intrecciano con le vicende del film. L’australiano David Allen prima di dare vita ai Gong fondò proprio i Soft Machine e la prima coppia a separarsi è quella composta da Gilles e Laure poiché, terminato l’anno scolastico, lei segue la famiglia a Londra. Motivo? Il suo patrigno è stato ingaggiato come tecnico delle luci dai Soft Machine. È solo la prima di una serie di separazioni e di reincontri che segnano come stazioni il percorso dei personaggi, che viaggiano non poco, come si è accennato sopra. Gilles e Christine e Alain vanno in Italia, riecheggiando il Grand Tour novecentesco un tempo privilegio di artisti e aristocratici. Raggiungono Firenze, poi Christine lascia Gilles e si avventura con un gruppo agit-prop cinematografico, Gilles e Alain vanno a Pompei, poi Alain e Leslie se ne vanno in Nepal, ma non andranno oltre Kabul e il loro viaggio si rivedrà in un filmato commentato dalla musica dei Tangerine Dream (Sunrise In The Third Dimension, da Alpha Centauri, 1973), Leslie andrà ad Amsterdam per abortire e poi tornerà nel New Jersey, Laure ritroverà Gilles in Italia in occasione del party maledetto (inaugurato dal luciferino Captain Beefheart che esegue Abba Zaba da Safe As Milk), Gilles a sua volta andrà a Londra. Inquietudine e necessità spingono tutti in un (falso) movimento, dove è solo il tempo a scorrere, inesorabile.
Assayas cita molto, sempre con discrezione, cita per afferrare e stringere in pugno ricordi friabili e ormai indifesi, cita a partire da se stesso, perché anche i personaggi di L’eau froide (1994) si chiamano Gilles e Christine e da quel film arriva anche il grande falò del party e sempre Gilles ne L’eau froide recita Allen Ginsberg (Wichita Vortex Sutra dalle raccolte Planet News e The Fall of America), mentre il Gilles di Qualcosa nell’aria declama Gregory Corso (I Am 25 da Mindfield). Diverse le citazioni cinematografiche: Joe Hill di Bo Widerberg, che Gilles e Christine guardano al cinema (uscì nel 1971), tenendosi teneramente mano nella mano e baciandosi; Laos, images sauvées di Madeleine Riffaud e Le courage du people del peruviano Jorge Sanjines, esempi di cinema delle e per le masse proiettati dai militanti del collettivo al quale si sono aggregati Gille, Christine e Alain per recarsi in Italia. "I film devono educare lo spettatore e un linguaggio troppo specialistico rischia di farlo assurgere a puro spettacolo di divertimento per un pubblico piccolo-borghese", dichiara uno dei membri dopo la proiezione di Laos, images sauvées. A più riprese il cinema e le arti figurative evidenziano le contraddizioni tra politica ed estetica, tra impegno e disimpegno, entrambi presunti.
Widerberg, inoltre, non è citato a caso: rivolgano uno sguardo simile alla natura. Come non pensare alla conversazione dei due giovani innamorati, Kjell e Anna, in Ådalen 31, e a quella in cui Gilles e Laure si lasciano: stessa scena illuminata dal sole e all’ombra rispettivamente, nascita e fine (apparente) di un amore. È quella stessa natura di stampo impressionista che si ritrova spesso in Eric Rohmer, con il quale Assayas condivide non poco anche le inquietudini dei suoi adolescenti. Anche i corpi degli attori sono in qualche modo delle citazioni, se Gilles/Metayer ricorda un po’ Donovan e soprattutto Syd Barrett, in Laure/Combes sembra davvero rivivere un’autentica icona del cinema a cavallo tra i Sessanta e i Settanta: Tina Aumont.
Assayas, insomma, cita a profusione, ma con assoluta discrezione. Ecco Blaise Pascal impiegato a mo’ di esergo (“Tra noi e l'Inferno o tra noi e il cielo c'è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo"), un passo da I pensieri letto in classe dal professore di filosofia (si suppone). Successivamente, un altro insegnate avvia una lezione su Max Stirner. Di essere citato tocca poi a Gli abiti del presidente Mao di Simon Leys, ovvero il sinologo belga Pierre Ryckmans che denunciò violenze ed eccessi delle guardie rosse e ella rivoluzione culturale. Assayas cita molto, soprattutto Guy Debord, con Gilles che legge in treno La véritable scission dans l'internationale. circulaire publique de l'Internationale situationniste e gli scritti sull’arte di Kazimir Malevič. Dal cinema, alla filosofia e alla poesia, ma anche alle arti figurative, le citazioni sono incastonate nel film, impreziosendolo. Bellissima la scena che riprende Leslie osservare prima The regents of the Old Men's Home in Haarlem e poi voltandosi The regentesses of the Old Men's Home in Haarlem (1664), del pittore olandese Frans Hals, contemporaneo di Rembrandt. Un momento di sospensione temporale sottolineato dalla musica degli Amazing Blondel, gruppo inglese che in piena era psichedelica riscopriva il folk e la musica barocca inglese, adottando anche un look coerente. Quello di Leslie è un ritratto incorniciato tra due ritratti di gruppo. C’è spazio anche per l’arte contemporanea, con Gilles che viene a conoscenza dell’opera di Alighiero Boetti, Alain gli mostra Mappe, un altro momento in cui ci si dibatte sul ruolo dell’arte (specchio o martello?); e si cita un gigante della letteratura pop europea (che altro è il suo Maigret?), ovvero Georges Simenon, che il padre di Gilles adatta per la televisione (è uno sceneggiatore, come nella realtà il padre di Assayas). Infine, la più divertente delle citazioni, un intero genere: lo sci-fi cinematografico. Di scena è un immaginario film di serie indefinibile a base di nazisti e mostri preistorici sul cui set a Londra Gilles si ritrova partecipando a uno stage. Amori, speranze, sogni, errori, strade senza uscita (si accenna quanto basta alla tentazione del terrorismo), inquietudine. Si chiude con una scena di commovente bellezza. Gilles in una sala cinematografica (una serata dedicata al cinema sperimentale…) rivede sullo schermo Laure. L’accompagnano le note di Decadence di Kevin Ayers (da Bananamour, 1973). Amore bruciato, gioventù, innocenza, Laure attraversa un campo, natura rigogliosa, in fiore, visione trasfigurata, rivive, è arte, l’immagine si fa luce, fissa, abbacinante, ciò che resta del fuoco, tempo ritrovato.
LETTURE
— Aspesi Natalia, http://trovacinema.repubblica.it/news/dettaglio/quando-avere-16-anni-era-unavventura/421405
— Fiorentino Francesca, (a cura di), http://www.movieplayer.it/film/articoli/olivier-assayas-e-il-post-68-di-qualcosa-nell-aria_10379/
— Martelli Elena, http://www.huffingtonpost.it/2013/01/14/qualcosa-nellaria-il-film-sul-1968-in-francia-nei-cinema-_n_2472739.html